A più di un anno dall’inizio delle proteste, la Giordania, circondata da una situazione molto delicata, cerca di lanciare un processo di democratizzazione che conduca ad un cambiamento. In attesa delle elezioni, il popolo invia chiari segnali al Re Abdallah II, che promette di riportare serenità alla nazione.

A distanza di mesi dall’inizio delle rivolte nel mondo arabo, partite dal Nordafrica per poi giungere al Vicino Oriente con il recente coinvolgimento della Siria, su cui è rivolta tutta l’attenzione internazionale, anche la Giordania non è stata risparmiata dall’ondata di proteste ed instabilità.

La monarchia hashemita negli anni è riuscita a creare una situazione di equilibrio e a far convivere il lato conservatore-tribale della Giordania con quello “aperto e globalizzato” rivolto verso l’Occidente, ed è sempre stata attenta a non far insorgere malessere all’interno della società.

Si è parlato spesso in occasione delle insurrezioni che hanno contagiato il mondo arabo anche di un possibile coinvolgimento della Giordania e delle sue possibili conseguenze.

Le proteste sono iniziate fuori dalla capitale, nel sud del paese e si sono estese fino ad Amman come, storicamente parlando, accadde in passato con la ribellione del 1989, la cosiddetta “rivoluzione dei poveri”, a cui fece seguito una seconda analoga nel 1996. In entrambi i casi, le richieste non provennero solo da parte dei poveri per il malessere che vivevano, ma s’invocavano cambiamenti politici che sfociarono nella concessione, da parte di Re Hussein, del ritorno alle urne dopo un periodo, dal 1956 al 1989, nel quale non vi erano state elezioni.

Dopo la morte di Re Hussein e l’arrivo al trono di re ‘Abdallah II (dopo un serio scontro all’interno della casa reale), il “processo democratico” è rallentato e i problemi sorti negli ultimi mesi hanno radici che rimandano al 1993, quando venne cambiata la legge elettorale riguardante il voto unico (che permetteva anche a personaggi non “accreditati” di accedere al Parlamento).

Fondamentalmente la protesta in Giordania non si può definire una vera e propria rivolta, poiché si tratta di richieste da parte del popolo indirizzate al Re sotto forma di manifestazioni, ma sempre riconoscendo la sua autorità.

Parte della popolazione ha dato il via alle contestazioni prevalentemente contro l’ex primo ministro Marouf al-Bakhit, fino a qualche mese fa al potere, e non contro il Re, perché nella testa delle persone non c è nessun progetto di cambio di regime ma solo il suo miglioramento: la maggior parte delle richieste prevede una monarchia di tipo costituzionale, e non assoluta com’è ora, e un cambio del sistema elettorale dove sia possibile votare i governi come avveniva già nel 1956.

In piazza sono scese praticamente tutte le forze politiche, dai partiti di destra a quelli di sinistra, capitanati dai Fratelli Musulmani; tutti i riformisti si trovano concordi nella richiesta di un maggiore spazio democratico e di riforme politiche, con l’obiettivo finale di giungere ad una monarchia costituzionale.

Come in tutti i Paesi arabi, vi è stata un’ascesa dei movimenti islamici, e soprattutto dei Fratelli Musulmani, i quali hanno diretto le proteste in varie “piazze” arabe (ma non nel Golfo: si pensi al Bahrein, dove la protesta è a guida sciita): e così è successo anche in Giordania, ma in toni decisamente diversi da altri scenari.

Il movimento politico del Fronte d’Azione Islamico (FIA) è considerato per certi versi uno dei pilastri del regno hashemita. I movimenti islamici in Giordania hanno sempre avuto un ruolo importante e storicamente sono sempre stati “moderati”: infatti, nel corso della storia giordana nessun evento segnala che questa strada sia mai stata abbandonata.
In questi anni, ci sono state tensioni con i vari governi, poiché, invece che cercare il dialogo, si è tentato di eludere i motivi delle proteste e le proposte avanzate, e questo ha indispettito buona parte della popolazione. Molti giordani hanno così iniziato a chiedere maggiori chiarezza e correttezza, boicottando quindi le ultime elezioni del novembre 2010 perché in fondo si offriva di far parte di una coalizione “nominata”, una ripetizione dei governi precedenti senza alcun margine di riformismo. Di un governo eletto direttamente dal popolo non se parlava affatto.
I Fratelli Musulmani pertanto guidano la protesta perché sono gli unici ad avere le idee chiare sulla richiesta di una monarchia costituzionale, nuove elezioni e un nuovo sistema che permettano anche di contenere la corruzione e le frodi che in questi ultimi anni hanno caratterizzato una vita politica che ha perso di vista i bisogni della maggioranza della popolazione.

Detto questo, non si possono tralasciare gli evidenti problemi legati all’aumento dei prezzi di beni di prima necessità, al progressivo aumento della disoccupazione (la Giordania è una società giovane, con un 70% di laureati che non trovano lavoro) e alla povertà in tutto il territorio nazionale (dettata anche dalle “privatizzazioni” eseguite negli ultimi anni, che hanno visto svendite delle proprietà dello Stato a prezzi bassissimi).

Sull’inflazione e la crisi economica sono intervenute anche le tribù beduine, che coraggiosamente hanno protestato contro la regina Rania, rimproverando al Re il suo dispendioso tenore di vita e la sua ‘doppia maschera’, poiché a loro parere i suoi comportamenti internazionali non collimano con quelli tenuti in patria. Anche i militari hanno appoggiato questa iniziativa, dichiarando che la Costituzione giordana dà potere al Re e non a qualsiasi altro membro.

Negli ultimi mesi il Re, per calmare il continuo malcontento, ha nominato un nuovo primo ministro, facendo subentrare al governo Awn Khasawneh. Cambio che è stato accolto con entusiasmo, poiché negli ultimi anni la progressiva intrusione nell’attività parlamentare e nella vita pubblica del General Intelligence Department (GID), i servizi segreti giordani, era diventata molto pesante.

Dalla formazione del nuovo governo, avvenuta in ottobre, si è cercato subito si tendere una mano a tutti i gruppi politici per creare un clima sereno e lavorare insieme sulle riforme, cosa possibile poiché i movimenti non gridano al “cambio di regime”, ma alle riforme necessarie per migliorarlo, avendo fiducia nella guida hashemita. Ed anche lo stesso regime, guidato dal re, vuole le riforme.

Dunque nel Paese c’è l’intenzione di evitare rivolte che portino a inutili spargimenti di sangue come accaduto in altri paesi arabi, esplorando invece la possibilità di attuare riforme che portino benefici veri. Non si può negare, soprattutto agli inizi delle proteste nel 2011, che ci siano stati alcuni scontri tra manifestanti pro-regime, oppositori e forze di polizia, ma niente che possa essere paragonato a quello che succede negli altri paesi arabi.

C’è una precisa tabella di marcia che il governo si sta impegnando a rispettare al fine d’introdurre tali riforme politiche, tra cui la creazione di un “comitato indipendente” che supervisioni lo svolgimento delle elezioni parlamentari.

Il governo sta lavorando per ottenere elezioni di qualità per assicurare la stabilità del Paese, poiché è stato dimostrato che la “vecchia maniera” non è più praticabile nel mondo arabo. Come afferma il premier giordano, “l’obiettivo è trovare un’equazione che permetta di restaurare lo stato civile esistente già nella Costituzione del 1950, e di porre fine alla segregazione tra i cittadini, cosicché la volontà del popolo non sarà plasmata da fuori”.
Il regime giordano non è stato costruito su di una persona salita al potere in seguito ad un colpo militare, ma si tratta di un regime che si basa su una dinastia reale con retaggio religioso, quindi in via di principio nulla impedisce una convergenza tra il regime stesso e l’interesse del popolo.

Inoltre, vista la situazione interna molto delicata e in fase di sviluppo, il Re giordano sa di non potersi permettere passi falsi, considerata la posizione geopolitica della regione:
la “rivoluzione siriana” sta interessando direttamente la Giordania non solo perché il paese interagisce col popolo siriano a livello tribale, economico e agricolo, ma anche per altri fattori interni molto delicati.

ll problema dei profughi in fuga dalla Siria non è da sottovalutare. Infatti, secondo un ufficiale del ministero degli Interni, in Giordania sarebbero presenti in quantità molto più elevate che in Turchia e in Libano, e lo Unhcr – secondo le ultime stime – ha dichiarato 7.584 profughi che già assiste ed altri 2.000 in attesa di registrazione, oltre aver individuato altre 20.000 persone che già sono aiutate da organizzazioni locali1.

Sul versante militare il paese è al centro della questione, dato che fonti vicine all’ex primo ministro come il sito “albawaba2, dichiarano che dentro il territorio giordano, nella zona di al-Mafraq, a nord del paese, un certo numero di libici3 si sta addestrando in una zona cuscinetto a nord del territorio per supportare l’opposizione siriana, oltre ai già presenti militari americani che, ritiratisi dall’Iraq, si sarebbero stanziati, secondo un rapporto del dicembre 2011 del sito di intelligence israeliana Debka4, a ridosso del confine con la Siria.

Anche la paura che il “processo di pace israelo–palestinese” s’interrompa può allontanare qualsiasi speranza che possa nascere uno Stato palestinese, sfruttando così il momento di debolezza del paese che potrebbe portare all’affermazione dell’idea che “la Giordania è la Palestina”, ovvero la “patria” per tutti i palestinesi.

E proprio sulla questione israelo-palestinese, nel discorso al Parlamento Europeo del 18 aprile, il Re di Giordania ha dichiarato che “la sola soluzione possibile per una stabilità definitiva è la creazione di due Stati che vivano in pace, uno accanto all’altro”, perché “non si può permettere che un’altra generazione aspetti l’arrivo di uno Stato palestinese”.
Ma nonostante tutti i problemi, il re Abdullah II, dopo esser stato ricevuto al Parlamento europeo dal presidente Martin Schulz, ha dichiarato che “la Primavera araba è stata presa come un’opportunità”, spiegando che attraverso il processo di democratizzazione, le riforme economiche e politiche la Giordania intende essere un rifugio in una regione attraversata dalle turbolenze politiche5.

Dopo questo intervento del Re e tante speranze, arrivano notizie in base alle quali il parlamento giordano ha messo al bando il Fronte d’Azione Islamica, il più importante partito d’opposizione del paese. Il provvedimento, che vieta la creazione di qualsiasi gruppo o partito a base religiosa, etnica e confessionale, è passato in data 16 aprile alla Camera bassa con 46 voti favorevoli su 83. Ora deve essere approvato dall’Assemblea dei notabili.
Questo, se confermato, impedirebbe ai Fratelli Musulmani di presentarsi alle prossime elezioni parlamentari.

Un nuovo processo politico sembra essere avviato, e anche se qualcuno esprime pessimismo, la popolazione è in fase d’attesa per vedere a cosa porterà questo cambiamento.

*Nicolò Perazzo è laureato in Filologia araba presso l’Università di Granada (Spagna) dopo una lunga esperienza in paesi arabi come Yemen, Giordania, Siria ed Egitto, dove ha studiato lingua araba, dialetti e Corano.

NOTE:
^1. http://www.unhcr.org/4f6c501e6.html
^2. http://www.albawaba.com/ar
^3. http://www.abc.es/20111217/internacional/abcp-islamistas-libios-desplazan-siria-20111217.html
^4. http://www.debka.com; http://www.infowars.com/u-s-nato-troops-reported-on-jordans-border-with-syria/
^5. http://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/content/20120413STO42890/html/Il-re-Abdullah-II-di-Giordania-La-Primavera-araba-%C3%A9-un%27opportunit%C3%A0


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