Alla vigilia della caduta del governo Berlusconi, il Times, celebre testata britannica, additava l’attuale ex Primo Ministro italiano come l’uomo alla guida dell’economia più pericolosa al mondo. Gli Stati Uniti hanno dato il loro placet a questo approccio, tentando di spostare l’attenzione dai loro gravi problemi economici a quelli europei. Tuttavia, dopo le deboli speranze sul raggiungimento di un accordo fra Democratici e Repubblicani sul deficit, è arrivata la notizia che il “Super-committee” istituito ad hoc ha fallito.

 

Che la crisi economica mondiale, esplosa nel 2008 ma già latente da tempo, provenga da oltreoceano è dato sul quale tutti si trovano concordi. Che la crisi economica sia stata causata da istituti di credito, che hanno speculato e intasato letteralmente il mercato finanziario di titoli tossici, è altrettanto assodato. Che Obama, nei suoi già 3 anni al potere, non sia stato in grado né di risollevare l’economia degli Stati Uniti, né di attuare riforme degne di nota e men che meno utili al Paese, è cosa sotto gli occhi di tutti.

 

La crisi economica del 2008 esplose e venne a galla con il disastro finanziario causato dagli istituti di credito negli USA, e saltò agli occhi non solo per la conseguente bancarotta di banche come la Lehman Brothers, ma anche per il fatto che molti cittadini si erano ritrovati da un momento all’altro impossibilitati a pagare il mutuo della propria abitazione, vedendosela pignorata. Il dramma della gente comune in prima pagina aveva toccato molti. Al presidente Obama si poneva una grande sfida dinanzi: cercare di risollevare le sorti della nazione, varare misure che fungessero da volano per l’economia e agire affinché la disoccupazione dilagata nel giro di pochi mesi subisse un freno.

 

Le cronache di mesi orsono ci testimoniano che, dal 2009 a oggi, gli Stati Uniti non hanno avuto una ripresa né economica né in termini di occupazione. Se ciò non bastasse, solo qualche mese fa si era palesato l’ingente problema del deficit in procinto di raggiungere il tetto massimo consentito dalla legislazione nazionale. In agosto, dopo affannati tentativi di smorzare sia toni sia la preoccupazione in seno ai mercati finanziari, si era riusciti a raggiungere un accordo bipartisan e a rimandare la decisione sul default, grazie alla costituzione di un “Super-committee” formato da 6 rappresentanti dei Repubblicani e altrettanti Democratici.

 

Milleduecento miliardi di dollari. Questo è il numero che ogni statunitense dovrebbe tenere sempre a mente; questo è ciò che ci dà la misura del disastro finanziario dell’unica Superpotenza attualmente conosciuta. Il Paese è chiamato, da qui a dieci anni, a riportare il proprio deficit sotto i livelli di guardia, ma non si è trovato alcun accordo sulle modalità. Se da un lato i Democrats non vogliono cedere a tagli ai programmi di assistenza, dall’altro i Repubblicani ritengono inaccettabile un nuovo giro di vite sulle tasse, che impatterebbero maggiormente sulle fasce più agiate dalla popolazione. Secondo ciò che riporta Euronews, “il fallimento della super-commissione non implica alcun rischio di default, ma è un segnale inquietante per le agenzie di rating: Fitch si riserva di valutare la situazione a fine mese, mentre Moody’s e Standard and Poors non vedono per ora conseguenze sul rating americano. Fallito l’accordo, scatteranno tagli di spesa automatici a partire dal gennaio 2013”.

 

Politica ed economia sono legate così strettamente da poter essere viste come due facce della stessa medaglia. Ecco perché il presidente in carica Obama sta tentando di portare avanti una campagna politico-mediatica che lo aiuti a colmare quella impopolarità dovuta, evidentemente, a un’incapacità di fondo di riuscire a far “funzionare le cose”. Se solo il mese scorso vari rappresentanti della comunità di colore, fra cui speaker radiofonici e addirittura esponenti religiosi, tentavano di riportare a galla lo spirito dei “colored” affinché continuassero a sostenere il “fratello” Obama, ora assistiamo a un ennesimo e differente approccio nella lunga via alla popolarità.

Non potendo ricorrere a esempi concreti di successo della propria politica, il presidente nordamericano attacca i Repubblicani sul mancato raggiungimento di un accordo. La strategia che sta attuando è sicuramente intelligente, anche se non di altrettanto certa utilità. Durante i vari interventi e discorsi in giro per la nazione, Obama ha definito i propri avversari politici degli “ipocriti”, politici che hanno fatto voto di servire il bene della patria ma che vogliono solo tutelare gli interessi di pochi. Questa è un’argomentazione che potrebbe, forse, trovare terreno fertile fra i tanti elettori che hanno perso il lavoro o che vivono sulla propria pelle le ristrettezze economiche frutto della crisi. D’altro canto, ripetere che i Democratici sono fermamente contrari ai tagli ai programmi di assistenza non può che andare positivamente ad aggiungersi al nuovo approccio per riguadagnare consensi.

 

Non si può certo contestare a Obama che manchi d’inventiva, almeno per ciò che riguarda la sua “caccia al voto”, tuttavia il mancato accordo, i tagli automatici che ne deriveranno e la crescita della ricchezza interna in ribasso dello 0,5% non regalano un quadro positivo e incoraggiante per i Democratici. Se in Europa, a fronte della crisi, alcuni governi hanno dovuto cedere il passo ad altri, credo che sia totalmente plausibile continuare a prospettare una sempre più netta perdita di consensi degli “Obamiani”. Se il presidente in carica riuscirà a fare il Miracolo, forse avrà qualche possibilità di essere rieletto. Ma i miracoli, si sa, sono duri a venire.

 

*Eleonora Peruccacci è laureata in relazioni internazionali (Università di Perugia) ed è ricercatrice dell’ISAG

 

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