A due anni dalla fine della Guerra Fredda, il politologo statunitense Samuel P. Huntington pubblicò un articolo dal titolo emblematico, The Clash of Civilizations, che fece da preludio ad un voluminoso saggio uscito col medesimo titolo tre anni dopo. In questo saggio Huntington mostrò le sue riserve di fronte all’idea che il crollo del cosiddetto “blocco socialista” avrebbe inevitabilmente comportato uno spontaneo e diffuso moto di democratizzazione globale.

Contrariamente all’entusiasmo diffuso da alcune teorie sulla “fine della storia” poco credibili anche per l’epoca, Huntington fu capace di comprendere che l’unipolarismo non sarebbe durato che un istante e che l’Occidente a guida nordamericana, prima di quanto si potesse immaginare, avrebbe dovuto confrontarsi con gli istinti di sopravvivenza di antiche civiltà non troppo inclini a lasciarsi assimilare dalla modernità occidentale. Dunque, si rendeva necessario per l’Occidente la preparazione ad un confronto dal quale, a sua volta, sarebbe dipesa la conservazione della propria “identità culturale”.

Huntington, in modo abbastanza generico, individuò nel suo studio otto principali civiltà: islamica, africana, latinoamericana, confuciana, indù, giapponese, ortodossa ed occidentale.

Ora, preso atto che le velleità bellicose della civiltà giapponese vennero “nuclearizzate” come atto finale della Seconda Guerra Mondiale e che le civiltà africana, latinoamericana, indù ed ortodossa dovettero subire forme più o meno violente di colonizzazione e forzata occidentalizzazione tanto da renderle innocue, Huntington individuò nella civiltà islamica e in quella confuciana le principali minacce per Europa occidentale e Nord America, rappresentanti, nella sua prospettiva, di una sorta di “unicum culturale”.

Così ebbe modo di affermare il politologo statunitense nel suo saggio: “La tradizione confuciana della Cina, con i suoi valori portanti come quelli di autorità, ordine, gerarchia e supremazia della collettività sull’individuo crea ostacoli ai processi di democratizzazione[1].

Confucianesimo ed Islam, nella visione di Huntington, condividerebbero dei principi tali da renderli totalmente estranei alla cultura occidentale. E, parafrasando gli studi sociologici di Karl Popper, come forme culturali incentrate sulla supremazia della comunità rispetto all’individuo, rientrerebbero di diritto nel novero dei nemici della “società aperta”.

La visione di Samuel Huntington, in tempi più recenti, e declinata anche in termini geopolitici, è stata fatta propria dall’ideologo del trumpismo Stephen K. Bannon. Di fatto, proprio il trumpismo altro non rappresenta che la reazione (aggressiva e sostanzialmente volgare) degli Stati Uniti di fronte alle sfide lanciate all’egemonia globale di Washington dalle forze multipolari: non a caso, in primo luogo, Iran, Cina e Russia.

Con la precisa volontà di impedire la creazione di una “Grande Eurasia” capace di unire le due estremità di questo enorme spazio continentale, Bannon, alla pari di Huntington, ha identificato Turchia, Iran e Cina come i principali nemici dai quali l’Occidente a guida nordamericana deve difendersi.

In vista dello scontro con le antiche e combattive civiltà eurasiatiche, secondo l’ideologo nordamericano, l’Occidente deve necessariamente ricompattarsi lungo le tre direttrici che gli hanno consentito in passato di “sconfiggere il nazismo e di scacciare un impero barbarico ad oriente”[2]: il capitalismo illuminato; il nazionalismo; i valori giudeo-cristiani[3].

In un articolo apparso sul numero 1/2006 di “Eurasia”, Claudio Mutti mise in evidenza come, decenni prima delle elaborazioni teoriche di Huntington (successivamente riprese da Bannon), Ezra Pound, pensatore ben più profondo rispetto al politologo statunitense, cercò di unire e non di dividere le due estremità del continente eurasiatico. Pound, infatti, era convinto di aver trovato nel confucianesimo le risposte più adatte ai problemi della modernità europea. Egli era persuaso del fatto che il confucianesimo, con i suoi principi etici e morali basati sull’armonia e la misura “utili a fondare un impero”, sarebbe stato per l’Europa un dono paragonabile al platonismo reintrodotto da Giorgio Gemisto Pletone alle porte del Rinascimento[4].

Seppur in modo decisamente meno ottimistico ma più teoricamente elaborato, anche il filosofo tedesco Martin Heidegger lanciò importanti segnali verso un’apertura al pensiero orientale. In esso, il pensatore di Meßkirch intravide, non una possibilità di salvezza da accogliere acriticamente, ma un valido interlocutore con cui confrontarsi in vista della ridefinizione dei compiti della filosofia. Egli riconobbe come il confronto con l’asiatico fu per il Dasein greco una profonda necessità. E tale confronto, nel preciso momento storico vissuto dall’Europa, colonizzata ed “americanizzata” a seguito del conflitto, avrebbe rappresentato in maniera assai diversa ed entro un orizzonte molto più ampio la decisione sullo stesso destino dell’estremità occidentale del continente eurasiatico.

Se per Confucio la restaurazione dell’armonia si fondava sull’atto della “rettifica dei nomi”, ovvero sulla restaurazione della reale corrispondenza tra le cose ed i loro nomi, per Martin Heidegger il punto di partenza di ogni autentico filosofare era la comprensione di quella distinzione tra essere ed ente che rende possibile ogni nominare, esperire e concepire l’ente in quanto tale.

Heidegger, in più di un’occasione, espresse il suo rammarico per il ritardo occidentale nella padronanza delle lingue dell’Estremo Oriente. Tanto che in collaborazione con lo studioso cinese Shin-yi Hisiao, nel 1946, intraprese la traduzione in tedesco del Tao Te Ching.

Un lavoro che ebbe riflessi notevoli sull’elaborazione teorica del concetto heideggeriano del “Niente”. Questo, infatti, alla pari del wu taoista non rappresenta un “nulla assoluto” (non è un nulla che “nichilisce”) ma “essere non-essere”. E questo “essere non-essere” altro non è che “essere in latenza”.

Ma i contatti di Heidegger con l’Oriente iniziarono ben prima del 1946. Intorno agli anni ‘20 del secolo scorso i suoi corsi universitari tenuti alle università di Friburgo e Marburgo cominciarono ad essere frequentati da studiosi buddisti giapponesi legati alla tradizione Zen ed alla cosiddetta “Scuola di Kyoto” del filosofo nipponico Kitaro Nishida (1870-1945),  “la quale rappresentò uno dei tentativi più interessanti di costruire una sintesi tra il pensiero occidentale ed orientale capace di affrontare la sfida nichilistica dell’impero planetario della tecnica di matrice occidentale”[5]. A partire da quel periodo, le opere del filosofo tedesco cominciarono a venir tradotte in un Paese come il Giappone in cui il processo di modernizzazione, attuato nei decenni precedenti, venne interpretato in senso “esogeno”: ovvero, come unico mezzo per poter salvaguardare al contempo taluni principi marcatamente tradizionali ed i propri interessi geopolitici di fronte alla supremazia della tecnica e dell’espansione coloniale occidentale.

Proprio questo modello giapponese fu oggetto di studio approfondito da parte del geopolitico tedesco Karl Haushofer, che nell’ipotetica unità del continente eurasiatico lungo l’asse Berlino-Mosca-Tokyo era convinto di aver trovato la chiave per la fine dell’egemonia talassocratica anglosassone sul globo. 

I contatti di Heidegger con l’Oriente proseguirono dopo la guerra. Nel 1953, come riporta Claudio Mutti nel suo saggio La fortuna di Heidegger in Oriente, avvenne l’incontro con Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966), un divulgatore del buddismo Zen a proposito del quale il filosofo tedesco affermò: “Se comprendo correttamente quest’uomo, questo è quanto io ho cercato di dire in tutti i miei scritti”[6].

Nel 1963 si sviluppò un fitto rapporto epistolare tra Heidegger ed il pensatore giapponese Takehiko Kojima, che in una lettera pubblicata su un giornale di Tokyo affermò come attraverso l’occidentalizzazione fosse scesa sul Giappone quella notte che Kierkegaard e Nietzsche avevano già vista incombere sull’Europa. “L’unica cosa a cui possiamo credere – concludeva – è una parola tale che, precorrendo il mattino del mondo, del quale non possiamo sapere in che momento arriverà, sia in grado di scendere in questa lunga notte. Possa una tale parola sempre di nuovo giungerci vicino, richiamare il nostro passato e risuonare nel futuro”[7].

Nel 1964 avvenne il celebre incontro/dialogo, alternato da lunghi silenzi, con il monaco buddista tailandese Bikku Maha Mani (destinato ad essere trasmesso da un’emittente televisiva di Baden-Baden) in cui i due interloquirono sul ruolo della religione, sull’abbandono nel raccoglimento e sull’apertura al mistero. La meditazione, affermò il monaco, per l’orientale è un “raccogliersi”. In questo raccogliersi vi è un’estinzione dell’io ed alla fine il niente. Il niente, tuttavia, non è un “nulla”, ma vera e propria “pienezza”: la piena realizzazione.

Pur riconoscendo la fondamentale importanza del confronto e del dialogo con l’Oriente, Heidegger rimase comunque fermamente convinto che solo a partire dal medesimo luogo nel quale il mondo moderno della tecnica è nato si possa preparare anche la sua inversione. Per cambiare il modo di pensare nell’epoca della compiuta mancanza di senso, in cui la metafisica si trasforma in psicologia e l’umanità si lascia guidare dall’essenza della tecnica, c’è bisogno in primo luogo dell’aiuto della tradizione europea e di una riappropriazione del suo essere autentico.

Questa riappropriazione di un autentico orizzonte esistenziale non può prescindere dalla riflessione sull’essere e sul rapporto dell’uomo con la dimensione spaziale che lo circonda.

L’essere è il nutrimento dell’anima umana. E l’essere consente all’uomo il rapporto con l’ente. A questo rapporto è direttamente collegata l’idea di un “vivere autentico” che significa avere cura dell’unità originaria tra cielo e terra, tra mortali e divini, che si implicano a vicenda in quella originaria unità che è la co-appartenenza. Il vivere autentico, in questo senso, non concepisce scissione tra ordine fisico e metafisico. Questo significa essere nella quadratura del Geviert: quello schema heideggeriano, simile alla croce di Sant’Andrea, al cui centro si riuniscono le quattro dimensioni: cielo, terra, umani e divini.

Ora, l’essere non è “coglibile” attraverso i sensi. A questo proposito, Platone, nel Fedro, affermò che, relegando la vista dell’essere alla sfera del sensibile, esso non può essere scorto in modo puro ed autentico nel suo inoffuscato splendore. Per questo – prosegue Platone – nel sapere dell’essere i più hanno molta pena e dunque la vista dell’essere rimane in loro tale che non raggiunge la fine, cioè non consegue tutto quello che all’essere appartiene. Ed in primo luogo non riescono a concepire la sfera del soprasensibile. Il loro è un vedere a metà che declina lo sforzo intellettuale per arrivare alla vista del puro essere. E, declinando tale sforzo, non si nutrono più dell’essere ma della “sembianza” che si trova di volta in volta loro di fronte. E quanto più la maggior parte degli uomini soccombe a tale sembianza, tanto più l’essere si occulta, scivolando nella dimenticanza, e dando l’idea che esso non ci sia. Quando a prevalere è la dimenticanza, con l’essere si occulta anche il divino come sviluppo autentico delle costruzioni del logos, e viene meno la suddetta unità originaria tra cielo e terra, e tra umani e divini.

Volendo utilizzare una terminologia maggiormente collegata al tradizionalismo ed alla geografia sacra, potremmo affermare che il “Polo”, o centro spirituale, si ritira dalla vetta della montagna verso l’interno (nella caverna) nel momento in cui la “Verità” si occulta alla maggioranza degli uomini. Il grande iranista Henry Corbin, a tal proposito, parlò di evidenti corrispondenze tra la dottrina islamica sciita e l’analitica heideggeriana. “L’Imam si è nascosto – affermava Corbin – perché gli uomini si sono resi incapaci di vederlo”[8].

Rimangono solo poche anime capaci di pensare e di disporsi all’ascolto della voce dell’essere. Tuttavia, qualora si presentino le condizioni adatte, l’uomo che nella sua vista dell’essere si lascia vincolare ad esso, viene rapito e trasportato al di là di se stesso. Egli si estende tra sé e l’essere venendo elevato al di là di sé.

Nel corso del suo viaggio in Grecia, Heidegger venne colpito da una simile esperienza estatica. Sull’Acropoli di Atene ebbe la sensazione che “gli elementi architettonici dell’edificio si smaterializzassero. Tutto ciò che era frammentario scomparve. L’estensione e la misura si concentrarono in un solo luogo. Ciò che li unificava cominciò a far oscillare l’intera costruzione e, contemporaneamente, la sollevò in una presenza saldamente delimitata, intimamente fusa con le scogliere che la sostenevano. Quella presenza era colma dell’abbandono del santuario. A esso, invisibile, si avvicinò l’assenza della dea (Atena) fuggita”[9].

Il filosofo tedesco nella sua opera più famosa, Sein und Zeit, individuò nella fenomenologia un percorso filosofico capace di presentare non solo ciò che si mostra comunque o immediatamente. La fenomenologia si assume il compito di portare alla luce ciò che dapprima e per lo più non appare restando nascosto dietro l’invadenza dei fenomeni ordinari. Questo inapparente che la fenomenologia disocculta è tuttavia qualcosa che appartiene essenzialmente a ciò che si mostra dapprima così da costruirne il senso ed il fondamento. E questo, per Heidegger, rappresenta l’essere dell’ente.

L’essere viene essenzialmente denominato come vita. Ma questa vita, come già affermato, deve essere “vita vera ed autentica” che a sua volta si collega alla “resistenza allo scomparire nella sradicatezza e nell’inautenticità”[10].

Un “valore” è tale solo quando rappresenta la condizione affinché la vita sia vita autentica. Qualora un valore (come nel caso dei presunti valori giudeo-cristiani propugnati dal sopracitato Bannon) si riduca al risultato del calcolo delle prospettive di utilità per il mantenimento e il potenziamento di una precisa forma di dominio, esso non è più valore. “Le condizioni che inibiscono la vita non sono valori ma disvalori”[11].

L’imposizione di una forma culturale artificiale è il risultato del fatto che il Dasein europeo ha scelto scientemente di non-essere, vestendo la maschera dell’Occidente “americano” per nascondere la sua impotenza.

Tuttavia, il suo essere autentico permane in uno stato di occultamento (è un essere in latenza) da cui solo un nuovo domandare può ridestarlo e preparare l’uomo alla sua nuova apparizione. 


NOTE

[1]S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, pp. 351-352.

[2]A. Braccio, Gli USA contro l’Eurasia: il caso Bannon, su www.eurasia-rivista.com.

[3]Ibidem.

[4]C. Mutti, Pound contra Huntington, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 1/2006.

[5]C. Saviani, L’Oriente di Martin Heidegger, Il Melangolo, Genova 1998, p. 13.

[6]C. Mutti, La fortuna di Heidegger in Oriente, contenuto in Esploratori del continente. L’unità dell’Eurasia nello specchio della filosofia, dell’orientalistica e della storia delle religioni, Effepi, Genova 2011, p. 102.

[7]Ibidem.

[8]H. Corbin, L’Imam nascosto, Edizioni SE, Milano 2008, p. 68. In questo contesto non torneremo sull’enorme influenza che il pensiero heideggeriano ebbe sugli intellettuali iraniani prima e dopo la Rivoluzione. Questo tema è stato già oggetto di studio in un altro articolo pubblicato sul sito di “Eurasia” dal titolo Heidegger in Iran. Ed a tale studio, così come al saggio di Claudio Mutti La fortuna di Heidegger in Oriente, rimandiamo chi fosse interessato ad approfondire l’argomento.

[9]M. Heidegger, Soggiorni. Viaggio in Grecia, Piccola Biblioteca Guanda, Parma 2012, p. 55.

[10]M. Heidegger, La volontà di potenza come conoscenza, in Nietzsche, Edizioni Adelphi, Milano 1994, p. 470.

[11]Ibidem, p. 407.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).