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Gli avvenimenti che stanno interessando i Paesi di religione islamica ricordano molto da vicino quello che accadde circa alla metà degli anni Settanta in Europa: nell’arco di pochi mesi, tra il 1975 ed il 1977, Grecia, Spagna e Portogallo furono provvidenzialmente “liberate” da regimi autoritari che non erano più chiaramente al passo coi tempi.
Molti sono ancora gli interrogativi sulla singolare sincronia con cui si verificò quel cambiamento, e non sono pochi gli storici che lo pongono in relazione con una nuova impostazione della politica americana che richiedeva l’abbandono di questi scomodi alleati, fino ad allora sostenuti senza riserve, in virtù del loro sicuro anti-comunismo, nonostante la loro davvero scarsa presentabilità democratica, soprattutto ora che iniziava con l’Urss il lungo confronto propagandistico sui diritti umani, destinato a divenire uno dei non ultimi fattori che hanno contribuito al rapido indebolimento del regime sovietico.
Taluni osservatori inseriscono in questo quadro persino gli avvenimenti dell’Iran del 1978-79, che avrebbero condotto, come sappiamo, al trionfo del regime khomeinista: taluni osservatori, soprattutto legati all’intelligence francese, ritengono infatti che il successo shiita sarebbe stato nient’altro che una sorta di incidente di percorso in uno scenario che postulava comunque l’abbattimento del regime autoritario dello shah.
Quello che sta accadendo in Nord Africa è sicuramente legato e favorito da fattori interni, in Paesi che da troppo tempo sono oppressi da sistemi politici oligarchici che hanno derubato di tutto i loro popoli e ne hanno schiacciato ogni libera possibilità di sviluppo. Ma è altrettanto indubbio che l’unica ragione per cui regimi così corrotti e privi di un consenso effettivo sono sopravvissuti tanto a lungo sta nel benevolo supporto fornito loro dall’Occidente: questo vale per la Tunisia, nella cui involuzione l’Italia ha avuto fra l’altro un ruolo di grande rilievo, benché mai apertamente rivendicato; per l’Egitto, in virtù delle posizioni accomodanti verso l’egemonia israeliana che Mubarak ha sempre mantenuto, divenendo per questa essenziale ragione l’uomo chiave degli Usa nell’area; vale ancor di più per la Giordania, vero baluardo filo-israeliano nella regione; vale sicuramente, anche se in modo differente, per l’Algeria, la prossima possibile “rivoluzione”, in questo caso grazie al particolare rapporto che la lega alla Francia.
C’è da chiedersi ora se la scelta occidentale di sostenere dei regimi in cui sono i militari a diventare garanti insieme dell’evoluzione democratica e dell’allineamento filo-occidentale e non anti-israeliano, sia una scelta davvero lungimirante. Questo ruolo di “fattore d’ordine”, attribuito alle forze armate, è un classico della politica occidentale: è avvenuto nel corso della decolonizzazione ed è stato ricorrente in tutte quelle situazioni nel cosiddetto Terzo Mondo in cui, per l’assenza di una precisa identità nazionale e di tessuti sociali consolidati, gli eserciti erano le sole istituzioni in grado di reggere una parvenza di legalità e di evitare pericolose derive filo-comuniste, come ora potrebbero esservene di filo-islamiste.
Il problema è che, dopo avere parlato per quasi due decenni, di democracy building il dover fare ricorso alle forze armate, come pretoriani che difendono insieme la democrazia ed un allineamento internazionale, rappresenta un ennesimo fallimento nel bilancio della politica occidentale nell’area arabo-islamica.
Ma questa scelta potrebbe in realtà essere rivelatrice di ben altro scenario: quello, da tempo ipotizzato da molti osservatori, come G. Colonna nel suo Medio Oriente senza pace, secondo il quale il Medio Oriente “allargato” (che spazia cioè dal Marocco al Pakistan e dalle repubbliche centro-asiatiche al Corno d’Africa) si starebbe rapidamente avvicinando ad una resa dei conti rivolta a disegnare una volta per tutte un assetto stabile per l’area, sotto la sola possibile e credibile egemonia regionale, quella israeliana. Un redde rationem in conseguenza del quale dovrebbe cadere Ahmadinejad in Iran, dovrebbe essere sradicata l’influenza del Partito di Dio in Libano e dovrebbe essere assicurato il controllo delle riserve petrolifere mondiali grazie alla stabilizzazione dei precari regimi del Golfo; dopo di che si potrebbe pensare ad un ritiro dall’Afghanistan e ad un controllo del caos pakistano attraverso un crescente ruolo dell’India, come pilastro ad oriente di questo assetto complessivo.
Le parole con cui Hosni Mubarak, come molti dei suoi predecessori scaricati dagli americani, si sarebbe scagliato contro questi ultimi, secondo quanto ha riferito l’ex ministro israeliano Benjamin Ben-Eliezer, sono perciò abbastanza patetiche: egli avrebbe infatti preannunciato una valanga islamista che si andrebbe ad estendere dall’Egitto al Golfo Persico, senza capire che, proprio per stabilizzare la regione dal pericolo islamico e realizzare una soluzione definitiva per gli equilibri della regione, occorre sostituire in tutta fretta, prima che sia troppo tardi, regimi non più presentabili con nuove “democrazie”, il cui orientamento filo-occidentale e non ostile allo Stato ebraico sia garantito dai militari – secondo il modello della Turchia, almeno fino a quanto questa non ha dovuto subire la sanguinosa offesa del massacro della Freedom Flottilla.
Il fatto che, negli ultimi mesi, il processo di pace in Palestina sia stato chiaramente abbandonato dagli israeliani, in spregio a qualsiasi, pur fievole, pressione nord-americana, fa chiaramente presagire che il tempo delle decisioni irrevocabili è oramai maturo e che si attende solo appunto il momento opportuno per intraprendere i passi decisivi che dovranno assicurare una pax israeliana nell’area: l’affannoso via vai di alti gradi militari statunitensi con i parigrado israeliani, fra gli Stati Uniti e la Palestina, nelle ultime ore, dimostra che un altro passo è stato compiuto per la soluzione finale dell’intreccio mediorientale.

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