Il fatto: il cosiddetto “Stato Islamico” (“SI”)

Come si finanzia il sedicente “Califfato”? Si può rispondere: in buona parte grazie a traffici illeciti tra cui quello di petrolio. Per simili traffici servono i canali per esportare greggio dalle aree di conflitto ai mercati di sbocco, una rete costituita da contrabbandieri, ricettatori, acquirenti, con la complicità o l’attivo supporto delle forze di sicurezza e di intelligence dei paesi che circondano le aree di conflitto (1). L’intelligence occidentale – inclusa la nostra – ritiene che la fonte dei finanziamenti diretti allo “SI” si trovi in massima parte nel Qatar (con fondi diretti) e in Turchia (attraverso la quale passano i traffici di greggio). L’informazione è controintuitiva: Qatar e Turchia sono gli sponsor storici della Fratellanza Musulmana e delle sue filiazioni. Per quale motivo i due principali concorrenti dell’Arabia Saudita (sospettata di essere l’originario sponsor dello “SI”) per l’egemonia nel mondo sunnita sarebbero tra i principali sostenitori di un gruppo di ispirazione wahabita – e quindi culturalmente affine proprio all’ambito saudita? Il Califfato costituisce per la monarchia saudita una minaccia potenziale ma il motivo è a monte e sta nelle rivalità regionali che contrappongono potenze sciite e sunnite ed in quelle globali. Solo per prendere ad esempio il tema della competizione energetica (uno solo degli elementi di questa “guerra mondiale a pezzi”) si pensi che la Siria e la Turchia sono al centro di numerosi progetti di gasdotti che permetterebbero a fornitori tra i quali L’Azerbaijan e il Qatar stesso(2) di affacciarsi sul mercato europeo. I progetti Nabucco, Islamic Gas Pipeline, il TAP ed altri ancora incrociano i paesi del Grande Medio Oriente in un groviglio di rivalità. Arabia Saudita e Russia non gradiscono la concorrenza rispettivamente sul mercato del petrolio e su quello del gas e la prima sta cavalcando la caduta dei prezzi dei combustibili fossili originata dallo shale USA per danneggiare i propri concorrenti tra cui le stesse piccole e medie compagnie americane che hanno investito fortemente nella dispendiosa estrazione di shale e che necessitano di alti prezzi per mantenere redditività(3).

Oltre a combattere lo shale americano l’Arabia Saudita danneggia anche la stessa Russia e l’Iran – questa volta col consenso USA – mentre Putin, colpito dal crollo dei prezzi, spera di poter resistere tanto da poter battere anch’egli il gas statunitense e ambisce comunque a tenere lontano l’Iran e l’Occidente. La Turchia si ritroverebbe sul percorso delle tre pipelines già citate e proprio essa ha fatto da passaggio in entrata verso il califfato degli islamisti desiderosi di arruolarsi e da passaggio in uscita per il petrolio contrabbandato per il califfo. La potenziale rivalità con la Siria sul passaggio delle infrastrutture è un probabile fattore – di certo meno importante per Erdogan del sogno di acquisire la leadership di prestigio del mondo sunnita. Nel grande gioco mediorientale lo “SI” è dunque uno grimaldello che tutti gli attori usano per provare a colpirsi(4) e a destabilizzarsi. Quanto all’attività di supporto dei Turchi, essa ha assunto diverse forme (la principale quella dell’inazione): dobbiamo temere che almeno un paese dell’ambito NATO abbia cooperato – o cooperi – con una struttura terroristica gemmata da Al Qaeda? In caso affermativo, le altre agenzie di intelligence – come la nostra, da cui filtra l’informazione – sono all’oscuro dell’operato dei loro colleghi turchi? O gli alleati NATO non sono a conoscenza delle scelte turche, o la Turchia agisce in netto contrasto con i propri partner o ancora l’operato della Turchia è tollerato. Gli alleati NATO sono privi di strategia – come parrebbe essere Obama – o accettano sommessamente quanto la Turchia sta facendo ritenendolo nel complesso funzionale al contrasto degli interessi russi in Siria? Una risposta univoca non esiste ma di certo c’è che le repentine fortune militari dell’ISIS/ISIL/Stato Islamico non siano solo frutto di brillanti vittorie sul campo: ha goduto della complicità di molti poteri regionali, inclusi persino quelli sciiti (in Iraq e Siria) che lo hanno accettato per trarre legittimazione dalla lotta contro di esso. Non si tratta ridurre la Storia a complotto (senza la base sociale del malcontento sunnita lo “SI” non avrebbe potuto attecchire) ma di individuare un metodo di ragionamento in un contesto di non collaborazione tra USA, Russia e Cina che genera un “bellum omnium contra omnes” e che fa rimpiangere la competizione del periodo della Guerra Fredda basatasi – quantomeno – su un reciproco riconoscimento tra potenze, esattamente quanto manca in quest’epoca di disordine globale. Resta da capire quanto questo disordine sia subito o voluto.

 

L’antefatto: tattiche occidentali e alleati degli USA

Di come di tutte le ideologie presenti nel mondo arabo quella più sostenuta, finanziata e strumentalizzata dagli USA, dalla Gran Bretagna e dai loro alleati regionali (come il Pakistan e l’Arabia Saudita) sia proprio stata il fondamentalismo di matrice wahabita avevamo già discusso nello studio su “influenze occidentali e autonomia ideologica nel panorama politico arabo”(5). Quanto alla storia dettagliata degli appoggi materiali e logistici forniti agli islamisti dagli USA e dai loro alleati in Afghanistan – l’orto in cui fu coltivata la pianta di Al Qaeda – oltre che in Kosovo moltissimi sono i testi ed i documenti ai quali si può attingere(6). Non è quindi il caso di ritornare sul già noto ma di proporre un’analisi geopolitica scevra da complottismi ma anche e soprattutto da conformismi. Per vari ordini di motivi, gli USA difficilmente potranno prescindere dall’amicizia con Qatar, Kuwait e Arabia Saudita, anche dopo la fine della Guerra Fredda, anche dopo la rivoluzione dello shale oil, anche e a maggior ragione perché alleati di Israele e garanti della sua esistenza: Israele e l’Arabia Saudita convergono tatticamente nell’identificare l’Iran come avversario principale, non lo “SI” (che si guarda bene, come Al Qaeda, dall’attaccare lo stato ebraico e anzi è assai avverso al nazionalismo palestinese più genuino e progressista). Non fosse altro, basterebbero i petroldollari dei paesi del Golfo che affluiscono in grandi quantità in Occidente (nel 2013 l’Arabia Saudita ha gli USA come primo fornitore e come seconda destinazione del proprio export[7]) e che garantiscono non solo liquidità ma anche il peso geopolitico del dollaro come moneta internazionale del mercato dell’energia. I regimi colpiti dalle primavere arabe sono solo quelli che USA e alleati ritenevano decotti. Un ruolo troppo forte nella rivolta è stato giocato dall’emittente catariota Al Jazira e dalle ONG finanziate da enti governativi USA. Finché il Vecchio Continente sarà legato agli USA dal capestro della NATO, con il partner atlantico che vuole un’Europa non troppo debole e divisa da doverne sopportare totalmente il peso ma non troppo unita e senza un Euro efficace nel contrastarne il dominio, finché l’Europa in crisi continuerà a dover ricercare flussi di investimento dei paesi del Golfo, finché gli unici dilemmi etici sulla provenienza degli investimenti vengono posti quando questi hanno origine russa (solo la pecunia di Mosca “olet” perché così pretendono gli USA e alcuni paesi a prescindere russofobi come quelli baltici) le sarà impossibile porsi in modo autorevole nel confronto con i paesi arabi sponsor se non direttamente del terrorismo comunque e sempre dell’oscurantismo. La visione strategica dell’Europa è subordinata a quella americana: il pericolo è una Russia che non deve risorgere come potenza, una Cina che non deve raggiungere il peso degli USA o che deve al massimo accontentarsi di essere il secondo polo e collaborare alla pax americana, in definitiva un’Eurasia che non deve esistere come ambito geopolitico. La “faglia” islamica è ancora il grimaldello per destabilizzare la massa continentale eurasiatica visto che culturalmente e geograficamente fa da cerniera tra Asia, Europa e Africa. Se per Mackinder il cuore geopolitico del mondo era il centro dell’Asia, fortezza inattaccabile dal mare, il punto di rottura che può destabilizzare il fragile cristallo eurasiatico è quell’area grande-mediorientale che il proprio epicentro nel Levante. La strategia di Obama mira a concentrarsi sul Pacifico e ad impantanarsi il meno possibile nel Medio Oriente: ciò non vuol necessariamente dire che nella macrostrategia americana il Vicino Oriente sia solo da lasciarsi alle spalle come quasi tutti gli osservatori sembrano invece credere. Non crediamo che le primavere arabe siano il puro frutto di una cospirazione – significherebbe dimenticare il contesto sociale e non applicare il rasoio di Occam (per rimuovere dittatori le congiure di palazzo dove fattibili sono più controllabili) – ma siamo convinti che non siano state avversate da Washington anche se in parte hanno colto l’America alla sprovvista sulla loro rapidità. Questo vale per il terrorismo islamista: il golem si rivolta contro il proprio creatore. Il golem è fatto di argilla, argilla fornita da una certa teologia oscurantista e da un conteso sociale complesso ma impastata da chi ha visto l’URSS come primo nemico da battere e problema da risolvere.

 

Conclusioni

Torniamo, per concludere, all’Europa. Un’Europa senza leadership né politica. Un’Europa che non c’è e che quindi preferisce parlare di immigrazione (senza poi far nulla per affrontare il problema), di “scontro di civiltà” (come se oriente e occidente fossero due blocchi monolitici). Un’Europa che non parla mai di geopolitica perché significherebbe parlare di strategia, di relazioni internazionali. Un’Europa che non deve essere troppo unita – non gioverebbe né a Washington né a Mosca – né troppo divisa – non gioverebbe a Washington – né troppo autonoma e indipendente dalla fede atlantista in politica estera – in quanto gioverebbe troppo a Mosca. Fino ad ora la risposta europea alle crisi internazionali che hanno implicato un pericolo islamista è stata ora inesistente o insipiente (Siria), ora divisa (Iraq e Libia) e in ordine sparso, ora sdraiata su quella americana (Cossovo). La presa di coscienza della natura anche geopolitica e non solo militare, culturale e sociale del terrorismo per ora latita; senza di essa non ci si può illudere di affrontare il problema con un minimo di serietà e di visione.

 

NOTE
1) http://www.aldogiannuli.it/2014/08/collegamenti-finanziamenti-isis/
2) http://www.sirialibano.com/short-news/siria-quanto-conta-il-petrolio.html e http://www.sirialibano.com/short-news/siria-quanto-conta-il-gas.html
3) http://temi.repubblica.it/limes/il-prezzo-del-petrolio-il-dollaro-e-lo-scontro-tra-russia-e-usa/67455 e http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-04/petrolio-minimi-4-anni-mercato-ha-occhi-solo-gli-usa-220211.shtml
4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-28/la-guerra-greggio-063721.shtml?uuid=ABp52AJC
5) http://www.eurasia-rivista.org/influenze-occidentali-e-autonomia-ideologica-nel-panorama-politico-arabo-una-proposta-di-lettura-nel-contesto-geopolitico/19648/
6) Per la rara capacità di unire completezza, analiticità e fruibilità suggeriamo tra le opere recenti la Storia del terrorismo. Dall’antichità ad Al Qaeda di Blin e Chaliand , UTET, 2007. Sullo specifico tattico e operativo del teatro afghano un gioiellino italiano è il recentissimo Le spade di Allah di Gianluca Bonci – Liberodiscrivere, 2011.
7) http://www.infomercatiesteri.it/public/rapporti/r_99_arabiasaudita.pdf


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Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.