È importante premettere che applicare le categorie del pensiero heideggeriano, così come gli studi tradizionali di René Guénon, alla geopolitica, è sempre un’operazione estremamente complicata, rischiosa e suscettibile di possibili fraintendimenti. Tuttavia la diretta discendenza della geopolitica dalla geografia sacra e dalla stessa conoscenza sacra, come spesso sottolineato da Claudio Mutti, teoricamente potrebbe rendere questo procedimento più scorrevole. È altresì importante sottolineare che tanto per la geopolitica quanto per la geografia sacra il concetto di Polo ricopre un ruolo cruciale, e che per entrambe lo spazio è più importante del tempo. Partendo da questo presupposto si può sviluppare l’idea di multipolarismo (o policentrismo) utilizzando come punti di riferimento due modelli filosofici che, seppur distanti, mostrano rilevanti punti di convergenza.

 

Nell’appendice conclusiva al suo studio sulle dottrine indù, il tradizionalista francese René Guénon, constatata la profonda divergenza culturale e intellettuale tra Oriente e Occidente e la ridicola quanto inesistente pretesa di superiorità mentale di quest’ultimo, cercò di delineare la via attraverso la quale l’Europa, una volta sfatato l’insensato mito del progresso ad infinitum, avrebbe potuto recuperare una posizione nel mondo ed il valore di vera civiltà alla pari e nel pieno rispetto delle altre. Scriveva il pensatore originario di Blois: “Occorrerebbe che l’Occidente, proprio quando il suo sviluppo nel senso attuale giungesse alla fine, trovasse in se stesso i principi di uno sviluppo in un altro senso […] e che questo nuovo sviluppo, rendendo la sua civiltà comparabile a quella dell’Oriente, gli permetta di conservare nel mondo, non già una preminenza che non gli spetta a nessun titolo e che deve esclusivamente all’uso della forza bruta, ma almeno il posto che può legittimamente occupare come rappresentante di una civiltà tra le altre, e una civiltà che, nelle mutate condizioni, non sarebbe più un elemento di squilibrio e oppressione per il resto degli uomini”[1].

È abbastanza curioso notare come la constatazione del pensatore francese contenga in nuce i cardini fondanti della teoria geopolitica della multipolarità e di una sua possibile evoluzione nei termini di policentrismo. Ovvero, come piattaforma ideologica che, ammettendo la presenza di centri differenti nel contesto delle relazioni internazionali (Stati o gruppi di Stati che ne influenzano in modo determinate le dinamiche) ciascuno dei quali privo di diritti esclusivi e dunque costretti a tenere conto delle posizioni degli altri, si ponga in aperto contrasto con l’istinto universalistico dell’imperialismo occidentale nordamericano.

L’approccio più comune al multipolarismo consiste proprio nell’individuazione di concorrenti o di oppositori al dominio occidentale sul mondo. Un dominio e un ordine mondiale, realizzatosi come costruzione concentrica attorno al polo nordamericano, che si espande lungo direttrici ideologiche ben definite (democrazia liberale, mercato, diritti umani) ed in cui ad ogni Stato è richiesto di replicare il modello statunitense qualora non voglia incappare in sanzione, criminalizzazione o esclusione dal sistema. Di fatto, la ricostruzione del diritto internazionale in termini penal-criminalistici nel post 1945 e l’idea che il nemico sia un mostro da distruggere moralmente e psichicamente sono i prodotti più evidenti di questa forma mentis derivata da quella che il giurista tedesco Carl Schmitt definiva come la “deformazione liberale del linguaggio”. 

Il modello unipolare, affiancatosi al sistema westfaliano[2] (ancora vigente de jure ma no de facto), ha paradossalmente distrutto i principi sui quali si fondava il suddetto sistema e detronizzato lo Stato come modello dell’unità politica e come titolare della decisione politica finale, trasformando la sovranità stessa in una mera finzione giuridica.

Il processo di espansione della “benevola egemonia” nordamericana va di pari passo con la realizzazione pratica dei suoi interessi economici. E l’egemonia economica procede di pari passo con quella intellettuale. Questa operazione di egemonia culturale ha come vittime principali la lingua come “distillato psicologico etnico”[3] fondamento di qualsiasi società umana ed il linguaggio nel suo insieme in quanto casa dell’Essere (das Haus des Seins), secondo Martin Heidegger. Di fatto, “l’assunzione di una terminologia straniera ai fini della modernizzazione del linguaggio è volto a minare le fondamenta ontologiche di ogni popolo”[4] eliminando ogni differenza tra popoli e culture e trasformando l’umanità stessa in una enorme società civile cosmopolita e senza confini: una sorta di versione edulcorata del delirio postmarxista di Toni Negri e Michael Hardt sulle moltitudini.

A questo proposito, su un piano prettamente linguistico, sarà utile ricordare che Josif Stalin (linguista di un certo spessore) attaccò le teorie di Nikolaj J. Marr sull’applicazione del marxismo al campo della linguistica e sull’ipotesi della fusione delle lingue moderne sino alla creazione di un’unica lingua della futura società comunista. Stalin, in aperto contrasto con questa teoria, riconosceva la necessità di un’unica lingua nazionale alla quale in nessuno caso può essere attribuito un carattere di classe, ammettendone al massimo il suo inquinamento attraverso il lessico mercantilista della borghesia. Ma la lingua rimane come fondamento della comunità. “Senza lingua non c’è comunità. La lingua si sviluppa con il nascere e lo svilupparsi della società. Essa muore con il morire della società”[5].

Attraverso l’egemonia intellettuale, gli ideali occidentali si trasformano in fenomeno universale ed ogni forma di cultura o civiltà “altra” viene automaticamente identificata come incivile ed inferiore. Questa è la retorica dello “scontro di civiltà” di Samuel Huntington che nell’istante unipolare, insieme al fallace neoidealismo di Fukuyama, ha rimpiazzato le tradizionali ed immobili correnti di pensiero anglosassoni inerenti allo studio delle relazioni internazionali: in particolar modo realismo, neorealismo e costruttivismo.

Le voci critiche si inseriscono all’interno del medesimo sistema valoriale. Infatti, l’idea di non-polarità, fondata sul principio di omologazione delle classi dirigenti di ogni nazione agli ideali occidentali, sulla dispersione del processo decisionale dal centro nordamericano ai gradi inferiori e sostenuta da élite finanziarie, politiche e da gruppi di pressione molto potenti, come ha notato il filosofo russo Aleksandr Dugin, altro non è che una prosecuzione dell’unipolarismo con la sola differenza che, grazie all’omologazione globale, gli USA non sarebbero più costretti ad agire come “poliziotto globale”[6].

Ora, il multipolarismo, in contrasto tanto con l’unipolarismo quanto col sistema westfaliano (lo Stato-nazione rimane comunque una creazione moderna imposta su scala globale proprio dall’imperialismo occidentale), non riconosce ad ogni Stato il ruolo di Polo a tutti gli effetti in quanto larga parte degli Stati attuali non sono realmente sovrani e non sono in grado di provvedere né alla loro sicurezza né alla loro stessa sussistenza. Questi altro non sono che costruzioni a tavolino prive di riscontri reali; degli “Stati-clienti” a sovranità limitata soggetti ai capricci dei poteri forti che li controllano, secondo la fortunata espressione del geopolitico francese François Thual. E proprio la parcellizzazione del mondo rappresenta “un mezzo di dominio e di controllo più efficace di quello costituito dai vecchi imperi coloniali”[7]. Si pensi ai casi limite del Kosovo, del Sud Sudan o della Bosnia-Erzegovina: paese in larga parte musulmano capace di astenersi durante la recente votazione all’ONU sull’infausta scelta statunitense di spostare la sede diplomatica nell’entità sionista da Tel Aviv a Gerusalemme.

In linea teorica il termine policentrismo sarebbe da preferire alle espressioni di provenienza angloamericana “multipolarità” o “multipolarismo” anche perché presume l’esistenza ed il diritto all’esistenza di modelli differenti di civiltà.

Lo studioso russo Leonid Savin ha fatto notare infatti come il termine policentricità presenti delle interessanti connotazioni. Il termine “Poli” rimanda sia a Polo (centro) sia alla parola greca polis (città). E per Martin Heidegger la polis è il luogo della storia della Grecia antica: il centro della sua essenza. Il Polo (o polis) è il luogo attorno al quale ruotano tutti gli enti: il luogo della svelatezza dell’ente nel suo insieme[8].

Il policentrismo prevede l’esistenza di diversi centri su una unità di superficie spaziale orizzontale. Il Polo (centro) è il punto immobile attorno al quale ruotano e si sviluppano svariate entità periferiche ad esso collegate da un rapporto di interdipendenza e reciprocità. Il centro presuppone l’estensione. Utilizzando la terminologia guenoniana si può dire che esso contiene una “virtualità di estensione”. “È il punto che realizza lo spazio, che produce l’estensione mediante quell’atto che, nella condizione temporale, si manifesta come movimento; ma per realizzare lo spazio in questo modo occorre che con qualcuna delle sue modalità il punto sia situato esso stesso in questo spazio, il quale del resto non è nulla senza di esso e sarà riempito per intero dal dispiegamento delle sue virtualità”[9].

In termini geopolitici il Polo (punto o centro) può essere identificato col concetto di “popolo guida”. Come sostenuto dal pensatore ungherese Ferenc Szálasi, infatti, “senza movimento non c’è vita e senza un asse non c’è movimento”[10]. Ogni movimento ha dunque un asse. Quest’asse sono i popoli guida che “danno inizio al movimento e intorno ai quali si cristallizza la vita”[11]. Essi sono i generatori organici del movimento.

René Guénon tracciò le linee guida grazie alle quali l’Europa, abbandonata la sua attuale decadente forma di civiltà e separatasi da quella perniciosa anomalia culturale prodotta dall’estremo occidente nordamericano, potesse nuovamente assumere la dimensione geografico-culturale di centro. Tale processo, di natura eminentemente intellettuale, si sarebbe dovuto produrre come evento capace di sviluppare una sua propria autocoscienza attraverso, ancora una volta in termini geopolitici, il riconoscimento della necessità della costruzione di una comunità di popoli che rifiuti l’egemonia anglo-americana.

Guénon era convinto della possibilità che un nucleo intellettuale, anche ristretto ma ben saldo nelle sue convinzioni, avrebbe potuto costituire l’indispensabile mediatore per riportare la mentalità generale verso le fonti della vera intellettualità. Egli riconosceva nella mancanza di un effettivo collegamento a una tradizione e nella corruzione della stessa attraverso l’eterodossia la radice della deviazione occidentale. “Il ritorno a una civiltà tradizionale, nei suoi principi e in tutto l’insieme delle sue istituzioni, sembra essere la condizione fondamentale per questa trasformazione e tale ritorno si identifica con la trasformazione stessa […] Il ritorno alla tradizione si presenta come il più essenziale degli scopi che l’élite intellettuale dovrà prefiggersi […] Il Medioevo ci offre l’esempio di uno sviluppo tradizionale propriamente occidentale; si tratterebbe in definitiva, non di copiare o di ricostruire pedissequamente quanto esistette a quell’epoca, ma di trarne ispirazione per l’adattamento reso necessario dalle attuali circostanze”[12].

Claudio Mutti ha intuito come l’unipolarismo nordamericano, nonostante la retorica del “destino manifesto”, non fosse affatto costruito per durare in eterno e come l’Europa dovesse preparasi verso la transizione ad un nuovo nomos della terra articolato in un pluriversum di grandi spazi, proprio riscoprendo e ripensando il modello dell’Impero come unica forma politica sovranazionale che essa sia stata capace di sviluppare nel corso della sua storia[13].

Di fatto, l”Impero è un organismo completo e armonico. Esso è il culmine per eccellenza della vita associata dell’uomo. All’idea di Impero è estraneo il concetto dell’individuo proprio dell’età moderna e forgiato attraverso il Rinascimento, la Riforma protestante e le rivoluzioni borghesi di fine XVIII secolo. L’Impero, per sua natura, tende ad un fine che assume significato solo attraverso forme di condivisione comunitaria della vita umana. In questo contesto l’individuo riscopre il proprio valore attraverso il senso di appartenenza attiva ad una comunità al contempo politica e spirituale.

L’Impero assume la funzione di regolatore supremo delle relazione tra i diversi popoli (ethnos) che lo compongono in quanto ogni popolo ha un suo Dasein (Esser-ci).

Martin Heidegger delineò la via attraverso la quale intraprendere questo ritorno (Rückkehr) indispensabile per superare la trasformazione della metafisica occidentale nella sua stessa anti-essenza dovuta al processo di de-divinizzazione del mondo attuato nell’epoca della tecnica che ha il nulla a suo fondamento.

L’evento (Ereignis) che condurrà a tale superamento non può che attuarsi in primo luogo nell’uomo e nel suo pensiero. “La parola Ereignis deve parlare come parola-guida al servizio del pensiero”[14]. La verità metafisica fondamentale e immediata “l’Essere è”, espressa in termini religiosi si traduce nell’affermazione “Dio esiste”, che di per sé rovescia già l’impostazione nichilistica della mentalità occidentale la cui religiosità è confinata alla sfera della moralità. Ora, l’Essere si svela nel linguaggio. Non nel linguaggio scientifico della civiltà della tecnica ma nel linguaggio autentico della poesia[15]. Filosofare è poetare e la poesia aiuta l’uomo nel cammino verso il linguaggio e sotto molti aspetti è il viaggio stesso[16]. Il linguaggio può essere compreso alla luce del Dasein in quanto ha le sue radici nella costituzione esistenziale della schiusura dell’Esser-ci. “Il fondamento esistenziale e ontologico del linguaggio è il parlare”[17]. L’Essere parla all’uomo attraverso il linguaggio autentico che presuppone anche il silenzio come riduzione della possibilità del parlare inautentico connesso alle potenzialità della comunicazione. È il linguaggio stesso, come esperienza religiosa, a parlare in noi facendo dono di sé. Ed esso è nella sua essenza Ereignis: evento disvelante che apre lo spazio per la schiusura del Dasein.

La riscoperta del linguaggio metafisico è il fondamento per la preparazione dell’Ereignis. E l’ordine metafisico si esprime in primo luogo attraverso il linguaggio dei simboli. Per questo Heidegger scelse il modello intellettuale del Geviert. che richiama il simbolismo della croce, come concentrato filosofico dal cui punto di intersezione si dispiega la dimensione spaziale entro la quale abitare in vista di un nuovo inizio di civiltà. Questo punto di intersezione è il Polo in cui si sviluppano lungo i sensi dell’ampiezza e dell’esaltazione i presupposti di un nuovo vivere comune.


NOTE

[1]R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, Milano, p. 249.

[2]Questo sistema prevede l’uguaglianza giuridica di tutti gli Stati sovrani che, di conseguenza, rappresentano ognuno un diverso polo decisionale.

[3]L. Savin, Geopolitica della lingua russa, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, III/2012.

[4]Ibidem.

[5]J. Stalin, Il marxismo e la linguistica, Edizioni Rinascita, Roma 1952, p. 33. Stalin, approvando le critiche di Arnold S. Cikobava alle teorie di Marr, non accettava la confusione fatta da quest’ultimo tra lingua e sovrastruttura. Queste sono due cose differenti. La lingua come mezzo di comunicazione è sempre stata e rimane unica per una società e comune a tutti i suoi membri. L’esistenza di dialetti e di gerghi non nega ma conferma l’esistenza di una lingua comune a tutto il popolo, delle quali essi sono le ramificazioni e alla quale sono subordinati. Dunque, sosteneva Stalin, la formula del carattere di classe della lingua è errata e non marxista.

[6]A. Dugin, Multipolarismo: definizione e differenza tra i suoi significati, su www.geopolitica.ru.

[7]F. Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008, pp. 24-25.

[8]L. Savin, Multipolarità e policentricità, su www.geopolitica.ru.

[9]R. Guénon, Il simbolismo della croce, Adelphi Edizioni, Milano 2012, p. 103.

[10]F. Szàlasi, Grande spazio, spazio vitale, popolo guida, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2017, p. 59.

[11]Ibidem.

[12]R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, op. cit., p. 252.

[13]C. Mutti, Imperialismo e Impero, “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici” 1/2013.

[14]M. Heidegger, Identità e differenza, Adelphi Ediioni, Milano 2009, p. 44.

[15]René Guénon riconobbe come il linguaggio anglosassone non avesse alcuna attitudine per le concezioni metafisiche in quanto raramente il suo spirito abbandonava la sfera pratica costituita dalla scienza sperimentale e la sfera della morale, della sociologia e della psicologia.

[16]M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Ugo Mursia Editore, Milano 1999, p.101.

[17]M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2011, p. 232.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.


 

Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).