L’elezione di Donald J. Trump è stata a più riprese descritta ed enfatizzata come un punto di svolta nella storia recente degli Stati Uniti e della parte di mondo da loro egemonizzata. In questa analisi si cercherà di comprendere se, in termini geopolitici, si è potuto realmente parlare di svolta e quale eredità lascerà il quadriennio trumpista al declinante “impero” dell’Estremo Occidente.

 

Chi scrive, in un’analisi pubblicata sul sito di “Eurasia” poche settimane dall’elezione di Donald J. Trump a presidente degli Stati Uniti nel 2016[1], avanzò una similitudine con il racconto solovieviano della setta degli “adoratori del buco”, una pseudoreligione diffusasi nelle desolate steppe russe, la cui liturgia consisteva nello scavare un buco sulla parete dell’izba; poi, una volta avvicinate le labbra, si pronunciava la preghiera: “casa mia, buco mio, salvami e proteggimi”. Solov’ëv paragonava questo particolare culto al cristianesimo umanista di ispirazione tolstojana in voga nella Russia della fine del XIX secolo, traendo la conclusione che le due dottrine fossero sostanzialmente identiche. Il cristianesimo senza Cristo, secondo Solov’ëv, era infatti come un luogo vuoto, come un buco su una parete. Tuttavia, gli “adoratori del buco” avevano perlomeno il merito di chiamare le cose con il loro nome.

Se l’amministrazione Trump ha avuto un merito (almeno inizialmente e prima del ritorno al pompeiano “mondo libero che si confronta con la tirannia del comunismo cinese”), è stato indubbiamente quello di aver superato la stucchevole retorica della “responsibility to protect”, o dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, mostrando il volto reale dell’America.

Di fatto, Donald J. Trump non ha avuto alcuna esitazione nel definire l’Europa come “foe” (nemico)[2], mostrando che qualsiasi forma di unificazione continentale europea (sia essa di ispirazione tecno-liberista, comunitarista o socialista e così via) viene comunque percepita come minaccia dagli Stati Uniti qualora non sia direttamente controllata da Washington.

E lo stesso Trump non ha avuto alcuna esitazione ad ammettere che gli Stati Uniti stavano occupando la Siria nordorientale al mero scopo di controllare le risorse petrolifere siriane: ovvero, per impedire la ricostruzione economica del Paese sconvolto dal conflitto commissionato dall’Occidente[3]. Motivo che spinse Bashar al-Assad (già obiettivo, alla pari del presidente venezuelano Maduro, di un potenziale assassinio mirato prima smentito e poi confermato, forse per fini elettorali) a definire Trump come “il più trasparente tra i presidenti degli Stati Uniti”[4].

Un parere non dissimile a quello della Guida Suprema della Rivoluzione Islamica Ali Khamenei, che a suo tempo dichiarò: “Noi apprezziamo Trump, perché ha fatto il lavoro per noi rivelando la vera faccia dell’America”.

A questo punto, è bene sottolineare che in termini geopolitici, nonostante una notevole diffusione (soprattutto tra le schiere collaborazioniste europee) della tesi propagandistica del “Trump pacifista” (tesi che, ad onor del vero, non ha alcun riscontro nella realtà), non vi è stata alcuna sostanziale discontinuità tra l’ultima amministrazione nordamericana e quelle che l’hanno preceduta (in particolar modo la tanto criticata – dagli esponenti ed ideologi di spicco del trumpismo – amministrazione Obama). Anzi, la geopolitica trumpista, se si dovesse analizzarla da una prospettiva essenzialmente nordamericana, ha rappresentato una vorticosa accelerazione delle dinamiche messe in moto durante il secondo mandato di Barack Obama.

Come ha giustamente fatto notare il Direttore di “Eurasia” Claudio Mutti in un’intervista alla rivista serba Pečat, già nel 2014 in un discorso pronunciato all’Accademia Militare di West Point, l’ex presidente nordamericano “affermò che il costo delle azioni militari all’estero era troppo elevato e che quelle intraprese senza considerarne le conseguenze si risolvono in disastri economici. Perciò, nei casi in cui gli Stati Uniti non sono minacciati direttamente non è necessario un intervento diretto, ma occorre utilizzare gli alleati regionali, coinvolgendoli in guerre per procura”[5].

Obama, ben prima di Trump, era giunto alla conclusione che, in un momento di progressiva erosione della potenza nordamericana, la mera forza militare non poteva più essere il solo deterrente possibile per garantire l’egemonia statunitense. In una versione mitigata della dottrina Cebrowski, la strategia obamiana si concentrò (come nel caso di Libia, Siria e Yemen) nell’utilizzo di forze mercenarie e di gruppi terroristici direttamente collegati ai servizi segreti occidentali per determinare il caos in diverse aree del continente eurasiatico, dal Levante ai confini della Russia.

L’amministrazione Trump ha proseguito lungo questa linea. Ha sapientemente sfruttato il capriccioso alleato turco in Siria per prolungare il conflitto. Non ha mai interrotto il sostegno logistico all’aggressione saudita allo Yemen. Ha dato vita ad un accordo-truffa che condanna all’inesistenza il popolo palestinese dopo aver riconosciuto la sovranità sionista su Gerusalemme e Golan siriano (anche per rendere il favore ai molti e generosi finanziatori della sua campagna elettorale, Sheldon Adelson su tutti). Ha imposto un regime sanzionatorio unilaterale e criminale all’Iran sfruttando il peso del dollaro come valuta di scambio internazionale. (Le guerre commerciali vengono considerate come guerre a tutti gli effetti sin dall’antichità!). Ha assassinato il Generale Soleimani in missione diplomatica, per evitare ogni possibile mediazione tra l’Iran e le monarchie del Golfo Persico e per perseguire i suoi precisi disegni strategici: ad esempio, la firma dei cosiddetti “Accordi di Abramo” di cui si tratterà a breve.  Ha cancellato l’“accordo sul nucleare” con l’Iran, i cui termini, ad onor del vero, non venivano minimamente rispettati già dal suo predecessore.

Un’altra linea di assoluta continuità con la precedente presidenza è rappresentanza dalla dottrina di contenimento nei confronti di Russia e Cina, definite a più riprese nei documenti del Dipartimento di Difesa come “malign entities”. 

Sotto Trump, l’obamiana dottrina del “Pivot to Asia” (legata allo spostamento del centro del commercio globale nella regione dell’Indo-Pacifico) è divenuta l’asse portante della geopolitica nordamericana. Così, oltre alla crescente presenza navale e militare nel Mare Cinese Meridionale (2000 operazioni militari nei soli primi sei mesi del 2020), si è operato per la massiccia vendita in armamenti ai potenziali nemici della Cina (Taiwan in primo luogo) e per la destabilizzazione di Hong Kong e di diversi Paesi che occupano un posto di primo piano nel progetto di cooperazione e integrazione eurasiatica della Nuova Via della Seta, dalla Thailandia al Kirghizistan fino alla regione del Kashmir, al Libano ed al caso clamoroso della Bielorussia (senza considerare le reiterate pressioni a Pechino sullo Xinjiang, culminate con la recente rimozione dalla lista dei gruppi terroristici del cosiddetto Movimento Islamico del Turkestan Orientale)[6]

Washington, in speciale modo, ha puntato sull’India e sui rapporti non idilliaci tra Nuova Delhi e Pechino per scatenare un conflitto regionale (tra due dei maggiori Paesi produttori mondiali) che, di fatto, ritarderebbe enormemente il declino egemonico statunitense.

Un’attenzione particolare la merita anche la figura del noto truffatore Steve Bannon, che, nonostante l’allontanamento dalla Casa Bianca, in virtù del sostegno economico garantitogli dal corrotto magnate Guo Wengui, ha continuato a propagandare le sue tesi anticinesi.

Il ruolo di Bannon all’interno dell’ormai passata amministrazione è stato a più riprese sottostimato. Di fatto, quello che a buon grado può essere definito come il vero ideologo del trumpismo, prima di lasciare il suo ruolo di Chief Strategist, è riuscito a piazzare diversi uomini all’interno dei gangli dell’amministrazione che hanno apertamente perseguito quelli che erano i suoi obiettivi strategici. Uno di essi è sicuramente Randall G. Schriver: fondatore insieme a Richard Armitage (di orientamento democratico) del think tank “Project 2049” ed ex assistente del Segretario alla Difesa per la regione dell’Indo-Pacifico. È stato lui infatti a progettare il recente rafforzamento dei legami militari e commerciali con Taiwan in chiave dichiaratamente anticinese.

Di particolare interesse è anche l’azione dell’amministrazione Trump in Europa ed ai confini russi. Qui Washington si è concentrata sulla rottura dei rapporti tra Europa occidentale e Russia (il caso North Stream 2) e sul rafforzamento della propria presenza nell’Europa orientale anche attraverso la messa in moto dell’Iniziativa “Tre Mari” (altra eredità dell’era Obama), che, unendo dodici Paesi dell’area che va dal Mar Baltico al Mar Nero e al Mediterraneo sotto l’ombrello protettivo statunitense, forma un vero e proprio cordone sanitario ai confini della Russia[7].

Se a tale iniziativa si aggiunge l’attuale destabilizzazione della regione caucasica, che al momento impedisce la formazione di un corridoio Nord-Sud da Mosca verso Teheran e l’Oceano Indiano, si può tranquillamente affermare che la politica di contenimento della Russia è a buon punto. E se all’Iniziativa Tre Mari si aggiungono gli Accordi di Abramo che legano Israele ad alcune monarchie della Penisola Arabica (con l’esclusione momentanea dell’Arabia Saudita, i cui rapporti di intelligence con Tel Aviv non sono comunque mai stati in discussione), si forma un blocco di contrapposizione tra l’Europa occidentale (“gioiello” dell’impero nordamericano) ed il resto dell’Eurasia, un blocco il cui obiettivo è rendere vana ogni progettualità di cooperazione tra le due parti di questo vasto Continente e, di conseguenza, garantire ancora per qualche decennio la supremazia nordamericana.

Paradossalmente, fatta eccezione per il caso brasiliano dove è stato insediato un presidente che rimarrà fedele alleato degli USA a prescindere da chiunque vi sia al comando, è proprio nel “patio trasero” che l’ormai passata presidenza ha registrato sostanziali insuccessi strategici. Il golpe boliviano è rientrato con la vittoria elettorale di Luis Arce, mentre la strategia di pressione e blocco navale sul Venezuela non ha sortito (al momento) gli effetti sperati. Ma niente impedirà alla nuova amministrazione Biden-Harris di proseguire ed intensificare gli sforzi nella medesima direzione.

Nel complesso, l’amministrazione Trump, a prescindere dal presunto ed ostentato “isolazionismo” (pochi si ricordano che il cosidetto isolazionismo è stata la prima manifestazione di una forma imperialistica tipicamente nordamericana), è stata propedeutica alla preparazione ed all’accelerazione (soprattutto dopo l’esplosione di una crisi pandemica che ha generato non pochi problemi ad una classe dirigente dimostratasi inadeguata nella grande maggioranza dei Paesi sotto l’influenza di Washington) della strategia geopolitica nordamericana per il prossimo decennio. Una strategia che, anche se dovesse venir nuovamente velata dalla retorica democratica, sostanzialmente non cambierà nei suoi obiettivi finali.


NOTE

[1]    Donald Trump, “uomo nel tempo”, www.eurasia-rivista.com.

[2]    Donald Trump: European Union is a foe on trade, www.bbc.com.

[3]    US troops will remain in Syria to ‘protect’ oil fields from ISIS, www.southfront.com. Il petrolio siriano è stato prima contrabbandato dallo Stato Islamico attraverso la Turchia. Mentre, in un secondo momento, con l’occupazione delle Forze democratiche siriane (in larga maggioranza di etnia curda) e dell’esercito nordamericano, il petrolio è stato trasportato illegalmente in Israele grazie all’oscuro affarista Mordechai Kahana (già in ottimi rapporti con John McCain). A questo proposito si veda, Arab paper reveals Syrian Kurds oil privilege to Israeli businessmanwww.farsnews.com

[4]    Syria’s Assad calls Trump the “most transparent president”, www.politico.com.

[5]    Trump interrompe la strategia di Obama?, intervista a Claudio Mutti sulla rivista serba Pečat, www.eurasia-rivista.com.

[6]    L’amministrazione Trump (come i suoi predecessori) ha sfruttato a più riprese diversi gruppi terroristici che agiscono nelle regioni dell’Asia Centrale o del Vicino e Medio Oriente per il raggiungimento dei propri obiettivi strategici. Un rilievo particolare lo merita anche la grande amicizia che lega Rudy Giuliani (già avvocato dell’ex presidente) ai vertici dell’organizzazione terroristica iraniana del MeK (Mujaheedin e-Khalq) che mira al cambio di regime a Teheran. Si veda Rudy Giuliani calls for Iran regime change at rally linked to extreme group, www.theguardian.com.

[7]    Si veda C. Mutti,  Il cordone sanitario atlantico, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 3/2017. A questo progetto è legato anche il recente trasferimento di ingenti unità militari nordamericane dalla Germania alla Polonia.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).