Abbiamo colpito una cellula, ed ora colpiremo i fornitori. Faremo ciò che è necessario per difendere noi stessi. Suggerisco a tutti loro, Hezbollah incluso, di considerare ciò”.

(Benjamin Netanyahu su Twitter, 4 agosto 2020)

 

L’ultimo numero di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, dall’emblematico titolo Il virus acceleratore, ha cercato di mettere in luce le potenziali prospettive geopolitiche della fase postpandemica. A prescindere dall’origine della crisi epidemica, sia essa naturale (un “incidente biologico”) o generata dall’uomo (fuga da laboratorio o atto deliberato di guerra batteriologica), tutti i contributi pubblicati sulla rivista hanno convenuto sul fatto che la crisi abbia generato l’“accelerazione” di taluni processi che, in un’altra situazione, con tutta probabilità, avrebbero richiesto mesi o anni prima di emergere e di mostrarsi con tutta la loro forza: uno su tutti, l’inasprimento dello scontro USA-Cina. Non si può dimenticare, infatti, che, solo nel gennaio di questo stesso anno, le due potenze raggiunsero un accordo che il presidente nordamericano Donald J. Trump definì nei termini di una grande vittoria della sua diplomazia.

Il medesimo discorso si potrebbe facilmente applicare a quanto avvenuto in questi giorni in Libano. Al momento non è dato conoscere l’origine dell’esplosione che ha letteralmente raso al suolo il fulcro dell’attività commerciale del Paese levantino. Tuttavia, sia essa accidentale o deliberatamente organizzata, con tutta probabilità scatenerà una reazione che farà riemergere (con violenza raddoppiata) le mai sopite tensioni interne allo Stato e che, naturalmente, avrà profonde ripercussioni geopolitiche.

È ben noto che il Libano, oramai da decenni, rappresenta un territorio di contesa tra “Occidente” ed Eurasia. Dopo quella che è stata indebitamente definita come la “primavera libanese” del 2005, diversi Paesi “occidentali” (tra cui Francia, Stati Uniti e Regno Unito)[1], insieme ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, organizzarono un gruppo, noto con l’infausto nome di “Friends of Lebanon”, che si proponeva di garantire aiuti finanziari a Beirut in cambio della sostanziale annessione del Paese alla sfera di influenza dell’“Occidente”[2]. Per anni Sauditi ed Emiratini hanno trattato il Libano come una semicolonia, nutrendo una classe politica palesemente corrotta e costruendo grattacieli, locali notturni e sale da gioco.

Questi aiuti sono stati progressivamente tagliati nel momento in cui il Paese ha iniziato a perseguire un orientamento geopolitico decisamente differente rispetto ai desideri occidentali. In questo, naturalmente, Hezbollah ha giocato un ruolo fondamentale, avendo rovinato sia i piani di annessione sionista della parte meridionale del Paese dei Cedri con la vittoria del 2006, sia il progetto di distruzione della Siria.

Non sorprende il fatto che gli Stati Uniti, ad esempio, abbiano inviato le condoglianze per i morti dell’“incidente” al porto di Beirut all’ex primo ministro libanese Saad Hariri (ben noto “fantoccio” saudita) ma non a Hasan Diab, attualmente capo di un governo sottoposto alle dure misure restrittive di quel “Caesar Act” che prevede sanzioni nei confronti di persone e istituzioni che intrattengono rapporti con il Partito di Dio[3].

In un documento dal titolo Strenghtening America & Countering Global Threats, prodotto e rilasciato nel giugno di quest’anno da un centro studi nordamericano di orientamento repubblicano-conservatore e vicino all’attuale amministrazione USA, vengono delineate le linee guida di quella che dovrebbe essere la politica estera degli Stati Uniti negli anni a venire. Oltre all’interessante sezione dedicata all’idea di “mantenere un ordine internazionale basato sui valori americani” (cosa che contraddice la propaganda isolazionista costruita attorno all’amministrazione Trump), particolare attenzione merita la parte, corredata di precise carte geografiche, in cui viene descritta la strategia da adottare per limitare l’influenza iraniana nel Vicino Oriente.

A questo proposito, alla pagina 50 del documento si può osservare una mappa in cui vengono segnati quei “ponti terrestri” (assolutamente da distruggere) che dall’Iran arrivano fino al Mediterraneo. E nella medesima sezione, per quanto concerne il Libano, si legge: “Congress should prohibit an IMF bailout of Lebanon […] Lebanon is currently seeking a bailout because of its dire economic situation […] Such a bailout would only reward Hezbollah at a time where protesters in Lebanon are demanding an end to corruption and standing against Hezbollah’s rule[4].

Sorvolando sulla percezione abbastanza distorta della politica libanese palesata da queste affermazioni[5], ciò che appare evidente è la volontà di applicare al Libano una strategia per certi versi simile a quella utilizzata sia in Iran sia in Venezuela: strangolare il Paese economicamente per generare malcontento sociale.

Esacerbare le tensioni sociali dovute alla crisi economica, ridare adito alle mai sopite diatribe di ordine settario, far passare Hezbollah come mero strumento geopolitico per la penetrazione iraniana in Libano (magari attribuendo ad esso la responsabilità di quanto avvenuto), sono tutte azioni che si prestano alla preparazione di una  nuova  potenziale guerra civile che, qualora ben gestita, potrebbe portare in dote la pur difficile neutralizzazione del Partito di Dio[6].

Appare evidente che l’“incidente” al porto di Beirut non farà altro che accelerare tutte queste dinamiche. E la stessa tempistica di quanto avvenuto non può che far sorgere qualche dubbio sulla natura dell’evento.

Si è scelto di porre all’inizio di questo articolo una quanto meno “profetica” dichiarazione del primo ministro israeliano lanciata sulla piattaforma sociale di Twitter a poche ore dall’esplosione nella capitale libanese.

Le ragioni di tale scelta sono legate al fatto che, solo a luglio di quest’anno, un centro di ricerca israeliano aveva indicato l’area portuale di Beirut come un potenziale obiettivo militare della Forza di difesa israeliana. Qui ed in altre aree (anche residenziali) della capitale, secondo l’Alma Research and Education Center, erano (e sono tuttora) posizionati siti per lo stoccaggio ed il lancio di missili da parte di Hezbollah[7].

Tuttavia, la distruzione dell’infrastruttura non rientra nel novero di semplice eliminazione delle capacità di reazione militare del nemico. Questa, almeno in linea teorica, potrebbe avere delle ben più radicate motivazioni di natura prettamente geostrategica.

Come riportato da Stefano Vernole nel numero 2/2020 di “Eurasia”, la Cina aveva scelto il Libano (a discapito di Israele) come uno dei terminali mediterranei del progetto di cooperazione eurasiatica noto come Nuova Via della Seta. “La Cina – afferma Vernole prendendo spunto dalle dichiarazioni dell’economista Kamal Hadamis – intende costruire una ferrovia per connettere il porto libanese di Tripoli alla città siriana di Homs (coinvolgendo anche Beirut ed Aleppo), generando così un corridoio che consentirebbe di ridurre i tempi di trasporto delle merci e di evitare il transito dal canale di Suez, già intensamente navigato”[8].

Inoltre, sempre nel mese di luglio, Cina ed Iran hanno raggiunto un accordo di cooperazione strategica pluridecennale che ha dato ulteriore slancio alla progettualità di integrazione eurasiatica e mina alle fondamenta la strategia regionale nordamericana. Di fatto, tale accordo, considerando anche che a partire da ottobre avrà anche una sua estensione in ambito militare, rappresenta una seconda ramificazione di quell’asse islamico-confuciano (la prima può essere ben rappresentata dalla già ampiamente avviata collaborazione tra Cina e Pakistan) che viene percepito da molti analisti filoatlantisti alla stregua di una minaccia esistenziale per l’egemonia nordamericana[9].

In questo senso, sono chiare le parole di Ali Aqa Mohammadi (consigliere della Guida Suprema Ali Khamenei): “La coordinazione tra Iran e Cina può condurre la regione fuori dalle mani degli USA, rompendo la sua tentacolare rete regionale”[10].

Alla luce di questi fatti appare evidente che la distruzione dell’infrastruttura libanese, inserita in un quadro più ampio, costituisce non solo un punto di partenza per una nuova destabilizzazione del Levante e dell’intera area mediterranea, ma anche un avvertimento “gangsteristico” ad ogni potenziale rafforzamento della cooperazione regionale ed al patrocinio sino-iraniano sulla stessa.

A questo proposito, l’ambasciatrice nordamericana in Libano è stata abbastanza chiara mettendo in guardia il governo libanese da un eccessivo avvicinamento con Pechino. Essa, infatti, ha affermato che “voltarsi verso est non risolverà tutti i problemi del paese ed ha avvertito che questo riavvicinamento potrebbe aver luogo a spese della prosperità, stabilità e sostenibilità finanziaria del Libano”[11].

Impedire che il Paese si rivolga ad Oriente per risolvere i suoi enormi problemi strutturali rappresenta in questo momento il principale obiettivo dell’Occidente a guida nordamericana. In tal senso, non si può tralasciare il fatto che il Libano avrebbe potuto rappresentare anche un trampolino di lancio per la ricostruzione della vicina Siria: altra eventualità assolutamente deprecabile tanto per gli Stati Uniti (che ne occupano ancora una cospicua porzione di territorio) quanto per il vicino Israele.

Oggi più che mai, risuonano ancor più significative le parole che Gilles Munier scrisse nella dedica al martirio del militante europeo nei fedayyin palestinesi Roger Coudroy: “la lotta contro il sionismo oltrepassa ampiamente le frontiere della Nazione Araba […] Israele, pilastro dell’imperialismo anglosassone, è una minaccia permanente per tutti i popoli rivieraschi del Mediterraneo”[12].


NOTE

[1]Non a caso, il primo a manifestare la volontà di “aiutare” il popolo libanese è stato il presidente francese Emmanuel Macron, recatosi a Beirut pochi giorni dopo l’“incidente” ed accolto da una surreale petizione che proponeva per il Libano una sorta di nuovo mandato coloniale gestito da Parigi.

[2]Si veda K. Traboulsi, Beirut explosion: be angry, not just sad, for Lebanon, www.english.alaraby.co.uk.

[3]Tre membri di Hezbollah partecipano all’esecutivo dell’ex professore di ingegneria dell’Università Americana di Beirut. Tuttavia è bene ricordare che anche Saad Hariri, prima delle sue dimissioni, aveva all’interno del suo governo rappresentanti del Partito di Dio. Ciò dimostra che, in qualunque caso, è impossibile governare il Paese levantino senza tenere in considerazione una forza che rappresenta un’ampia fetta della popolazione. In “Occidente” si continua a considerare il Movimento di resistenza libanese come una semplice emanazione degli interessi geopolitici iraniani nel Paese dei Cedri. Al contrario, Hezbollah è una forza politico-militare profondamente radicata in Libano, tanto da risultare indispensabile per la sicurezza stessa della Nazione. Non si può dimenticare il ruolo svolto dall’ala militare del Partito nella difesa dei confini libanesi dalle potenziali penetrazioni dei gruppi terroristici che, a partire dal 2011, hanno messo a ferro e fuoco la Siria.

[4]Strenghtening America & countering global threats, www.docdroid.net.

[5]Appare evidente che Hezbollah, pur avendo un ruolo di primaria importanza nella politica del Paese levantino, non governa affatto il Libano. Tuttavia, è assolutamente utile far passare in “Occidente” questo messaggio per dare sfogo a quel ben noto meccanismo propagandistico che porta il pubblico a parteggiare per i “rivoltosi” e per azioni decise contro una forza politico-militare che nulla ha da spartire con i presunti valori occidentali. Non va tralasciato, inoltre, che i mezzi di informazione sionisti hanno apertamente cercato di attribuire la responsabilità dell’esplosione ad un commando di Hezbollah per scatenare la rabbia popolare nei confronti del Movimento politico libanese.

[6]A questo proposito si può vedere M. Young, Destroying Lebanon to save it, www.carnegie-mec.org.

[7]Israeli research center finds 28 Hezbollah missile launch sites, www.jpost.com.

[8]S. Vernole, Siria: inizio di ricostruzione o guerra di logoramento, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 2/2020.

[9]È bene ricordare che anche la collaborazione tra Cina e Iran è radicata nel tempo. Pechino, infatti, fornì aiuto militare alla neonata Repubblica Islamica sin dalla guerra contro l’Iraq degli anni ’80 del secolo scorso.

[10]Iran-China deal to ditch dollar, bypass US sanctions: Leader’s advisor, www.presstv.com.

[11]Il Libano si rivolge alla Cina per risolvere la sua crisi finanziaria, www.parstoday.com.

[12]G. Munier, “La Nation Européenne” , n. 29 novembre 1968 (trad. C. Mutti).


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).