La nuova offensiva del Generale Khalifa Haftar su Tripoli impone una svolta (forse decisiva) al conflitto in corso dal 2011 nel Paese nordafricano. Oggi più che mai, dunque, si avverte la necessità di provare a fare chiarezza all’interno di uno scenario estremamente complicato in cui le forze in campo e soprattutto i loro rispettivi sostenitori esterni agiscono su più livelli ed in modo sempre più ambiguo.

“La geopolitica sa perfettamente che vi saranno sempre grandi spiriti che non si accontentano della mediocrità; sa che è necessario che avvengano sempre delle rotture, nuove fecondazioni e nuove formazioni. In ragione dell’arbitrio che caratterizza l’azione politica umana, la geopolitica non potrà fare dichiarazioni precise se non nel 25% dei casi, all’incirca. Non è già un buon risultato se, in un’evoluzione in cui tutto deve essere lasciato all’arbitrio umano ed agli umori delle masse, almeno un quarto dei casi, accessibili alla previsione ed alla ragione attiva, viene previsto dalla geopolitica?”[1].

Così scriveva il grande studioso tedesco di geopolitica Karl Haushofer nella prima metà del XX secolo. Un’affermazione che può essere facilmente applicata all’attuale scenario libico in cui gli opposti schieramenti ed i loro sostenitori (più o meno nascosti) sono decisamente meno chiari e più sfumati rispetto a quanto si può osservare nel conflitto in Siria.

Dunque, risulterebbe alquanto complesso per un analista geopolitico fornire previsioni certe sull’evoluzione del conflitto, sulla stabilità delle alleanze e sui rapporti di forza in campo.

Tuttavia, si può iniziare a trarre alcune importanti conclusioni che, per ragioni di chiarezza, verranno suddivise su diversi punti.

1) In primo luogo è necessario evidenziare che la lettura fornita da alcuni siti di informazione geopolitica seconda la quale dietro la nuova offensiva dell’Esercito Nazionale Libico vi sarebbe la longa manus della Francia neocolonialista di Emmanuel Macron, desiderosa di impossessarsi, a discapito dell’Italia, della ricchezze del sottosuolo libico, è del tutto sommaria se non addirittura fuorviante. Tale lettura, prodotto di ambienti “sovranisti”, è strumentale alla propaganda dell’attuale governo giallo-verde, volta all’identificazione di un nemico al quale addossare le colpe dei propri fallimenti (imposti anche dall’irresponsabile fiducia riposta nelle fallaci promesse trumpiste sulla “cabina di regia congiunta USA-Italia” sulla crisi libica).

È bene chiarire fin da subito che le quote petrolifere italiane in Libia non sono a rischio. A conferma di ciò basterà ricordare che l’ENI ha recentemente rinsaldato i suoi legami con la NOC – National Oil Company libica attraverso l’avvio della Fase 2 del progetto di estrazione di gas dal giacimento Bahr Essalam a largo delle coste nord-occidentali della Libia. E che questo progetto completa lo sviluppo del più grande giacimento in produzione nei mari libici con un potenziale produttivo incrementato di oltre 400 milioni di metri cubi di gas[2].

La compagnia francese Total è presente in Libia sin dal 1954, cinque anni prima di ENI, ed i nuovi contratti posti in essere tra questa e la NOC riguardano essenzialmente l’esplorazione di nuovi settori del territorio di libico e non mirano ad usurpare quote petrolifere ENI.

Più che altro, l’Italia dovrebbe domandarsi perché ha continuato così lungamente a snobbare Haftar, sostenendo un governo fantoccio che, seppur riconosciuto in ambito internazionale come legittimo, sul terreno rimane totalmente privo di autorità, dovendosi appoggiare su effimeri accordi tra milizie variamente riconducibili alla galassia gihadista-islamista che si contendono il controllo sulla capitale e le zone limitrofi. Il fatto che il 70% dei suoi interessi petroliferi si trovi in Tripolitania non può certo giustificare la quasi totale assenza di una visione geopolitica di lungo periodo.

Per troppo tempo, inoltre, si è continuato a dare credito alle suddette promesse statunitensi, mostrandosi completamente orbi anche di fronte all’evidenza: quando, ad esempio, gli unici Paesi a prendere seriamente il Vertice di Palermo (fallimentare nei suoi esiti) furono Egitto e Russia (con rappresentanti di primo livello), che guarda caso sono oggi i principali sostenitori di Haftar.

Ergo, il problema italiano rimane sempre lo stesso: la condizione di totale subalternità geopolitica nei confronti degli USA. Una condizione che non è certo attribuibile in modo esclusivo all’attuale compagine di governo “giallo-verde”. Già con i governi Renzi e Gentiloni, per ciò che concerne il conflitto libico, l’Italia diede prova di appiattimento sulle posizioni obamiane. Tuttavia, tale condizione sembra oggi ulteriormente accentuata, come dimostrato nei mesi scorsi dal reiterato gangsterismo politico praticato dai vertici statunitensi sul governo italiano riguardo all’accordo (poco vincolante e ben inferiore rispetto a quelli già stipulati da Francia e Germania) tra Cina e Italia, data l’adesione di quest’ultima al progetto della Nuova Via della Seta. Un peccato di lesa maestà che ha portato la componente di governo “pentastellata” a doversi recare a Washington, dove il potente Consigliere alla Sicurezza John Bolton l’ha costretta a rilasciare, in cambio, una dichiarazione di disconoscimento di Nicolas Maduro come legittimo Presidente del Venezuela.

2) Preso atto che l’Eliseo non ha fornito alcun nulla osta o indirizzo preciso all’offensiva dell’ENL, resta da capire cosa abbia spinto all’azione il Generale rinnegato da Muammar Gheddafi dopo l’inconcludente guerra col Ciad negli anni ’80 del XX secolo.

Che il Generale Haftar fosse sul piede di guerra era risaputo da tempo e solo agli analisti meno accorti questo fatto è sfuggito. Già nelle scorse settimane, infatti, aveva preso possesso del fondamentale giacimento di El-Feel, gestito direttamente da ENI e NOC, e si era impadronito dei pozzi di Sharara, tra i più importanti della Libia.

Ora, l’obiettivo di Haftar, considerata la prossimità della Conferenza interlibica organizzata dalle Nazioni Unite che (salvo impedimenti dovuti a cause di forza maggiore) dovrebbe svolgersi intorno alla metà di aprile a Ghadames (come ribadito dall’inviato ONU Ghassan Salamè), è prima di tutto quello di mostrare l’assoluta inconsistenza del governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj; ottenere una posizione di assoluto vantaggio in vista di tale conferenza (che si faccia o meno); ed arrivare alla rimozione di quell’embargo internazionale che gli impedisce di esportare greggio. Una situazione quasi paradossale se si considera che controlla larga parte dei pozzi petroliferi libici mentre gli introiti dell’oro nero entrano solamente nelle casse dell’oltremodo corrotto Governo di Accordo Nazionale di al-Sarraj, ostaggio delle milizie gihadiste e di criminalità organizzata di varia natura.

Dunque, Haftar mira dritto su Tripoli per presentarsi come pacificatore nazionale ed unico uomo capace garantire stabilità. Ma, per fare, ciò dovrà inevitabilmente evitare il bagno di sangue.

Il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov, tradendo comunque una sostanziale condivisione di intenti con l’ENL, a tal proposito ha prontamente dichiarato che la cosa più importante è che tali azioni non conducano a nuovi brutali spargimenti di sangue.

Di fatto la Russia, pur proponendosi ancora una volta come moderatrice, ha più di un interesse nel vedere lo scenario libico definitivamente stabilizzato[3]. In un’altra analisi pubblicata nel sito di “Eurasia” si era cercato di mettere in evidenza come l’obiettivo russo fosse quello di costruire uno stabile “triangolo” nel Mediterraneo orientale, comprendente Siria, Egitto e Libia, capace di contrastare il duopolio USA-Arabia Saudita nel mercato del greggio e la sua capacità di incidere in modo determinante sul suo prezzo. L’ingresso prepotente della Russia, tanto in Egitto (dove Rosneft è partner di ENI nel progetto di sviluppo del megagiacimento di gas Zohr; e Paese con il quale la Russia sta stipulando altrettanto importanti accordi militari e commerciali), quanto in Libia (in cui sempre Rosneft sta operando importanti investimenti), mira a redimere questi Paesi dalla sostanziale dipendenza dai fondi provenienti dal Golfo, sia a scardinare sul nascere il progetto trumpista di una NATO araba che avrebbe dovuto costruire le sue fortune sull’assoluta comunione di intenti tra l’Arabia Saudita e lo stesso Egitto[4].

A parziale sostegno della tesi che vede la Russia schierata sul fianco di Haftar vi sarebbe l’inusuale frequenza di voli, registrata dai servizi ucraini ed avallata dall’intelligence nordamericana, che avrebbero trasportato nell’area di Tobruk e Bengasi armi e mercenari nei giorni immediatamente antecedenti all’attacco[5].

3) A questo punto si rende necessario anche fare il punto sulla situazione delle forze e degli schieramenti in campo. In primo luogo, è da escludersi uno scontro frontale (in campo aperto) tra l’ENL e le milizie che occupano Tripoli. Se le truppe dell’ENL, stanziate a pochi chilometri dalla capitale libica, dovessero entrare nella città, si combatterà casa per casa. Cosa che ritarderebbe la caduta di Tripoli e garantirebbe al suo governo di guadagnare ulteriore tempo[6]. Il Governo di Accordo Nazionale, come sostenuto dal suo portavoce, l’islamista Muhammad Qanunu, ha lanciato una controffensiva che ha ottenuto scarsi risultati ed attende l’arrivo delle milizie gihadiste di Misurata, teoricamente indipendenti da Tripoli, ma ben consce del fatto che, se Haftar dovesse liberare la capitale, il prossimo obiettivo sarebbero inevitabilmente loro.

Ciò che è sicuro, al momento è che l’offensiva dell’ENL ha dimostrato la totale impreparazione della NATO e delle forze USA sul terreno. La NATO in particolare non ha una posizione unitaria, con la Francia che teoricamente sostiene Haftar e con la Gran Bretagna che sostiene Tripoli.

Decisamente più ambigua rimane la posizione nordamericana. Come è noto il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha ribadito che non vi può essere soluzione militare del conflitto libico ed ha invitato il Generale Haftar a porre immediatamente fine all’azione militare[7]. È altrettanto noto che le truppe statunitensi hanno prontamente abbandonato l’area su decisione del Comandante dell’Africom Thomas Waldhauser, che ha dichiarato: “The security realities on the ground in Libya are growing increasingly complex and unpredictable[8].

Ma per quale motivo le forze statunitense dovrebbero abbandonare di soppiatto la Libia?

È altrettanto risaputo che gli USA non hanno mai amato il Colonnello Gheddafi. Hanno cercato di ucciderlo a più riprese negli anni ’80 del secolo scorso. E, per portare dalla loro parte una classe dirigente italiana che, all’epoca, era costituita da personaggi quanto meno più avveduti di quella attuale, inventarono il bluff dei missili libici su Lampedusa, di cui nessuno trovò mai i resti. Ciò che non riuscirono a fare negli anni ’80 lo portarono a compimento nel 2011 con la brutale aggressione che, su istigazione anglo-francese, distrusse la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista costruita dal Colonnello dopo la Rivoluzione del 1969.

Dunque, anche se al momento gli Stati Uniti sembrano disinteressarsi al destino della Libia (come la rapida ritirata sembrerebbe dimostrare), è altrettanto vero che avrebbero tutto l’interesse a piazzare una propria base sulla sponda sud del Mediterraneo. Cosa che, tra l’altro, rappresenterebbe una ulteriore perdita di prestigio geopolitico da parte dell’Italia. Ed è altrettanto vero che per fare ciò non hanno alcun bisogno che la situazione libica si stabilizzi. L’obiettivo degli Stati Uniti è semplicemente quello di mantenere la Libia nella condizione di Stato fallito, alla pari delle migliori creazioni NATO dell’istante unipolare: Bosnia-Erzegovina, Kosovo ed Ucraina post-Maidan.

L’attuale ritiro, come quello promesso ma mai effettuato in Siria, è puramente strategico. E non è da escludersi un loro ritorno in forze sullo scenario libico in futuro. Per quanto Haftar attualmente penda verso la Russia, non ci si può dimenticare che rimane un personaggio estremamente pragmatico. Questi, dopo l’esilio cui lo costrinse Gheddafi, trascorse anni della sua vita a Langley, in Virginia, sotto la protezione della CIA; ed i suoi rapporti con Emirati Arabi Uniti e con gli stessi sauditi, che gli hanno fornito fondi per comprarsi la lealtà di diversi gruppi tribali libici, rimangono ancora sostanzialmente saldi.

Così, non è da escludersi che tale ritiro strategico vada letto come parte integrante di quella “strategia bizantina” che sembra guidare gli USA dell’era Trump: minimo sforzo militare, massimo impegno strategico per non perdere un centimetro della propria potenza egemonica attraverso la tessitura di una fitta rete di relazioni bilaterali in cui gli Stati Uniti rimangono comunque in una posizione di dominio. Ed è chiaro che tale strategia può essere facilmente applicata ad una Libia perennemente instabile o debolmente stabilizzata.

Lo stesso mantenimento dell’Europa meridionale in perenne condizione di emergenza sotto la minaccia del fenomeno migratorio (problema sul quale le destre atlantiste costruiscono le loro fortune elettorali odierne) è prodotto da questa instabilità permanente che “giustifica” ad infinitum la presenza della Sesta Flotta nordamericana nella acque del Mediterraneo ed alla quale nessuno, nel campo occidentale, ha reale interesse a porre rimedio.


NOTE

[1]Karl Haushofer, Che cos’è la geopolitica?, “ Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, III/2018.

[2]Il progetto offshore Bahr Essalam Fase 2 ha iniziato la produzione, su www.eni.com.

[3]Joaquim Flores, Libya: Battle For Tripoli – Russia Plays At ‘Moderating’ Role While Favoring Haftar’s LNA, su www.fort-russ.com.

[4]Si veda Nuovi scenari geopolitici del conflitto libico, www.eurasia-rivista.com.

[5]Nick Paton Walsh, A US Citizen Wants to Overthrow a US-Backed Government in Libya. Here’s Why, su www.cnn.com.

[6]Vladimir Gujanicic, The Comig Battle For Tripoli: Why Does Haftar Have An Advantage?, su www.fort-russ.com.

[7]Eliza Mackintosh, US Pulls Troops From Libya Amid a Surge in Violence, su www.cnn.com.

[8]Ibidem.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).