Sorprende che il direttore di “Stratfor”, George Friedman, nella sua analisi (1) dell’assassinio dell’ambasciatore statunitense in Libia, Christopher Stevens, non prenda in alcuna considerazione la strategia dell’amministrazione Obama, ma si concentri invece sul fatto, abbastanza scontato, che la caduta di un regime ostile ai “valori” della democrazia liberale occidentale non comporta necessariamente che si producano delle condizioni più favorevoli per gli interessi dell’Occidente, ossia, in primo luogo, per gli interessi degli Stati Uniti. In particolare, a Friedman sembra premere di mettere in evidenza che la situazione che si è venuta a creare in Libia potrebbe ripetersi anche in Sira, qualora dovesse cadere il regime di Assad, dato che per il direttore di “Stratfor” è palese che la retorica dei diritti umani senza “realismo politico” può facilmente generare l’opposto di quel che gli attivisti per i diritti umani si propongono di realizzare.

Nondimeno, questo non significa che Friedman sia così ingenuo da ritenere che la contrapposizione tra essere e dover essere sia la vera questione geopolitica che gli Usa devono attualmente risolvere. Piuttosto, al di là del senso letterale delle sue parole,è lecito supporre che egli si faccia portavoce, in qualche modo, delle preoccupazioni di certi ambienti statunitensi che temono che l’alleanza degli Usa con l’islamismo radicale e il ruolo sempre maggiore delle monarchie del Golfo sulla scena internazionale possano condurre gli Stati Uniti a trovarsi in situazioni ancor più complesse e pericolose di quelle che, con l’amministrazione di Bush junior, hanno di fatto mostrato i limiti della potenza americana, sancendo il definitivo tramonto dell’unipolarismo statunitense.

Ma è proprio tale declino relativo (e l’accento si deve porre tanto sul sostantivo quanto sull’aggettivo) che non lascia molto spazio all’azione strategica della maggiore potenza occidentale (e mondiale), che pur si deve necessariamente confrontare con una realtà multipolare, benché ancora allo “stato nascente”, se non vuole  collassare sotto il peso, per così dire, del proprio gigantesco apparato militare. Un apparato – si badi – senza il quale verrebbe meno quella funzione di gendarme dell’oligarchia occidentale che gli Stati Uniti svolgono da decenni e che garantisce al grande Paese nordamericano di poter continuare a finanziare con capitali stranieri un debito pubblico enorme, con una bilancia commerciale in passivo a partire addirittura dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso.

In quest’ottica, allora, si dovrebbe comprendere che le conseguenze “non volute” di quella che si suole definire come la geopolitica del caos sono, in un certo senso, un rischio che gli Usa non possono permettersi di non correre, potendo anzi esse stesse configurare degli scenari tali da offrire all’America l’opportunità di nuovi “interventi umanitari”, anche laddove altrimenti sarebbe, se non  impossibile, indubbiamente assai più difficile intervenire. Del resto, è noto che l’America si è fatta “sorprendere” così tante volte (da Pearl Harbor all’ 11 settembre 2001) da rendere plausibili perfino le ipotesi complottiste più strane ed assurde, anche per aver quasi sempre saputo sfruttare al meglio siffatte “sorprese strategiche”. Comunque sia – indipendentemente dall’affermazione di Friedman secondo cui «it is simply not clear […] that removing a dictator automatically improves matters. What is clear to me is that if you wage war for moral ends, you are morally bound to manage the consequences» – (2) avendo preferito un “approccio indiretto” allo “scontro frontale” (o, se si preferisce, una guerra di movimento ad una guerra di posizione) che caratterizzava l’amministrazione neocon di Bush junior, è inevitabile che l’America possa, suo malgrado, trovarsi ad interpretare il ruolo dell’apprendista stregone che evoca forze che non è in grado di controllare.

Ecco perché, a nostro avviso, è necessario considerare la strategia globale degli Stati Uniti, in una fase storica in cui non si sono ancora delineati gli equilibri di un ordine mondiale multipolare, per capire che  cosa spinge gli Usa a impegnarsi così a fondo nell’area mediterranea, nonostante la sfida con la Cina sia più decisiva ogni giorno che passa. E quale sia la ragione che spinge gli Stati Uniti a cercare ad ogni costo di ridisegnare l’intera mappa geopolitica dell’area mediterranea lo ha chiarito, con la consueta lucidità intellettuale, Gianfranco La Grassa, a cui non sfugge che la strategia mediterranea degli Stati Uniti è da mettere in relazione con il fatto che per i “centri egemonici” atlantisti il nemico principale è ancora la Russia. Tanto è vero che La Grassa rimprovera, giustamente, alla Maglie (che ha scritto un articolo dal titolo significativo: Ci siamo portati Al Qaeda in casa. Ecco il risultato della folle guerra voluta da Sarkò, Obama e Napolitano) (3) di non aver capito «gran che della differenza tra strategia di impegno diretto (che nel Pacifico ha solo scopi di “contenimento” rispetto alla Cina) e strategia di attacco indiretto tramite appunto il caos e il pantano, in cui si mira come obiettivo primario alla piena subordinazione dell’Europa in funzione anti-russa».(4)

Infatti, se da un lato l’articolo della Maglie ci induce a tener presente quanto siano forti le tensioni all’interno del “gruppo dominante” statunitense a meno di due mesi dalle elezioni presidenziali  americane e soprattutto quanto possa essere forte la pressione delle lobby (filo)sioniste perché Washington appoggi nella maggior misura possibile Israele (in specie nei confronti dell’Iran –  sebbene al riguardo si debba constatare la convergenza “oggettiva” della politica israeliana con quella delle petromonarchie), di modo che gli Usa possano venire coinvolti direttamente nel Medio  e Vicino Oriente per sostenere la politica di potenza dello Stato sionista, dall’altro è di vitale importanza per gli Stati Uniti agire in una prospettiva geostrategica che non può non essere globale. Il che dovrebbe farci riflettere anche sul ruolo determinante (e politico!) dei tecnocrati cosiddetti “europeisti” nell’azzerare la civiltà sociale europea e nel dissolvere le identità nazionali del Vecchio Continente nel mercato globale.

Di fatto, è indubbio che si sia in presenza di un’unica strategia di attacco che si sviluppa su diversi fronti, relativamente indipendenti l’uno dall’altro (è per questo che le vere cause della rivolta contro il regime di Assad sono di natura geopolitica, contando molto più l’azione di potenze straniere che non quella dell’opposizione “interna”). Epperò è il disegno complessivo (certo in continua evoluzione e soggetto anche a notevoli cambiamenti) che conferisce una reale unità d’azione alla politica statunitense, sì che si deve ritenere che lo stesso conflitto tra “dominanti”, benché possa essere assai duro, concerna nella sostanza non tanto il fine quanto i mezzi per conseguire il fine (pur tenendo conto di tutto ciò che questa lotta può implicare sotto il profilo delle differenti sfere di influenza, della distribuzione delle quote di potere e così via).

Pertanto, a nostro giudizio, sono pienamente condivisibili le considerazioni di La Grassa, il quale sostiene esplicitamente che «l’utilizzazione dell’area nord-africana e medio-orientale e di quella europea (entrambe da non considerarsi in una loro, inesistente, indifferenziata unità) […] ha sue finalità specifiche in merito alla lotta per la supremazia in vista di una fase di crescente multipolarismo (se non ancora di accentuato policentrismo conflittuale) [e] tutto ciò è fondamentale per capire quanto accade in Italia» (5). Insomma, come dicono i francesi, tout se tient, anche se solo  i prossimi mesi ci potranno aiutare a distinguere l’essenziale dal contingente, in specie una volta che si conoscerà l’orientamento geopolitico in base a cui la Casa Bianca prenderà le sue decisioni.

Tuttavia, appare evidente che se per l’America può valere il detto che “chi semina tempesta, raccoglie vento”, i maggiori danni verranno subiti non tanto dall’America quanto dall’Europa – e soprattutto da Paesi mediterranei, come la Grecia, la Spagna e l’Italia. Peraltro, contrariamente a quel che le “anime semplici” possono pensare, ne sono una dolorosa conferma proprio le ripetute dichiarazioni di stima nei confronti di Monti da parte di Obama. E siamo sicuri che sia facile intuire i motivi che ci portano a questa conclusione, a patto che si sappia leggere correttamente la storia recente del nostro Paese. Una storia di cui non si conosce tutto, ma abbastanza per valutare e giudicare, ora che, “defenestrato” il clown di Arcore, è il popolo italiano che deve subire le conseguenze drammatiche di una crisi geopolitica ed economica che sta facendo a pezzi l’intera regione del Mediterraneo allo scopo di salvaguardare gli interessi della grande isola d’Oltreoceano e dei suoi principali alleati.

 

 

(1)http://www.stratfor.com/weekly/gadhafi-benghazi?utm_source=freelist-f&utm_medium=email&utm_campaign=20120918&utm_term=gweekly&utm_content=title&elq=1371dd237eaf446b9b6247ca4216a429

(2)Ibidem.

(3)”Libero”, giovedì 13 settembre 2012, p.9.

(4)http://www.conflittiestrategie.it/chi-semina-vento-scritto-da-giellegi-il-16-settembre-12

(5)Ibidem.

 


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.