Sarebbe fin troppo facile rilevare le contraddizioni e le ipocrisie insite nel Premio Nobel per la Pace, recentemente assegnato al Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.

Così, in ordine sparso, ricordiamo come durante il suo mandato il primo inquilino della Casa Bianca abbia deciso per l’aumento delle truppe statunitensi in Afghanistan, per il rafforzamento delle basi militari in Iraq (e quindi per un falso ritiro …), per il golpe in Honduras appoggiato dal Pentagono, per le sanzioni economiche prorogate a Cuba, alla Siria ecc. ecc.

Perfino nella politica interna, se esaminiamo la tanto strombazzata (dai media occidentali) riforma sanitaria, ci accorgiamo come la politica sociale di Obama sia un bluff: un testo in cui non c’e’ la “public option”, non c’e’ l’allargamento dell’assistenza medica e dove si fa veramente troppo poco per garantire che i cittadini americani senza tutela siano effettivamente in grado di potersi permettere l’assicurazione che dovranno pagarsi.

Una corretta analisi geopolitica, però, non deve limitarsi a rilevare queste incongruenze ma deve essere capace di interpretare il linguaggio dei “policy makers” per svelarne le reali intenzioni, aldilà delle formulazioni retoriche da loro utilizzate.

Ciò che emerge nel discorso di Obama è il concetto di “guerra giusta”, cioè quel conflitto che viene combattuto come “extrema ratio”, per autodifesa, quando la forza è proporzionata e i civili vengono risparmiati dalla violenza.

Come tutti sanno, non è il caso, ad esempio, della guerra combattuta dagli Stati Uniti in Afghanistan, ma non è l’ipocrisia che deve preoccupare in questa definizione, bensì la riaffermazione di quel “primato morale” statunitense che, distrutto da Bush, è ora riaffermato prepotentemente da Obama.

Una delle principali ragioni del suo avvento alla Casa Bianca è, infatti, la necessità di convincere l’Europa e il resto del Pianeta del diritto divino degli Stati Uniti di guidare il mondo verso il progresso.

La sottolineatura della lotta del “bene” contro il “male”, tipica della mentalità puritano-protestante delle lobbies di Washington e di New York, significa la possibilità di utilizzare qualsiasi mezzo per sconfiggere “le minacce contro il popolo americano”.

In questa prospettiva, non solo l’uso della forza viene moralmente giustificato ma nulla appare eccessivo, in quanto si tratta di stroncare coloro che attentano “alla sicurezza globale”, cioè dei nemici totalmente disumanizzati, che hanno ormai perso la qualifica di “avversari” per assumere, al contrario, quella di “mostri”.

Richiami, quindi, alla “guerra umanitaria” (sperimentata per la prima volta contro i Serbi, in Bosnia e in Kosovo), richiamo agli Alleati (europei innanzitutto) sul fatto che gli Stati Uniti sono gli “aggrediti”, costretti a reagire per salvare l’umanità.

Nessuna analisi, perciò, delle contraddizioni politiche e sociali del mondo unipolare guidato da Washington, delle centinaia di storiche aggressioni condotte dal Pentagono senza alcuna provocazione, della sperequazione delle risorse dovuta alla globalizzazione dei mercati, delle responsabilità statunitensi nella crisi speculativo-finanziaria che ha finito per affossare l’economia reale di mezzo mondo.

Se almeno Bush figlio lasciava trapelare nelle sue intenzioni le reali ragioni dell’ingerenza statunitense in Eurasia, cioè la tutela sull’Europa che non deve assumere alcun ruolo autonomo rimanendo invece ancorata alla NATO e la dislocazione di basi militari nei punti strategici per il controllo delle materie prime e dei corridoi energetici, il “linguaggio” di Obama si richiama alla più estrema tradizione wilsoniana e clintoniana, assumendo così, a causa del minacciato interventismo globale, un profilo ancora più pericoloso di quello rappresentato dal suo predecessore.

L’assegnazione del Premio Nobel per la Pace rientra, appunto, in una raffinata strategia di marketing politico, ad uso e consumo delle masse occidentalizzate.

* Stefano Vernole è redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”.


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