Con una serie di articoli pubblicati nel luglio 1947 sul “New York Herald Tribune” e poi raccolti nel volume intitolato The Cold War. A Study in U.S. Foreign Policy il giornalista statunitense Walter Lippmann introdusse nel vocabolario geopolitico una nuova formula, “guerra fredda”, atta a descrivere un’ostilità che non sembrava più risolvibile con una guerra frontale tra le due superpotenze, dato il pericolo per la sopravvivenza dell’umanità rappresentato da un eventuale ricorso all’arma atomica. Tale formula avrebbe definito per tutta la sua durata l’antagonismo storico fra il blocco occidentale egemonizzato dagli USA e quello eurasiatico egemonizzato dall’URSS. Iniziata subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale col blocco di Berlino, la “guerra fredda”, che comunque non fu un fenomeno omogeneo, terminò a Helsinki il 1° agosto 1975, quando i rappresentanti di trentacinque paesi sottoscrissero l’atto finale della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione europea, nel quale venivano ribaditi i principi della distensione e del rispetto dei “diritti umani”. Col termine “seconda guerra fredda” si è soliti indicare il periodo compreso tra l’intervento sovietico in Afghanistan (25 dicembre 1979) e il vertice di Ginevra (19-20 novembre 1985) in cui Ronald Reagan e Mikhail Gorbačëv concordarono di ridurre del 50% i rispettivi arsenali nucleari.

Da qualche mese è possibile assistere ad una rinnovata fortuna della formula coniata settant’anni fa. Un connazionale di Walter Lippmann “distaccato” in Italia, l’immarcescibile Edward Luttwak, ha detto in un’intervista apparsa il 17 luglio su “Il Tempo”: “La guerra fredda è già in corso. Tra i servizi segreti di USA e Cina la guerra è aperta. Sa quale è l’importanza di questa vecchia definizione, appunto ‘guerra fredda’? Che questa guerra fredda continuerà, come è successo con l’URSS in passato, fino alla caduta del regime cinese. Pazientiamo. I paesi ed i sistemi non democratici cadono. Non cadono domattina, ma cadono. E il leader cinese Xi Jinping questo lo capisce molto bene e perciò ha l’ambizione di sopprimere la democrazia ovunque, a cominciare da Hong Kong”.

Il paradigma della “guerra fredda”, riproposto in forma aggiornata da mestatori americani in trasferta e agit-prop occidentalisti, trova la sua conferma ufficiale nelle parole del segretario di Stato dell’Amministrazione statunitense: “Credevamo che coinvolgere la Cina avrebbe generato un futuro di cooperazione. Oggi siamo qui a indossare maschere e a fare il conteggio dei morti della pandemia perché il partito comunista cinese ha tradito le sue promesse. Siamo qui a seguire gli sviluppi della repressione a Hong Kong e nello Xinjiang. Osserviamo le tremende statistiche sul commercio estero cinese che ha colpito la nostra occupazione e le nostre aziende. Seguiamo le forze armate della Cina che diventano sempre più potenti e minacciose”[1].

Il progetto di trasformare la Repubblica Popolare Cinese in una colonia economica americana, inaugurato ufficialmente[2] mezzo secolo fa, nell’aprile 1971, con la famosa partita di ping-pong, è rovinosamente fallito: gl’investimenti riversati sulla Cina sono stati da questa saggiamente utilizzati per acquisire un grado di potenza che le ha consentito di assumere un ruolo di protagonista mondiale. Determinati a salvaguardare la loro egemonia globale, gli Stati Uniti sono passati da una politica di “contenimento” alla creazione di un “arco di crisi” finalizzato a neutralizzare il loro avversario geopolitico. Le dichiarazioni rilasciate in maggio da Trump sul “virus cinese” (“the Chinese virus”) e sulla “peste cinese” (“the plague from China”) hanno preannunciato un ulteriore passo di Washington, che, ripescando dal lessico della vecchia guerra fredda la stantia definizione di “mondo libero” – ha lanciato un accorato appello per costituire un’alleanza internazionale anticinese. “Speriamo – ha detto infatti Mike Pompeo ai giornalisti inglesi nello scorso luglio – di poter costruire una coalizione che comprenda la minaccia e agisca collettivamente per convincere il Partito Comunista Cinese che non è nel suo interesse impegnarsi in questo tipo di comportamento (…) Vogliamo che ogni nazione capisca la libertà e la democrazia […] per comprendere la minaccia del Partito Comunista Cinese. Il mondo libero deve trionfare su questa nuova tirannia”[3].

Un parere radicalmente contrario alla proposta del segretario di Stato americano è stato espresso dalla signora Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, la quale, oltre a mostrarsi sorpresa per la “maleducazione” dimostrata da Pompeo nei confronti della Cina, del suo ordinamento sociopolitico e della sua dirigenza”, ha dichiarato che la tensione creata dagli USA “complica seriamente la situazione internazionale in generale” e che la Russia, di fronte al tentativo americano di “inserire un cuneo” tra Mosca e Pechino, rafforzerà ulteriormente la cooperazione con la Repubblica Popolare, essendo tale cooperazione “il fattore più importante per stabilizzare la situazione mondiale”[4].

Per quanto riguarda l’Italia, l’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg ha severamente richiamato all’ordine il governo presieduto dall’avvocato Conte, che nella precedente versione “giallo-verde” aveva sottoscritto il “Memorandum d’Intesa” concernente la nuova Via della Seta, suscitando l’apprensione e l’irritazione della Casa Bianca. Ad una giornalista che cercava di rassicurarlo dicendo che il governo di Roma sta cambiando le sue posizioni circa il 5G e gli chiedeva se ciò potesse bastare per soddisfare gli USA, il messo di Washington ha risposto testualmente: “Aspettiamo di vedere come si procederà esattamente. Huawei rappresenta una minaccia alla sicurezza. La Cina è un paese molto pericoloso”[5].

Un analogo avvertimento era stato rivolto al governo libanese, due settimane prima dell’esplosione nel porto di Beirut, dall’ambasciatrice americana Dorothy Shea, secondo la quale l’avvicinamento a Pechino sarebbe potuto costare al Paese dei Cedri “prosperità, stabilità e sostenibilità finanziaria”. Un rapporto dell’Associated Press pubblicato in quegli stessi giorni chiariva i motivi dei timori americani concernenti le relazioni di Beirut con Pechino. Agli inizi di luglio il primo ministro Hasan Diab aveva ricevuto l’ambasciatore cinese Wang Qijian e il ministro dell’Industria, Imad Hoballah, era stato incaricato di studiare le modalità di una cooperazione del Libano con la Repubblica Popolare. L’agenzia di stampa riportava queste parole di un funzionario ministeriale: “Ci siamo spostati molto seriamente verso la Cina, ma non stiamo voltando le spalle all’Occidente … stiamo attraversando circostanze eccezionali e diamo il benvenuto a tutti coloro che intendono aiutarci”[6]. Pechino avrebbe proposto al governo di Beirut la realizzazione di importanti progetti per un totale di dodici miliardi e mezzo di dollari: una rete di centrali elettriche in grado di porre fine alla decennale crisi energetica libanese, una galleria tra la capitale e la valle della Beqaa, una linea ferroviaria lungo la costa.

Il rapporto dell’Associated Press indicava il porto libanese di Tripoli come una futura un’importante stazione sulla nuova Via della Seta. Secondo l’economista Kamal Hadamis i Cinesi preferiscono utilizzare, anziché il porto di Tel Aviv, quello di Tripoli, perché, essendo più vicino ai porti di Tartus e Latakia, controllati dall’esercito russo, agevolerebbe il trasferimento in territorio siriano di tutto il materiale necessario per la ricostruzione del paese. Il porto di Tripoli verrebbe collegato alla città siriana di Homs da una ferrovia, costruita dai Cinesi, che coinvolgerebbe anche Beirut ed Aleppo. Il corridoio così generato permetterebbe di ridurre i tempi di trasporto delle merci e consentirebbe di evitare il passaggio attraverso il canale di Suez, già percorso da un intenso traffico marittimo[7].

Se nel Mediterraneo l’azione anticinese degli USA si esplica nelle pressioni e nelle minacce esercitate nei confronti dei governi dell’area, sul versante opposto del Continente eurasiatico la strategia americana tende ad assumere una forma che ricorda il “containment” teorizzato da Truman nei confronti del blocco cino-sovietico ai tempi della guerra fredda. “Washington – ha detto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi – ha appiccato il fuoco dappertutto, costringendo i paesi a schierarsi per creare il disordine nella regione”[8]. Al fine di smorzare le tensioni, la Repubblica Popolare ha cominciato a rafforzare i propri rapporti economici e commerciali coi Paesi vicini ed ha avviato una serie di colloqui distensivi coi loro governi. Tuttavia gli Stati Uniti appaiono determinati nell’intento di costituire una sorta di NATO asiatica, schierando in un unico blocco i paesi che si bagnano nelle acque del Mar Cinese Meridionale: Vietnam, Malesia, Singapore, Indonesia, Brunei, Filippine; oltre ai quali gli USA sono convinti di poter contare, nella regione dell’Indo-Pacifico, su tre alleati sicuri: il Giappone, Taiwan e l’Australia.

Proprio dall’Australia sono giunte, ai primi di agosto, le previsioni di due autorevoli uomini politici circa un futuro scontro armato fra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. In seguito all’affermazione dell’ex primo ministro Kevin Rudd, secondo cui il rischio di un conflitto militare fra Washington e Pechino diventerebbe “particolarmente elevato” nei prossimi tre mesi, il primo ministro attualmente in carica, Scott Morrison, ha confermato: “La mia visione delle cose non è drammatica come quella del signor Rudd. Tuttavia riconosco che quanto sembrava inconcepibile prima d’ora, lo è molto meno in relazione al contesto attuale”. Il primo ministro australiano ha poi fatto sapere che il suo governo ha investito 270 miliardi di dollari australiani (pari a 159 miliardi di euri) in missili a lunga gettata e in altro materiale bellico[9].

Se l’obiettivo di Trump e Pompeo consiste nell’arginare la crescente influenza della Repubblica Popolare Cinese, quest’ultima non intende certamente fermare la propria avanzata. Anzi, dopo avere sfidato gl’interessi statunitensi nell’Asia orientale ed in Africa, essa si appresta a contrastare le mire egemoniche di Washington nel Vicino e Medio Oriente, dove troverà un punto d’appoggio strategico grazie ad un partenariato venticinquennale con la Repubblica Islamica dell’Iran. L’accordo fra i due paesi riveste una particolare importanza, perché le sue implicazioni oltrepassano la sfera economica e le relazioni bilaterali e riguardano anche la cultura e la sicurezza. Il segretario di Stato nordamericano ha lanciato l’allarme contro questo accordo, che consentirà alla Repubblica Popolare di svolgere un ruolo di primo piano in una delle regioni più importanti del pianeta. Il partenariato garantirà infatti alla Cina la libertà di navigazione nel Golfo Persico e contribuirà a soddisfare le sue esigenze energetiche, mentre fornirà alla Repubblica Islamica i flussi finanziari di cui essa ha bisogno, favorendo così anche il sostegno iraniano ai movimenti di resistenza nel Vicino Oriente. Inoltre la Cina, dovendo affrontare il fenomeno del secessionismo e del settarismo armato nello Xinjiang, potrà avvalersi del patrimonio di esperienze accumulato dall’Iran nel corso delle sue lotte contro il terrorismo di analoga matrice in Siria ed in Iraq. Insomma, come prevede la pubblicazione statunitense “Foreign Policy”, “i legami sino-iraniani ridisegneranno inevitabilmente il panorama politico della regione a favore dell’Iran e della Cina, minando ulteriormente l’influenza degli Stati Uniti”[10].

Come fa notare Daniele Perra su questo stesso numero di “Eurasia”, il discorso pronunciato da Mike Pompeo il 23 luglio 2020 lascia intendere che il rapporto conflittuale degli USA con la Cina si tradurrà in uno scontro aperto finalizzato, secondo gli auspici statunitensi – a provocare il crollo della Repubblica Popolare Cinese. Una prospettiva del genere rende verosimile l’eventualità che lo scontro fra le due potenze assuma la forma di quel tipo di conflitto che vent’anni fa due colonnelli dell’Esercito Popolare di Liberazione, Qiao Liang e Wang Xiangsui, definirono come “guerra senza limiti”[11]. Riferendosi ad una tale eventualità, F. William Engdahl osserva che “la Cina è vulnerabile a sanzioni commerciali, interruzioni finanziarie, attacchi bioterroristici ed embarghi petroliferi”[12]. Ed aggiunge: “Alcuni hanno suggerito che la recente piaga delle locuste e il devastante attacco della peste suina africana alle scorte alimentari fondamentali della Cina non sia stato semplicemente un evento naturale. (…) È possibile che le recenti enormi esondazioni dello Yangtze, che hanno minacciato la gigantesca diga delle Tre Gole e hanno inondato Wuhan e altre grandi città della Cina devastando milioni di acri di importanti terreni coltivati non siano stati soltanto eventi stagionali?”[13]

Se tali supposizioni corrispondono a verità, la “guerra senza limiti” è già cominciata.


NOTE

[1] Federico Rampini, Usa, l’attacco di Pompeo alla Cina di Xi: “Il mondo libero trionfi su questa nuova tirannia”, www.repubblica.it/esteri, 23 luglio 2020.

[2] Diciamo “ufficialmente”, perché “l’intesa cino-americana, maturata dietro le quinte della politica di Washington nel corso del 1968, aveva già avuto una applicazione ufficiosa e discreta a partire dal 1969 (…) L’anno 1971, con la sua appendice del primo bimestre 1972, rappresentava solo la consacrazione pubblica di una situazione di fatto già esistente” (Guido Giannettini, Dietro la Grande Muraglia, Ciacci editore, Catanzaro 1979, p. 127).

[3] Pompeo annuncia la volontà degli Usa di “costruire una coalizione contro la minaccia cinese”, www.agenzianova.com, 22 luglio 2020/; Rita Lofano, Tra Cina e Usa la Guerra Fredda dei consolati, www.agi.it, 24 luglio 2020.

[4] RIA Novosti, Mosca, 24 luglio 2020.

[5] https://www.adnkronos.com, 29 luglio 2020.

[6] Il Libano si rivolge alla Cina per risolvere la sua crisi finanziaria, https://parstoday.com, 17 luglio 2020.

[7] Cfr. Stefano Vernole, Siria: inizio di ricostruzione o guerra di logoramento, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 2/2020.

[8] Federico Giuliani, Una NATO asiatica per arginare la Cina: la mossa di Trump che spaventa Pechino, it.insideover.com, 4 agosto 2020.

[9] L’idée d’une guerre entre les USA et la Chine est désormais “envisageable”, http://french.almanar.com.lb, 6 agosto 2020.

[10] https://foreignpolicy.com, 9 agosto 2020.

[11] Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001. Cfr. la recensione del libro apparsa in “Eurasia”, 2/2008.

[12] F. William Engdahl, Is This a Remake of the 1941 Hitler Stalin Great War?, “New Eastern Outlook”, 10 agosto 2020.

[13] Ibidem.


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).