Parlare in modo aperto del declino imperiale degli Stati Uniti d’America, soprattutto nel momento in cui vengono firmati i cosiddetti “Accordi di Abramo” e l’Unione Europea emana una risoluzione di condanna per il presunto avvelenamento dell’oppositore russo Alexei Navalny che di fatto blocca i lavori per il Nord Stream 2 (realizzando così il sogno nel cassetto di Washington)[1], è un’operazione complicata che rischia di generare diverse incomprensioni.

Se è vero che gli Stati Uniti stanno inevitabilmente affrontando un periodo di crisi e declino, è altrettanto vero che la loro egemonia globale (quello che in termini geopolitici si potrebbe definire come “momento unipolare”) è ancora lontana dal finire.

Tuttavia, e nonostante le apparenze, vi sono segni chiari di tale declino, sia a livello interno che esterno. Un enorme volume di narrativa propagandistica è stato prodotto attorno all’elezione di Donald J. Trump nel 2016. Una propaganda dalla quale non sono rimasti immuni neanche personaggi insospettabili (o quasi) che fino a poco tempo prima indicavano negli Stati Uniti il nemico principale.

La vittoria di Donald J. Trump venne infatti presentata come la vittoria di un candidato antisistema e di una forma nordamericana di “populismo”, anche se declinato in termini totalmente postmoderni. Oggi, sebbene l’attuale campagna presidenziale stia seguendo più o meno gli stessi binari, si può affermare con una certa cognizione di causa che Donald J. Trump, lungi dal vincere le elezioni del 2016 grazie ai suoi slanci populisti e antisistemici, le vinse principalmente per il fatto di avere speso il doppio del suo avversario per la campagna elettorale[2]. Quella che è stata presentata come una lotta tra il bene ed il male (lo scontro tra il Presidente antisistema ed il cosiddetto “deep State”), altro non è che uno scontro fra strategie ed apparati differenti, per nulla estraneo alla storia degli Stati Uniti. E si può affermare (sempre con una certa cognizione di causa) che l’emergere di forze disgregatrici interne è storicamente sinonimo di crisi e declino per un’“entità imperiale”. Piuttosto che forza rivoluzionaria (come è stato dipinto dalla propaganda), il trumpismo è semplicemente l’ultimo tentativo di salvare la globalizzazione americana e con essa un’egemonia globale sempre più declinante.

Ora, la nostra analisi si concentrerà soprattutto sui fattori esterni che stanno spingendo verso tale declino. Ed a questo proposito bisogna considerare diversi fattori. In primo luogo bisogna tenere a mente il fatto che la crisi pandemica ha inevitabilmente accelerato tutta una serie di processi geopolitici che, con tutta probabilità, avrebbero richiesto parecchi mesi o addirittura anni prima di arrivare in superficie. In altre analisi pubblicate su “Eurasia” si è fatto riferimento, ad esempio, a quegli accordi di tregua commerciale tra Cina ed USA che solo nel gennaio di quest’anno venivano presentati dalla propaganda a stelle e strisce come una grande vittoria della diplomazia nordamericana. Pochi mesi dopo, tuttavia, si parlava già di nuova “guerra fredda” e di nuovo “bipolarismo”.

Di fatto, le continue e reiterate accuse verso la Cina per la diffusione (e spesso addirittura fabbricazione)[3] del virus hanno spinto Pechino a modificare la sua strategia nei confronti della rivale potenza declinante: da una strategia di accompagnamento al declino ad una decisamente più aggressiva.

L’accordo di cooperazione tra Iran e Cina, siglato a luglio, è strettamente connesso con questo cambio di strategia. I fondamenti di questo patto risalgono alla visita di Xi Jinping a Teheran del 2016. In quell’occasione i due Paesi produssero un comunicato congiunto in 20 punti che presenta passaggi di particolare interesse. Il punto 5, ad esempio, afferma: “Both sides strongly support each other regarding issues pertaining to their core interests such as independence, national sovereignty, and territorial integrity. The Iranian side continues its strong commitment to the One-China policy. The Chinese side supports the Iranian side’s ‘Development Plan’ as well as increasing Iran’s role in regional and international affairs[4].

Mentre il punto 7 dice: “The Iranian side welcomes ‘the Silk Road Economic Belt and the 21st Century Maritime Silk Road’ initiative introduced by China. Relying on their respective strengths and advantages as well as the opportunities provided through the signing of documents such as the ‘MOU on Jointly Promoting the Silk Road Economic Belt and the 21st Century Maritime Silk Road’ and ‘MOU on Reinforcement of Industrial and Mineral Capacities and Investment’, both sides shall expand cooperation and mutual investments in various areas including transportation, railway, ports, energy, industry, commerce and services[5].

Appare abbastanza evidente che una cooperazione strategica basata su questi assunti possa essere percepita come una minaccia diretta da parte degli USA. Il patto, che avrà una durata di 25 anni, infatti, ridà vigore al progetto della Nuova Via della Seta e restituisce all’Iran un ruolo centrale nel processo di integrazione eurasiatica. Inoltre, supera il regime sanzionatorio nordamericano noto come strategia della “massima pressione”, trasformando la Repubblica Islamica in un crocevia di primaria importanza per il commercio eurasiatico (l’Iran si trova all’incrocio tra le direttrici Nord-Sud ed Ovest-Est del continente) esattamente come nell’antichità, quando la lingua parlata lungo la Via della Seta era il persiano.

Come ha affermato Ali Aqa Mohammadi (consigliere della Guida Suprema Ali Khamenei): “Questo documento sconvolge il regime sanzionatorio e molti dei piani statunitensi per la regione […] Il coordinamento tra Cina ed Iran può portare la regione fuori dalle mani degli USA e rompere la loro rete regionale”[6].

La cooperazione strategica tra i due Paesi non si concentra esclusivamente sugli investimenti nel settore energetico o in quello delle infrastrutture[7], ma anche nel settore militare. Il primo risultato (ed anche il più preoccupante per gli Stati Uniti) degli accordi sino-iraniani è stato il rifiuto da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite della richiesta nordamericana di prolungare l’embargo alla vendita di armi alla Repubblica Islamica, che scadrà ad ottobre. Di fatto, a partire proprio da ottobre, la Cina inizierà a fornire a Teheran diversi sistemi ed armamenti di nuova generazione.

È ben noto che la Cina e la Corea del Nord, sin dai primi anni ’80, hanno sviluppato stretti legami nel settore militare con l’Iran. Pechino, ad esempio, fornì un cospicuo numero di missili balistici alla neonata Repubblica Islamica nel corso della guerra contro l’Iraq per controbilanciare le piattaforme di lancio degli Scud B di fabbricazione sovietica in dotazione all’esercito di Saddam Hussein. La Cina ha avuto inoltre un ruolo fondamentale nell’aiutare Teheran a sviluppare il proprio settore militare, tanto che le attuali piattaforme missilistiche iraniane si basano su tecnologie cinesi[8].

Dunque, grazie a questo accordo di cooperazione, l’economia ed il settore militare di Teheran verranno seriamente rafforzati. Allo stesso tempo, la Cina potrà godere non solo di una fornitura stabile (ed a prezzi scontati) di idrocarburi, ma anche dell’ingresso effettivo in un ampio mercato per i propri prodotti tecnologici.

Questi, tuttavia, non sono gli unici motivi per i quali l’asse Pechino-Teheran viene considerato come una grave minaccia per gli Stati Uniti. Ci sono altri fattori da tenere in considerazione.

Prima di tutto, è importante sottolineare ancora una volta (qualora ve ne fosse bisogno) che gli Stati Uniti non possiedono più la forza per affrontare un conflitto militare diretto su larga scala con una potenza rivale.

Tanto l’Iran quanto la Cina hanno mostrato (se necessario) la loro “disponibilità” ad affrontare direttamente gli Stati Uniti. Questa volontà (e disponibilità) al confronto si è trasformata in una sorta di deterrenza strategica. Una guerra all’Iran (o un attacco diretto sul proprio territorio – la “linea rossa” stabilita dal Corpo dei Guardiani della Rivoluzione) non è mai stata effettivamente dichiarata, perché lo stesso Pentagono è conscio del fatto che costerebbe denaro, gravi danni agli interessi nordamericani nella regione, vite umane ed una crisi energetica globale dagli effetti imprevedibili.

Ancora, tanto la Cina quanto l’Iran hanno dimostrato di non desiderare affatto la guerra, ma di essere pronti a combatterla. Ed entrambi sanno perfettamente che nel caso di conflitto diretto con uno degli alleati regionali degli USA (in Medio Oriente o nell’area dell’Indo-Pacifico), l’“Occidente” tutto e la sua opinione pubblica si schiereranno inevitabilmente contro di loro. Per questo motivo un simile conflitto necessita non solo di un valore strategico ma anche di uno “morale”. A tal proposito, come ha sottolineato l’analista Hu Xijin, i vertici dell’Esercito di Liberazione Popolare hanno stabilito che un eventuale conflitto tra la Cina ed un Paese vicino con il quale Pechino ha delle dispute territoriali debba rispettare dei requisiti specifici: a) la Cina non deve in alcun caso sparare il primo colpo; b) la Cina deve mostrare alla comunità internazionale che ogni sforzo è stato compiuto per evitare il conflitto; c) la Cina mai dovrà lasciarsi coinvolgere impulsivamente in un confronto militare diretto.

In aggiunta, un recente rapporto del Pentagono ha mostrato la minaccia rappresentata per gli Stati Uniti dal continuo rafforzamento militare della Cina[9].

Uno degli obiettivi di Pechino è il raddoppio delle proprie capacità nucleari entro il 2030. La Cina, inoltre, dispone di oltre 12.000 missili balistici con una gittata tra 500 e 5000 km: dunque, con la capacità di colpire gli interessi statunitensi nel Pacifico occidentale. Ma ciò che preoccupa realmente il Pentagono sono le capacità convenzionali dell’Esercito di Liberazione Popolare. Questo, infatti, possiede le forze navali e terrestri più numerose al mondo: un esercito dinamico e moderno capace di vincere rapidamente conflitti marittimi limitati e, di conseguenza, di sfidare il predominio talassocratico nordamericano.

Ora, è altrettanto importante comprendere come gli USA stiano rispondendo alla minaccia posta dalla crescita delle potenze eurasiatiche e dal loro coordinamento. In questo senso, oltre alle classiche operazioni di sabotaggio lungo la Nuova Via della Seta, è necessario concentrarsi sulla firma dei recenti “Accordi di Abramo” tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain (ma con la possibilità che vengano allargati ad altre monarchie arabe).

È bene evidenziare in primo luogo che questi non sono solo una mossa elettorale per la campagna presidenziale di Donald J. Trump, né una semplice “giustificazione” per vendere tecnologie militari sofisticate alle monarchie del Golfo a discapito della Cina. Sorvolando sul fatto che tali accordi, siglati da entità finanziarie (prima che politiche) effettivamente mai in guerra con Israele ma spesso e volentieri cooperanti con esso su più livelli, rappresentano la vittoria del profitto su tutto il resto (sull’Uomo con la “U” maiuscola, su tutto ciò che, nonostante gli sforzi dell’“Occidente”, continua a mantenere un valore sacrale, sulla religione e sulle idee), ciò che qui più interessa è il portato geopolitico dell’operazione trumpista.

Essa apre ad Israele i mercati arabi e, attraverso il progetto del Trans-Arabian Corridor (studiato in opposizione diretta ai corridoi economici della Nuova Via della Seta)[10], apre all’entità sionista le porte dell’Oceano Indiano. Così, in un senso più ampio, gli Accordi di Abramo cercano di minare alla base (o di limitare) il processo di integrazione eurasiatico. Come ha lasciato intendere lo stesso Segretario di Stato USA Mike Pompeo, più pragmatico e meno incline alla retorica pseudopacifista della propaganda trumpista, l’asse Israele-monarchie del Golfo è funzionale alla difesa degli interessi statunitensi nella regione e consente una maggiore concentrazione di forze nell’area dell’Indo-Pacifico.

Tali accordi, dunque, sono da comprendere non solo in chiave anti-iraniana o anti-turca, come larga parte delle analisi geopolitiche hanno cercato di dimostrare, ma anche anti-pakistana ed anti-cinese. Il Pakistan, ad esempio, essendo l’unico Stato musulmano a possedere un arsenale nucleare, è naturalmente nel mirino sionista. Oggi più che mai, preso atto del tentativo di limitare l’influenza wahhabita al suo interno[11] da parte degli attuali vertici politici, la sua denuclearizzazione rientra tra gli obiettivi primari del sionismo.

Tuttavia, gli “Accordi di Abramo” hanno posto le basi anche per un’altra minaccia alla strategia regionale sionista e nordamericana: il riavvicinamento e la rivitalizzazione di un legame tra Iran e Turchia che sta superando anche il contrasto tra i due Paesi nel campo di battaglia siriano.

L’8 settembre ha avuto inizio il Sesto Incontro di Alto Livello del Consiglio di Cooperazione tra Teheran ed Ankara. L’obiettivo di questa cooperazione, rimasta bloccata per diversi anni proprio a causa del conflitto siriano, è quello di rafforzare i rapporti tra Turchia ed Iran nell’ambito commerciale e in quello della sicurezza. I due Stati, infatti, hanno recentemente lanciato anche diverse operazioni militari congiunte nel nord dell’Iraq contro i gruppi terroristici curdi.

Tale rafforzamento di rapporti, oltre a mettere una pietra tombale sulle interpretazioni settarie (di origine soprattutto occidentale) dei conflitti mediorientali, è utile anche per ricostruire il dialogo tra le forze di resistenza al regime sionista in Palestina: Hamas (oggi legato a doppio filo con Turchia e Qatar) e Hezbollah (Partito e movimento di resistenza di ispirazione khomeinista). Negli incontri al vertice tenutisi a Beirut, le guide politiche dei due movimenti, superate le divisioni generate dal conflitto siriano, sono giunte alla conclusione che Hamas e Hezbollah si trovano sulla medesima linea nell’opposizione e nella lotta contro Israele[12]. Senza considerare il fatto che portare Hamas al medesimo livello di capacità militare di Hezbollah, oltre a rappresentare una minaccia certa, costituirebbe ancora una volta un elemento di deterrenza contro nuove potenziali operazioni sioniste nella Striscia di Gaza[13].

Lo scorso febbraio, in una lezione svolta all’Islamabad Strategic Studies Institute, l’ambasciatore iraniano in Pakistan Seyyed Mohammad Ali Hosseini ha suggerito l’idea della creazione di un’alleanza tra cinque Paesi (Turchia, Iran, Pakistan, Cina e Russia) per favorire la cooperazione eurasiatica e risolvere pacificamente ogni disputa regionale.

La formazione di una simile alleanza, inoltre, consentirebbe di dare vita ad una forma di cintura di sicurezza in grado di proteggere l’Asia Centrale (il “cuore del mondo”) dalle azioni nordamericane di sabotaggio, destabilizzazione e contenimento allo sviluppo.

I primi segnali in questa direzione arrivano dalle esercitazioni militari “Caucasus 2020” che si svolgeranno nella regione caucasica tra il 21 ed il 26 settembre e che, incentrate su tattiche difensive e di accerchiamento, vedranno impegnati reparti militari di Cina, Russia, Pakistan, Iran, Armenia, Bielorussia e Myanmar.

Chi scrive è assolutamente convinto che la creazione di un asse islamico-confuciano (o islamico-confuciano-ortodosso)[14] possa rappresentare la chiave di volta per accelerare il declino dell’egemonia statunitense e delle strategie intese ad impedire la nascita di un ordine globale multipolare.  La speranza, inoltre, è anche che il risveglio delle antiche e combattive civiltà dell’Eurasia possa essere di aiuto all’Europa per superare quella che sembra una irreversibile condizione di sudditanza culturale e geopolitica.


NOTE

[1]Si veda European Parliament Resolution on the situation in Russia: the poisoning of Alexei Navalny, www.europal.europa.eu.

[2]Fatto che rende bene l’idea di come funzioni la tanto osannata “democrazia americana”. Si veda a questo proposito Jean-Michel Paul, The economics of discontent. From failing elites to the rise of populism, Bruxelles 2018.

[3]Non ultima la “ricerca scientifica”, prodotta dalla Rule of Law Society e dalla Rule of Law Foundation di Steve Bannon e Guo Wengui, che pretende di dimostrare l’origine del virus dal laboratorio di Wuhan.

[4]Full text of Joint Statement on Comprehensive Strategic Partnership between I.R. Iran, P.R. China, www.president.ir.

[5]Ibidem.

[6]Iran-China deal to ditch dollar, bypass US sanctions: Leader’s Advisor, www.presstv.com.

[7]Quest accordo di cooperazione prevede oltre 400 miliardi di investimenti. Oltre 220 verranno spesi nel settore delle infrastrutture per lo sviluppo di collegamenti ferroviari ad alta velocità sia all’interno dell’Iran che per collegare il Paese al resto dell’Eurasia: dalla Cina, all’Asia Centrale, fino alla Turchia ed all’Europa.

[8]China’s key role in facilitating Iran’s military modernization and nuclear program, implications for future relations, www.militarywatchmagazine.com.

[9]H. Xijin, China must be militarily and morally ready for a potential war, www.globaltimes.cn.

[10]In particolar mode del CPEC – China Pakistan Economic Corridor e la possibilità che questo venga esteso collegando direttamente i porti di Gwadar (Pakistan) e quello di Chabahar (Iran). I due porti andrebbero a completarsi a vicenda e la creazione di un collegamento ferroviario tra loro favorirebbe un grosso sviluppo economico regionale.

[11]Recentemente, alcune manifestazioni antisciite (a sottolineare ancora la profonda influenza che il wahhabismo saudita esercita su parte della popolazione pakistana) hanno avuto luogo a Karachi. Appare evidente come queste abbiano anche delle motivazioni geopolitiche di fondo. Scatenare nuovamente la violenza settaria in Pakistan, destabilizzandolo dall’interno, è utile per ritardare la completa messa in opera del suddetto CPEC e per screditare il lento ma continuo avvicinamento del governo di Imran Khan alle potenze eurasiatiche: Russia e Cina in primo luogo.

[12]Hamas-Hezbollah talks and Iran-Turkey cooperation come at crucial time, www.middleeastmonitor.com.

[13]I bombardamenti quotidiani sulla Striscia (che avvengono nel silenzio assordante dei mezzi di informazione occidentali) hanno proprio l’obiettivo di scongiurare tale evenienza.

[14]In questo caso, non si può parlare in termini huntingtoniani di scontro tra civiltà, visto che l’“Occidente” non è una civiltà, ma semplicemente una “costruzione ideologica” utile a garantire il predominio degli Stati Uniti sugli spazi geografici ad essi “geopoliticamente” sottoposti.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).