Secondo recenti sondaggi condotti negli USA, circa il 42% della popolazione ritiene che la questione principale di l’amministrazione Obama debba farsi carico sia proprio la crisi economica. Sebbene molti studiosi abbiano dato il loro plauso all’azione presidenziale, pronosticando una ripresa sul lungo periodo, è importante che vi siano riscontri anche nella vita reale. Il malcontento fra gli statunitensi è costante e l’idea di tassare le banche che attuano politiche lesive del sistema economico, o i fondi stanziati per nuovi progetti a sostegno dell’occupazione sono di aiuto solamente sulla carta.

Recenti indagini inerenti gli ultimi mesi, hanno infatti dimostrato un parziale passo indietro nella già complicata strada della ripresa economica. Secondo l’analisi dei dati le ore lavorate settimanalmente, le paghe medie orarie e gli stipendi nel settore privato hanno subito una battuta d’arresto. L’interpretazione delle statistiche può essere ambigua, questo poiché il settore privato continua a creare lavoro: marzo e aprile hanno visto la nascita di ben 200 mila posti di lavoro, a fronte dei soli 33 mila posti di maggio; solo il mese di giugno ha visto un parziale rialzo a 83 mila nuove assunzioni, a fronte delle circa 110 mila stimate come necessarie per uscire rapidamente dalla crisi.

Ad aggiungere altra carne al fuoco ci pensano i dati che mostrano sì una discesa dell’indice di disoccupazione al 9.5%, ma pure un drastico calo della forza lavoro totale. I dati incoraggianti che venivano proposti all’inizio del 2010 cominciano, neanche troppo lentamente, a dimostrarsi poco attendibili man mano che i giorni trascorrono: ogni mese si crea un minor numero di posti di lavoro, così come coloro che già hanno la fortuna di possederne uno spesso vedono ridotto il proprio orario lavorativo.

La spiegazione è molto semplice: non basta una lieve ripresa (con conseguente creazione di nuovi posti di lavoro) per far sì che il settore privato si rialzi totalmente.

La guerra dei numeri che viene fatta mensilmente sui dati dei sondaggi è una guerra che, purtroppo, si fa su percentuali irrisorie: i guadagni medi orari, ad esempio, hanno subìto un calo dello 0.1% invece che aumentare della stessa percentuale. Risulta ovvio che, continuare a piccoli passi è sì un modo per tentare di andare avanti, ma è obiettivo che le cifre sulle quali sarebbe utile attestarsi per riuscire ad avere una ripresa reale e solida sono ben lungi dalle attuali. Il fatto che l’indice di occupazione mensile presenti quasi sempre un calo rispetto al mese precedente è un campanello d’allarme: gli input dati alla ripresa hanno funzionato, ma solo all’inizio. Risulta, quindi, necessario che Obama punti su altre politiche economiche poiché i risvolti politici del flop che si sta verificando potrebbero non tardare a farsi sentire.

Pensare di lasciare la ripresa economica solo sulle spalle dei consumatori americani, come se il sistema finanziario fosse già in grado di sostenersi da solo, è assolutamente poco credibile. Un dollaro forte continuerà a mantenere le esportazioni basse, la spesa pubblica a favore della ripresa rimarrà costante se non minore rispetto al passato, quindi si supporrebbe di dover contare solo sul consumatore. Se si pensa ciò, però, è importante ricordare che le nuove generazioni dovranno sempre più scontrarsi con un basso accesso al credito, nonché con la sempre minore ricchezza proveniente dal possesso di immobili o di titoli bancari. In sostanza, se l’americano medio non ha molta liquidità a disposizione tenderà, come è logico, a risparmiare; ma si viene a verificare un circolo vizioso poiché minore moneta si immette al suo interno, minore è la capacità di quel sistema di espandersi.

Queste brevi considerazioni dovranno certamente spingere il presidente statunitense a correre ai ripari: le elezioni di mid-term non sono lontane e gli interventi a sostegno dell’economia sono un argomento fondamentale per la campagna elettorale.

L’economia ha ancora bisogno di molto spazio per riprendersi o, come ha affermato Paul Krugman, il Nord America potrebbe ritrovarsi nella “Terza Depressione”. Su questo stanno tenendo banco degli accesi scontri fra democratici e repubblicani al Congresso: i primi stanno, infatti, cercando da settimane di far approvare una serie di misure volte ad aiutare i disoccupati, con sussidi, o assicurazioni sanitarie, e a incoraggiare gli imprenditori, con tagli fiscali, a riprendere le assunzioni. I repubblicani, dal canto loro, fanno una dura opposizione affinché la proposta di legge non passi; il loro scopo è, infatti, quello di puntare sul risanamento del debito più che sullo stimolo all’economia.

I repubblicani affermano che gli statunitensi siano più preoccupati di questo aspetto che degli aiuti contro la crisi, ma il risvolto più interessante è un altro. In effetti, non si può affermare con certezza che i cittadini considerino tale faccenda più importante di altre, ma si può ben pensare che, se falliranno le misure a favore dei lavoratori, la colpa ricadrà pesantemente sui democratici. Questi ultimi sono in maggioranza sia al Senato che alla Camera e diverrà, dunque, facile per l’elettore identificare nei Democrats la causa del prolungarsi della crisi.

Tutti questi aspetti, quindi, stanno attualmente favorendo sulla carta il partito repubblicano ed è in virtù di ciò che Obama dovrà scendere in prima persona per affrontare la crisi economia. Il presidente, ora più che mai, deve puntare su quell’immagine vincente e portatrice di cambiamenti positivi che lo ha premiato nelle scorse elezioni del 2009. Senza contare, poi, che con la nuova campagna presidenziale alle porte, le elezioni di mid-term potranno essere un termometro reale del suo gradimento all’interno del Paese. Un motivo in più per prodigarsi nel sostegno all’economia nazionale, in fondo.


* Eleonora Peruccacci è dottoressa in Relazioni internazionali (Università di Perugia), collabora frequentemente al sito di “Eurasia”

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