Lo scorso lunedì 28 novembre l’emiro del Kuwait, Šaiḫ Sabaḥ Al-Ahmad Al-Jabir Al-Sabaḥ ha accettato le dimissioni del Primo Ministro, suo nipote, Šaiḫ Nasser Al-Muḥammad Al-Sabaḥ, nonché dell’interno governo, in carica dal 2006. Ha inoltre proceduto allo scioglimento dell’Assemblea Nazionale (il Parlamento kuwaitiano).

La nomina di Primo ministro ad interim è stata affidata a Šaiḫ Jaber Al-Mubarak Al-Sabaḥ, ministro della difesa dal 2007, il quale è stato incaricato di formare il nuovo Gabinetto e di gestire il governo fino all’assegnazione della carica definitiva di Primo Ministro. Il personaggio più accreditato ad assumere questo ruolo sembra essere Šaiḫ Muḥammad Al-Sabaḥ, ex ministro degli esteri, dimessosi lo scorso ottobre a seguito del nuovo scandalo di corruzione che ha coinvolto il governo.

La decisione dell’emiro è avvenuta a seguito degli ultimi episodi di protesta del 17 novembre, organizzati dai maggiori gruppi di opposizione insieme ai movimenti giovanili. I manifestanti hanno assaltato il palazzo del Parlamento chiedendo le dimissioni del Primo Ministro e di alcuni parlamentari accusati di corruzione e la protesta è stata caratterizzata dall’intervento delle forze di sicurezza che hanno agito per disperdere i manifestanti.

Il malcontento espresso dalla popolazione perdura da oltre tre mesi, allorché erano state mosse accuse di corruzione nei riguardi di sedici parlamentari, i quali avrebbero ricevuto tangenti per un totale di 259 milioni di euro.

Le dimissioni rassegnate dal Primo Ministro e lo scioglimento dell’Assemblea segnano l’epilogo di una lunga e critica fase politica che si protrae sin dal 2006, ma che si è intensificata soprattutto dal 2009, anno delle ultime elezioni.

Per comprendere gli attuali avvenimenti politici in corso in Kuwait, senza lasciarsi trascinare dall’entusiasmo dell’onda lunga della Primavera Araba, è necessario indagare, seppur brevemente, la storia politica e sociale dell’emirato, che cerca di mostrarsi dotato di un genuino ed aperto sistema politico attraverso l’operato di un Parlamento che ha assunto una posizione centrale nella vita kuwaitiana.

IL SISTEMA POLITICO DEL KUWAIT

L’emirato è una monarchia costituzionale che ammette delle istituzioni seppur democraticamente imperfette, o incomplete. In effetti, se secondo Freedom House, il Kuwait è uno “Stato semi-libero”, il Democracy Index 2010 lo individua addirittura come “Stato autoritario”.

Il potere è gestito da oltre 250 anni dalla famiglia regnante degli Al-Sabaḥ, i cui membri siedono a capo dei più importanti ministeri del Gabinetto come interno, economia, giustizia, petrolio e difesa. All’interno della casa regnante, però, non sono mancate lotte intestine per la gestione del potere, nello specifico tra le branche degli Al-Jaber e degli Al-Salim.

La realtà politica del Kuwait, comunque, si presenta molto variegata, caratterizzata dalla presenza di un’attiva società civile, che anche prima dell’indipendenza dalla Gran Bretagna avvenuta nel 1961, ha mostrato una buona capacità nell’organizzarsi in gruppi politici e di partecipare alla vita politica del paese. Questa è stata formalizzata nel 1962, quando venne introdotta l’Assemblea Nazionale (il Parlamento), e nel 1963 con la Carta costituzionale che, assegnandole poteri legislativi, definisce la sua composizione con cinquanta membri eletti da cittadini maschi (il suffragio femminile è stato riconosciuto solo nel 2005) e di venticinque membri, ex officio, del Gabinetto, nominati dell’emiro.

In questo esperimento democratico kuwaitiano, si riscontrano in realtà alcuni punti deboli, a cominciare dalla probabilità, per i membri eletti, di incontrare il veto dei membri di diritto nelle proposte legislative.

Inoltre, lo strumento politico più potente per i parlamentari eletti consiste nella possibilità di richiamare un ministro a presentarsi alle interrogazioni parlamentari, istiǧwāb, o di farlo dimettere qualora fosse raggiunta la maggioranza per il voto di sfiducia, e ciò è possibile giacché i membri non eletti sono esclusi da questo voto.

Un altro esempio di amputazione democratica si riscontra nell’Articolo 43 della Costituzione, nel quale viene affermato il diritto di organizzazione associazionistica e di unioni commerciali, facendo tuttavia permanere grande ambiguità circa la possibilità di costituire formalmente partiti politici. Nella sostanza, comunque, i “partiti” sono stati costituiti sotto la forma di gruppi di interesse professionali, culturali e religiosi, come copertura di una maggior formale organizzazione politica.

La lotta intestina all’interno della casa regnante ha prodotto un’intrinseca debolezza politica, che ha costretto gli Al- Sabaḥ ad avere alternato bisogno di una delle varie forze politiche presenti nella compagine governativa in un determinato periodo storico.

Durante gli anni ’30 i mercanti, omogenea e potente élite sunnita, sono riusciti a imporre il proprio spessore pubblico, raggiungendo l’apice del potere politico e decisionale attraverso due fonti: il controllo della forza lavoro e quello delle rendite derivanti dal commercio. La loro posizione favorevole non è mutata con la scoperta del petrolio, avvenuta nel 1934, e la loro presenza politica è stata istituzionalizzata nel 1938 con il movimento Maǧlis.

Attraverso l’acquisita maturità politica, i mercanti hanno saputo lottare politicamente per rivendicare la partecipazione alla ridistribuzione delle rendite petrolifere che hanno scavalcato, in termini di importanza economica, quelle commerciali.

Lo Šaiḫ Ahmad Al-Jabir, consapevole e timoroso della capacità della comunità mercantile di organizzare e sostenere un’opposizione civile, ha ceduto alle richieste dei mercanti, facendo sperimentare al Kuwait una fase di notevole stabilità politica e sociale.

Durante gli anni ’50, la politica kuwaitiana ha vissuto un ampliamento delle fazioni politiche in campo, costituite dai nazionalisti arabi-progressisti, emersi sull’onda del nazionalismo pan-arabo nasseriano, dai liberali (ovvero coloro che facevano parte della comunità mercantile), dagli islamisti, dagli indipendenti e dai gruppi tribali.

Questi ultimi hanno costituito un fenomeno peculiare, caratterizzante la politica dell’emirato. La partecipazione tribale alle attività politiche, infatti, avviene dal 1975 mediante le “elezioni primarie” che si svolgono localmente, all’interno degli attuali cinque distretti del territorio nazionale. Queste primarie, anticipate dalla diwāniyya (incontro informale), sono necessarie per eleggere i candidati alle elezioni parlamentari, e ad esse partecipano gli otto gruppi tribali che raccolgono le popolazioni nomadi: ʿAwazim, Mutaīri, ʿAǧman, Al-Rašaīda, ʿUtaība, ʿInzi, Zufaīr e Banu Haǧir.

Il tribalismo così organizzato politicamente gioca un ruolo fondamentale, giacché attraverso di esso i beduini possono incrementare il loro senso di appartenenza statale, poiché è stato loro vietato il diritto di cittadinanza per lungo tempo.

Un’ulteriore forza politica è stata rappresentata dagli islamisti, nello specifico dai sunniti, raggruppati attualmente nel Ḥaraka al-Dustūriyya al-Islāmiyya, conosciuta anche con l’acronimo Ḥadas, ovvero il Movimento Costituzionale Islamico.

Questa organizzazione è nata negli anni ’50 con il nome di Ǧāmiʿat al-Iršād, associazione volontaristica di diretta emanazione dei Fratelli Musulmani egiziani. Fin dall’inizio, l’attenzione del gruppo è stata focalizzata sulle questioni civili e sociali, e l’atteggiamento nei confronti del governo è stato di tipo pragmatico, necessario per avere mano libera nel coinvolgere consensi tra la popolazione attraverso le attività caritatevoli.

Come si evince da questo breve inquadramento storico-politico, le relazioni esistenti tra la monarchia degli Al-Sabaḥ e le varie forze politiche si sono basate sulla convivenza e su vantaggi reciproci: la famiglia regnante è riuscita a mantenere un sistema politico stabile, attraverso la strategia di appoggio ai diversi gruppi, necessari in ogni momento politico, e questi hanno ottenuto ciò di cui necessitavano per condurre validamente i propri interessi.

D’altra parte, sembra evidente considerare come l’obiettivo principale degli Al-Sabaḥ, durate gli anni ’60 e ’70, sia stato quello di rafforzare la posizione della famiglia all’interno del governo, e la strategia utilizzata in tal senso è stata quella di appoggiare ora una ora l’altra fazione, incoraggiandole a partecipare nell’Assemblea Nazionale, indebolendo, tuttavia, l’interno Parlamento e la sua attività riformatrice.

Il risultato è stato solo in parte soddisfacente per quanto riguarda la stabilità interna, poiché questo sistema ha provocato un effettivo indebolimento politico, costringendo la famiglia regnante a sottostare ad una costante dipendenza politica interna, proprio quando il Kuwait si era trasformato in uno dei paesi petroliferi chiave della regione del Golfo. La situazione di stallo è mutata con lo scoppio della rivoluzione islamica iraniana del 1979, a seguito della quale la famiglia regnante si è sentita intimorita esternamente dalla Repubblica Islamica e, internamente, dalla componente sciita della popolazione, che costituisce il 20% del totale.

Nel 1981 il Kuwait si è costituito come uno dei paesi fondatori del Consiglio di Cooperazione del Golfo e in occasione della guerra Iran-Iraq ha appoggiato prudentemente il regime di Saddam Hussein, richiedendo contestualmente protezione militare agli Stati Uniti, a causa proprio delle minacce iraniane.

I pericoli di destabilizzazione interna, manifestatisi in sporadici atti di terrorismo e in un fallito attentato all’emiro, hanno indotto, oltre che alla repressione dei gruppisciiti, a una sospensione della Costituzione e allo scioglimento nel 1986 dell’Assemblea Nazionale (sostituita solo a guerra finita, nel 1990, con un Consiglio Nazionale di transizione).

Il 1990 stravolge ulteriormente la politica dell’emirato: l’invasione delle truppe irachene del 2 agosto mostra l’incapacità, derivante dalla volubilità interna, degli Al-Sabaḥ di difendere il proprio paese provocando una profonda crisi politica, perdurata dal 1992 al 1999, anni durante i quali si sono succeduti vari rimpasti di governo atti a eliminare personalità di opposizione secolare e religiosa.

GLI SVILUPPI POLITICI

Le ultime elezioni parlamentari si sono tenute nel maggio 2009, a seguito della decisione dell’emiro Šaiḫ Sabaḥ Al-Ahmad Al-Jabir Al-Sabaḥ, il 19 marzo, di sciogliere l’Assemblea Nazionale, elezioni, queste, che hanno comportato la composizione di un Parlamento maggiormente fedele alle politiche del governo.

Il blocco politico islamista sunnita non ha ottenuto molti voti: al-Ḥarakat al-Dusturiyya al-Islāmiyya, è riuscito a conquistare un solo seggio (mentre precedentemente ne deteneva tre), mentre il gruppo salafita al-Turāṯ, il Salafi Islamic Group, ha conseguito due seggi, rispetto ai cinque precedenti. Questo risultato non indica necessariamente che il sentimento politico-religioso islamico da parte della popolazione sia in declino. Al contrario, molti seggi sono stati conquistati dagli indipendenti islamisti, che hanno ottenuto molti voti anche nei distretti tribali. Si è potuta osservare, piuttosto, un’erosione della capacità di attrarre consensi popolari intorno ad una vera e definita organizzazione politica.

La fazione islamista che ha invece ottenuto i migliori risultati è stata quella degli sciiti, i quali hanno quasi duplicato la loro presenza in Parlamento, raggiungendo i nove, rispetto ai precedenti cinque, seggi. Questo risultato non dovrebbe convincere di un’imminente deriva settaria nella politica dell’emirato. Gli sciiti, in Kuwait, a differenza del vicino Bahrain, hanno piena cittadinanza e concorrono, congiuntamente alle altre fazioni, alla politica di governo.

I liberali (laici, pro-business e mercanti) presenti nel Blocco Nazionale, il National Action Bloc, erede del Maǧlis, hanno conquistato una buona posizione, mentre i minori partiti di opposizione come al-Minbar al-Dimuqrati, il Democratic Forum, e al-Tahalluf al-Watani al-Dimuqrati, il National Democratic Alliance, hanno ottenuto rispettivamente uno e zero seggi, poiché, come per gli islamisti sunniti, molti membri hanno partecipato come indipendenti, fuori dalle liste di “partito”.

Nonostante le precedenti elezioni abbiano smussato le aspettative dei gruppi islamisti sunniti e abbiano portato alla formazione di un’Assemblea Nazionale maggiormente moderata e filo-governativa, la crisi interna ha funestato la politica nazionale e ha immobilizzato lo sviluppo economico. Occasioni di voto di sfiducia verso il Primo Ministro si sono verificate sia nello stesso anno delle elezioni che nel 2010, sintomo di una vacillante affidabilità dell’Assemblea Nazionale nei confronti del Premier.

Nel frattempo il malcontento parlamentare e popolare, generato dalla dilagante corruzione, è diventato protagonista della scena politica. Le varie fazioni di opposizione nell’Assemblea Nazionale hanno cominciato a cavalcare l’onda delle proteste, adottando una strategia politica extra-parlamentare, che ha determinato il ritorno alla mobilitazione popolare.

Le recenti manifestazioni sono state promosse in primo luogo dalle potenti tribù, riunite nel Blocco Popolare, che confidando nell’appoggio popolare dimostrato alle elezioni, hanno richiesto che fosse sciolta l’Assemblea Nazionale e che si procedesse a nuove elezioni.

L’emiro ha colto la necessità di porre fine a questa crisi politica che si protraeva dal 2006, caratterizzata da sei dimissioni del Primo Ministro, da sette rimpasti di governo e da tre rinnovamenti del Parlamento.

La decisione, pervenuta lunedì 28 novembre, di nominare un nuovo Premier e di dissolvere costituzionalmente l’Assemblea Nazionale, è stata accolta da tutte le fazioni di opposizione, poiché si è presentata come l’unica possibilità, nel quadro costituzionale, affinché, da una parte venga messa fine all’annosa crisi, e dall’altra vengano accettate le richieste popolari, di cui sono testimoni le manifestazioni a Midān Irāda.

POLITICA ESTERA

A seguito della guerra del Golfo, il Kuwait è stato cruciale per gli sforzi statunitensi nel ridurre la minaccia posta dall’Iraq e, dopo la liberazione del 1991, ha assunto una funzione centrale per il contenimento di Saddam Hussein fino al 2003, ospitando il fulcro della forza bellica impegnata nell’operazione Iraqi Freedom. La forte cooperazione con gli Stati Uniti è stata sottolineata nell’incontro tenutosi il 23 agosto 2010 tra il Segretario di Stato statunitense Clinton e il ministro degli esteri del Kuwait, Mahmud Al-Sabaḥ, durante il quale sono state trattate diverse questioni regionali, tra le più importanti il dossier iracheno e quello iraniano.

Le relazioni tra l’emirato e l’attuale governo sciita iracheno sono intralciate, in parte, da questioni non pienamente risolte risalenti all’agosto 1990. Per il Kuwait l’interesse principale in politica estera è la stabilizzazione dell’Iraq, e per raggiungere ciò l’emirato ha cercato di costruire legami politici con le fazioni dominanti, affinché non si ripetesse una rivendicazione territoriale, o la violenza sciita verificatasi a metà degli anni ’80. Infatti, i bombardamenti alle ambasciate francese e statunitense del 1983 e l’attentato contro l’emiro del 1985 sono stati attribuiti al partito iracheno, di ispirazione sciita, Daʿwa, alla cui guida sedeva l’attuale Primo Ministro Nuri Al-Maliki. Uno spiraglio di normalizzazione delle relazioni internazionali tra i due vicini ha avuto luogo il 18 luglio 2008, quando l’emiro del Kuwait ha nominato il nuovo ambasciatore in Iraq, il primo dall’invasione del 1990, lo sciita Ali Al-Manem: questa designazione può far rilevare l’accettazione da parte dell’emirato di un Iraq dotato di un governo guidato da sciiti. Un ulteriore miglioramento, seppur simbolico, si è verificato nel gennaio 2010, quando l’ex Primo Ministro Šaiḫ Nasser Al-Muḥammad Al-Sabaḥ ha visitato l’Iraq.

Da un canto, il Kuwait è riluttante nell’abbandonare le proprie pretese di riparazione di guerra, che si costituisce come il 5% delle rendite petrolifere irachene, e la cui supervisione è stata affidata agli Stati Uniti, dall’altro l’Iraq desidera abbandonare la posizione di paese sottoposto a sanzione ONU, sotto mandato del Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, anche se agli attuali tassi di rendita petrolifera, mancano, a titolo di riparazione, 25 miliardi di dollari.

Con la minaccia strategica irachena ridimensionata, il Kuwait sta collaborando con gli Stati Uniti per il contenimento di quella iraniana, seppur adottando una linea poco dura, come è avvenuto in occasione degli sforzi statunitensi di potenziare le sanzioni per costringere l’Iran a limitare il proprio programma nucleare.

Al contempo, infatti, l’emirato ha cercato di mantenere normali rapporti economici e politici con la Repubblica Islamica, atti a limitare un incremento di supporto iraniano ai movimenti sciiti interni. Recentemente le relazioni tra i due paesi sono state tese, a seguito della scoperta di una cellula di intelligence iraniana sul territorio kuwaitiano. L’avvenimento individua il tentativo iraniano di penetrare nella politica del vicino emirato, agevolato, inoltre, da una deriva filo-persiana dell’ex Premier Šaiḫ Nasser Al-Muḥammad Al-Sabaḥ, e potrebbe suggerire la ricerca, da parte iraniana, di un pretesto affinché il Kuwait eserciti pressione sugli Stati Uniti a velocizzare il ritiro all’Iraq.

Oltre alle relazioni politiche estere, il dossier fondamentale per il Kuwait è quello economico. Il paese, sesto produttore al mondo di petrolio, ha fallito nella politica di liberalizzazione e privatizzazione delle attività economiche, perdendo posizioni nei riguardi della competitività sugli investimenti, passando dal 40° al 61° sulla lista stilata dal World Economic Forum.

L’immobilità economica, provocata dalla continuata crisi di governo, è stata aggravata, in termini di spese interne, dalla decisione di stanziare i “sussidi della pace”, atti ad evitare eventuali proteste, alla luce della Primavera araba: questi consistono nell’attribuzione, per ogni cittadino kuwaitiano, di un assegno di 4.000 dollari e di rifornimento quasi gratuito di cibo per quattordici mesi.

Ciò che preoccupa le rendite dell’emirato è il mercato mondiale di petrolio, che ha ricevuto un duro colpo a seguito dell’operazione NATO “Odissea all’alba” in Libia. L’OPEC, infatti, si è trovato a dover aumentare la produzione petrolifera per sopperire alla mancanza di esportazione libica, decisione questa necessaria per permettere un abbassamento del prezzo mondiale del greggio. Il Kuwait già in precedenza aveva elaborato un piano di aumento della propria produzione nazionale, per creare una capacità di riserva: la politica OPEC di un ulteriore ampliamento della produzione potrebbe diventare insostenibile per la fragile economia kuwaitiana.

L’emirato rimane fedele alleato degli Stati Uniti ma profondamente inquieto internamente e la perdurante lotta politica ha rischiato di minacciare la reputazione del Kuwait come modello di protezione della rule of law e dei diritti umani nella regione del Golfo, soprattutto a seguito dell’incremento delle misure repressive contro i dissensi politici, decisa da Šaiḫ Nasser Al-Muḥammad Al-Sabaḥ.

Lo stallo politico ha contribuito a sollecitare la tendenza dei leader kuwaitiani di rimettere nelle mani dell’Arabia Saudita e degli altri paesi del Golfo, le decisioni strategiche di politica regionale. Questo è testimoniato proprio dal basso profilo tenuto verso l’Iran, rispetto al quale il Kuwait non ha cercato di prendere il ruolo di guida regionale circa la sicurezza e l’organizzazione politica del Golfo.

Alla luce della situazione interna, l’emiro ha dovuto necessariamente cedere alle richieste dell’opposizione, per contribuire alla cessazione di una crisi politica che prosegue ormai da cinque anni e che ha portato alla vulnerabilità politica, economica e finanziaria del paese, difficile da recuperare.

Accogliere concretamente le richieste emerse dall’opposizione potrebbe rappresentare un passo significativo verso uno scenario futuro più roseo: il tutto si giocherebbe poi nelle prossime elezioni, ago del sentimento di una popolazione che non resta inerte di fronte alla possibilità che l’emirato realizzi pienamente un sistema politico di monarchia costituzionale a tutti gli effetti.

*Francesca Blasi è laureanda in Relazioni e Istituzioni dell’Asia e dell’Africa presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”.

 


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