L’elezione di Donald Trump ha provocato un’accelerazione vertiginosa ed improvvisa nel processo storico di decostruzione del mondo unipolare prodotto dal crollo dell’Unione Sovietica alla fine del XX secolo. Analizzare il fenomeno Trump al di fuori degli schemi della dialettica occidentale è il primo passo per comprendere realmente gli scenari geopolitici cui il sistema globale andrà incontro nei prossimi anni.

Vladimir Solov’ëv, nell’introduzione al sunto profetico di tutto il suo lavoro intellettuale, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, realizza un breve excursus in cui dimostra efficacemente perché  l’umanesimo cristiano tolstojano debba essere considerato come una forma religiosa falsa e ipocrita. Per fare ciò Solov’ëv cita la setta dei cosiddetti “adoratori del buco”; una pseudoreligione diffusasi nelle desolate steppe russe la cui liturgia consisteva essenzialmente nel praticare un buco sulla parete dell’izba sul quale, una volta avvicinate le labbra, si pronunciavano le parole: “Casa mia, buco mio, salvami e proteggimi”. Solov’ëv paragona scientemente questa pseudoreligione alla predicazione neoevangelica cristiano/umanista (ma priva di Cristo) del conte Lev Tolstoj che nella seconda metà del XIX secolo stava conoscendo una rapida diffusione in Russia e non solo. Solov’ëv cerca di dimostrare la sostanziale identità delle due dottrine. Il cristianesimo senza Cristo non è che un luogo vuoto come il buco su una parete. Tuttavia riconosce agli adoratori del buco la semplicità ed il merito di saper chiamare le cose con il proprio nome senza ricorrere a menzogne e inganni.

Lo stesso discorso si può facilmente trasporre nel contesto delle passate elezioni presidenziali nordamericane, in cui le due facce della stessa medaglia si sono contrapposte, con la sola differenza che una basava su falsità e ipocrisia le sue aspirazioni alla Casa Bianca, l’altra ha mostrato sin dal primo istante il suo volto reale.

Parte del fenomeno Donald Trump si può facilmente comprendere se si considera che costui ha smascherato l’arcipelago di menzogne e di buonismo ipocrita che ha caratterizzato la politica americana nell’era Obama, di cui Hillary Clinton voleva essere la prosecutrice. Il principale connotato positivo dell’elezione di Trump è proprio quello di aver restituito agli Stati Uniti il loro volto reale di potenza aggressiva, tanto sul piano economico quanto su quello militare, facilitando così allo stesso tempo l’identificazione del male anche tra l’opinione pubblica internazionale.

Di fatto Trump, e le sue prime azioni e dichiarazioni da Presidente eletto lo dimostrano, in politica estera seguirà lo stesso percorso, seppur in modo decisamente più aggressivo, dell’amministrazione Obama, indirizzandosi sugli obiettivi principali Iran e Cina e mettendo l’area del Levante almeno per il momento in secondo piano, senza interferenze ma anche senza particolari agevolazioni alle politiche degli alleati Arabia Saudita e Israele. Scelta che lascerà ampio margine di manovra nell’area anche alla Russia, considerando che lo stesso Trump ha affermato di voler bloccare i rifornimenti all’opposizione gihadista al governo di Bashar al.Assad.

A questo proposito Andrew Korybko, dal sito web Katechon, afferma provocatoriamente che gli Iraniani dovrebbero ringraziare Trump per il semplice motivo che con una sola mossa, la nomina a capo del Pentagono del Generale Mattis, antiiraniano per eccellenza, ha svelato le  reali intenzioni nordamericane riguardo al loro paese: cercare di influenzare la politica interna iraniana non solo con la diplomazia subdola e interessata alla Obama (che a seguito dell’ennesimo tentativo di rivoluzione colorata è riuscita a riportare una dirigenza moderata alla guida del paese ed a strappare un accordo sul nucleare, i cui reali benefici, soprattutto per l’Iran, sono ancora tutti da valutare), ma anche con azioni più dure qualora necessario. Il grande Satana, per usare un epiteto khomeinista, si è nuovamente svelato al popolo iraniano, una volta levata la maschera del pacifismo democratico.

L’effettiva volontà di Trump di bloccare il JCPOA è ancora tutta da valutare. Alcuni analisti nordamericani, come Robert E. Hunter, affermano che il neoeletto presidente non sarà mai così stolto da far saltare l’accordo, ma dopo tutto sono gli stessi che davano per scontata la vittoria di Hillary Clinton nelle presidenziali. Ciò che è sicuro è la volontà della nuova amministrazione di ristabilire, seppur nel lungo periodo, una sorta di rinnovata Dottrina Nixon-Kissinger, con Iran e Arabia Saudita pilastri della difesa USA nel Levante.

Lo stesso discorso è facilmente applicabile anche con la Cina, anche se in questo caso la situazione è ben più complessa, visto l’elevato grado di interconnessione economica tra i due paesi. In questo senso la chiara volontà di Trump è quella di sganciare gli Stati Uniti dalla dipendenza dei confronti del socialismo di mercato cinese. Progetto indubbiamente ambizioso e di difficile riuscita, ma che rispecchia alla perfezione la volontà di restituire sovranità ad un paese carnefice e vittima allo stesso tempo dell’autoimposizione di accelerati processi di globalizzazione capitalistico-neoliberale. In questo senso Trump è quasi un inconsapevole sostenitore delle teorie del filosofo e sociologo marxista francese Michel Clouscard. Rovesciando l’approccio marxista ottocentesco, che vedeva nello Stato l’istanza sovrastrutturale della repressione capitalistica, Clouscard afferma che in un mondo globalizzato la salvaguardia dello Stato nazionale è l’unico mezzo di resistenza al processo di mondializzazione neoliberista, il quale ha il suo fine ultimo nell’abbattimento di ogni confine e nella sottomissione di ogni cosa al mercato,.

Ora, fare di un multimilionario un paladino della lotta anticapitalista, dipingendolo altresì come totalmente estraneo ai cosiddetti “poteri forti”, è quanto meno paradossale se non ridicolo. L’unica sostanziale discontinuità fra Trump ed i suoi predecessori, anche repubblicani, è una certa volontà nel porre dei limiti a quelle politiche neoliberiste che hanno creato evidenti scompensi all’interno del sistema capitalistico e che di fatto hanno indebolito gli Stati Uniti, soprattutto di fronte ai suoi più importanti competitori economici internazionali: Cina su tutti. Tuttavia oltre a questo è opportuno domandarsi quali siano i reali obiettivi del progetto Trump, al di là delle smaccate battute ad effetto e delle provocazioni.

In primo luogo Trump è perfettamente consapevole del fatto che l’accettazione di una nuova evoluzione in senso multipolare del sistema globale consentirebbe agli Stati Uniti, tramite l’individuazione di un nemico ideologicamente diverso, di sviluppare una nuova coesione nazionale che lasci in secondo piano rivendicazioni di classe e garantisca alla sua persona consenso e carisma. Obiettivo di non poco conto in un paese in cui il divario tra classi abbienti e  povere si fa sempre più largo e che negli ultimi anni ha conosciuto un ulteriore impoverimento delle classi medie, le quali in ampia maggioranza hanno votato proprio per Trump. Il suo operato rimane dunque assolutamente consustanziale al sistema capitalistico, e da questo non si discosta nonostante gli accenti antiglobalizzazione e il blocco dei trattati TTPI.

La stessa libertà di manovra garantita alla Russia, tanto nel Levante quanto in Europa orientale, tende essenzialmente a ricercare un partner forte, capace di reale pressione nella disputa economico-geopolitica con la Cina. Tuttavia molto difficilmente la Russia infastidirà un importante alleato con il quale negli ultimi tempi ha instaurato più che proficui rapporti economici e di sicurezza reciproca. E lo stesso Cremlino è consapevole del fatto che colui che oggi si presenta come potenziale amico, domani potrà essere un sicuro nemico. Come afferma l’esperto di geopolitica William E. Engdahl, i  dirigenti politici russi non sono così sprovveduti da ritenere che il sodalizio con gli Stati Uniti possa durare a lungo; tuttavia al momento cercano di trarne i maggiori vantaggi possibili, soprattutto in termini di ritiro delle truppe NATO dai suoi immediati confini. Da non sottovalutare anche il fatto che la Russia, seppur diretta competitrice sul mercato del gas, è alleata militarmente con l’Iran; altro obiettivo diretto del trumpismo in politica estera.

Il fenomeno Trump, soprattutto per quanto riguardo le sue reali intenzioni geopolitiche, è ancora tutto da decifrare. Tuttavia tale fenomeno non si può ridurre a becere banalizzazioni sulla sua presunta incapacità o su illazioni, dimostratesi totalmente false, sul fatto che attirasse il voto degli strati sociali meno acculturati. Trump rappresenta semplicemente il canto del cigno di un imperialismo in declino, consapevole del suo declino, e questo rende quasi inevitabili repentini quanto potenzialmente pericolosi colpi di coda. Ed in questo declino Donald Trump non si limiterà a salvare il salvabile, ma riproporrà aggressivamente una politica di potenza in cui la diplomazia avrà ben poco spazio. Allo stesso tempo, a rendere ulteriormente intrigante e pericolosa la figura del milionario newyorkese è il fatto che nei suoi aspetti esteriori, nella sua innegabile capacità di promuovere la sua immagine e di autocompiacersi, egli rappresenti ciò che la scrittrice Maximiani Portas (alias Savitri Devi) definisce come “uomo nel tempo”: un uomo, assolutamente inserito nel suo preciso contesto storico, la cui volontà di potenza è rivolta in primo luogo alla mera autosoddisfazione dei propri istinti. 

Nella sua opera The Lighting and the Sun, la scrittrice franco-greca convertitasi all’induismo distingue tre diversi tipi umani: uomini sopra il tempo, uomini contro il tempo e uomini nel tempo. L’esempio di uomo sopra il tempo per eccellenza è il faraone egiziano Akhenaton, primo vero monoteista nella storia dell’umanità, che instaurò il monoteismo solare ignorando il mondo circostante ed in aperto contrasto con esso. Gli esempi più evidenti di uomini contro il tempo, sempre secondo Savitri Devi, sono stati il Profeta Muhammad e Adolf Hitler, uomini che nell’epoca del Kali Yuga hanno lottato contro le forze avverse della storia per “salvare il salvabile”.

Invece, l’esempio classico di uomo nel tempo è Temuçin; ovvero Gengis Khan, il Mahākāla. Ma anche Alessandro il Macedone può essere considerato un “uomo nel tempo”. I due condottieri corrispondono perfettamente a quel tipo umano la cui volontà di potenza può creare un vasto impero, seppure di brevissima durata. Infatti l’impero di Gengis Khan, al pari di quello di Alessandro Magno, non sopravvisse alla morte del fondatore, la quale sancì la fine di un mondo. Il mondo ellenico venne rapidamente inglobato nell’Impero Romano, mentre l’Asia divenne presto vittima del colonialismo europeo: Vasco da Gama sbarcò a Calicut nel 1498.

Fatte le dovute proporzioni, Trump appartiene a questa terza categoria. La sua elezione ha già rappresentato una violenta accelerazione dei processi storici, e la sua “visionarietà” condurrà inevitabilmente a nuove forti scosse geopolitiche. Questo sembra essere il destino imperscrutabile dell’”uomo nel tempo” Donald Trump.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).