Le campagne elettorali per le prossime presidenziali sono ai nastri di partenza. I motori si sono già accesi e il dibattito politico sta entrando nel vivo. Obama ha già annunciato ufficialmente la sua ricandidatura per il secondo mandato e le risposte dal fronte repubblicano non sono tardate: a oggi sono nove i contendenti ufficiali al titolo di sfidante del presidente uscente. L’occasione per il Partito Repubblicano è storica, la difficile congiuntura socio economica degli Usa lo ha fatto balzare in cima agli indici di gradimento tra gli elettori insoddisfatti. Ma nonostante ciò il Gop ha scelto per ora di mantenere un basso profilo e di marciare verso le Primarie con prudenza a dimostrazione della delicatezza del momento storico.

 

La data è già fissata: si voterà il 6 novembre 2012. L’attesa è spasmodica, il dibattito politico è in fibrillazione e i due principali Partiti stanno affilando le armi in vista di un appuntamento elettorale denso di carica simbolica. Se infatti l’elezione di Obama era entrata di diritto nella Storia ancora prima di verificarsi, la sua corsa per la conquista del secondo mandato potrebbe ben presto assumere i connotati di una questione di principio. Gli applausi erano scattati unanimi e quasi bipartisan per festeggiare l’elezione del primo presidente afro americano e l’aspettativa intorno alla sua cifra politica aveva un che di mistico e provvidenziale. ‘Change’ era stato il suo slogan, e ‘Yes we can’ le sue parole d’ordine e di tutti i suoi sostenitori. Purtroppo la difficile congiuntura socio – economica che ha investito il mondo negli ultimi tre anni ha impedito la realizzazione efficace delle riforme promesse. Obama lo aveva detto chiaramente quella notte a Chicago, festeggiando la sua elezione: quattro anni non sarebbero bastati per mettere in pratica il cambiamento necessario, due mandati sarebbero stati indispensabili per riuscire ad arginare la crisi prima e realizzare le riforme poi. Gli elettori però non ne sono più convinti. La maggior parte di loro ritiene che le risposte politiche alla crisi economica non siano state convincenti e che l’atteggiamento ‘statalista’ di Obama non sia più la strada giusta da percorrere. È qui che nasce e trova le sue radici il Tea Party, tra il malumore della gente e una diffusa sensazione di inadeguatezza. Il movimento ha saputo insinuarsi nella base elettorale repubblicana e indipendente, ha soffiato sul fuoco della scontentezza, ha individuato in Obama il responsabile del disastro economico del Paese e si è schierato contro l’establishment di Washington, pur simpatizzando per la destra conservatrice. Il merito del Gop è stato quello di aver saputo strizzare un occhio al movimento mantenendo il piede ben saldo all’interno dei principali circuiti politici per intercettare le simpatie degli elettori indipendenti e dei democratici insoddisfatti. Questa è un po’ la storia di Sarah Palin, ma anche di altri big del Partito che hanno capito l’importanza di controllare gli umori della base attraverso un meccanismo di soft power moderno in tutto e per tutto. Non va trascurato, infatti, che, pur con un punto di vista nettamente conservatore, il Tea Party fece fin da subito dell’anti politica la sua parola d’ordine contestando il lobbismo dei partiti e la corruzione dei politici. Con il senno di poi verrebbe da chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere se il Gop non avesse avuto la lungimiranza di porre il movimento sotto il suo controllo. A guardare bene è stato il primo movimento solido di dichiarata insofferenza nei confronti della classe dirigente al quale ne sono seguiti molti altri in diverse zone nel mondo proprio negli scorsi mesi. Si pensi agli Indignados spagnoli, piuttosto che ai movimenti della cosiddetta Primavera Araba. Se da una parte il confronto non regge perché ovviamente la situazione socio – politico – economica degli Stati Uniti rappresenta quanto di più lontano ci si possa immaginare da quella di paesi come l’Egitto o la Tunisia, dall’altra la richiesta di una maggiore trasparenza della Politica e di una presa di coscienza dei problemi del Paese reale da parte delle amministrazioni avvicina ideologicamente la rabbia dei fondatori del Tea Party a quella degli Indignados. La maggiore partecipazione politica dell’opinione pubblica statunitense e la maggiore rigidità del Sistema hanno probabilmente impedito la deriva anarchica del movimento. Infatti, oltre alla già menzionata lungimiranza e maliziosità di alcuni big del Gop che hanno voluto e saputo corteggiare il Tea Party, la società statunitense è sicuramente molto legata al concetto di partecipazione politica nella sua versione più tradizionalista. La cultura democratica del Paese, le origini della sua Costituzione e il forte sentimento nazionalista che pervade la società e il riconoscersi parte di un progetto di Civiltà più che di una Nazione ha probabilmente incoraggiato l’imparentamento del movimento con il Partito Repubblicano.

 

Il termometro politico

 

La campagna elettorale inizierà ufficialmente soltanto il prossimo gennaio con l’avvio delle Primarie. Nel 2008 già a Febbraio i numeri avevano consegnato la vittoria a John McCain ma per l’annuncio ufficiale si aspettò la Convention del Partito nell’agosto successivo. Se da una parte ci si potrebbe aspettare anche questa volta il rigido rispetto dello scadenziario elettorale, ci sono elementi che invece potrebbero far infuocare il dibattito e la corsa per la nomination molto prima della Convention, prevista a Tampa Bay (Florida) per la settimana del 27 Agosto 2012, un po’ come accadde tre anni fa nel confronto Obama – Clinton. La sensazione di poter effettivamente strappare la Casa Bianca a Obama è diffusa e conta su elementi molto concreti. I sondaggi, per esempio, danno già per archiviato l’effetto positivo dell’uccisione di Osama Bin Laden, infondendo un rinnovato ottimismo tra le file del Gop.

 

I maggiori organi di informazione statunitensi stanno da tempo sondando il terreno intorno al presidente e tra gli elettori. Alcuni giornali somministrano già settimanalmente interviste e sondaggi per testare l’umore della base e cercare di indovinare che cosa accadrà l’anno prossimo. L’attenzione in questi giorni è ovviamente tutta rivolta al Partito Repubblicano perché saranno proprio le scelte del Gop a segnare il destino politico di questa amministrazione e della prossima. Il dato che sembra rincorrersi negli ultimi mesi è quello che attesta il 39% delle preferenze degli elettori per Barack Obama e il 44% per un virtuale candidato repubblicano. Questo dato dimostra che la sfiducia nei confronti del Presidente è talmente alta che una larghissima fetta di possibili elettori preferirebbe accordare la propria preferenza a un candidato di destra, indipendentemente dalla sua personalità politica, dal suo programma o dai suoi intenti, piuttosto che confermare l’attuale amministrazione. La disoccupazione e l’avanzata del deficit pubblico sono i nodi del malcontento dell’opinione pubblica. Nonostante i timidi segnali positivi che gli indici di settore hanno iniziato a diffondere da qualche mese, gli americani non ritengono che le politiche adottate da Obama siano state sufficienti per risollevare le sorti dell’economia del Paese. Ed è proprio su queste tematiche chiave che si stanno focalizzando le campagne elettorali dei contendenti al titolo di candidato ufficiale del Partito alle prossime elezioni.

 

Le mosse dei repubblicani

 

La prudenza con cui il Gop si sta muovendo è frutto della consapevolezza di cavalcare un’ondata di preferenze dovute più all’insoddisfazione nei confronti dell’attuale amministrazione che a particolari meriti o simpatie nei confronti dei dirigenti del Partito. Questo atteggiamento di cautela è stato il filo conduttore del primo dibattito pubblico organizzato dalla Cnn in New Hampshire tra i candidati ufficiali alla nomination repubblicana lo scorso 13 Giugno. Presente all’evento soltanto chi aveva già formalizzato la propria candidatura o chi aveva anticipato che l’avrebbe fatto in quella sede. I nomi: Mitt Romney, Michele Bachmann, Rick Santorum, Tim Pawlenty, Newt Gingrich, Ron Paul e Herman Cain (negli ultimi giorni si sono aggiunti Gary Johnson e Jon Huntsman). Il dibattito, moderato da John King, si è svolto all’insegna di un insolito fair play e con toni piuttosto pacati. La distanza dall’amministrazione Obama è stata rimarcata unanimemente, mentre i temi più toccati hanno spaziato dalla contestazione della Riforma Sanitaria alla necessità di mettere in campo politiche concrete a favore dell’occupazione. Se da un lato la pacatezza del dibattito ha stupito i commentatori, dall’altro si è reso immediatamente chiaro che l’intento di questo primo appuntamento di campagna elettorale fosse essenzialmente quello di diffondere a livello nazionale la visibilità dei candidati evitando di correre il rischio di cadere subito nel circo mediatico del litigio in diretta. L’appuntamento televisivo non ha sortito grandi effetti tra l’opinione pubblica che, secondo i sondaggi, è rimasta piuttosto indifferente al dibattito e non ha ancora assunto una posizione definitiva e stabile nei confronti della gara per la nomination. Le interviste realizzate nei giorni immediatamente seguenti al confronto tv hanno confermato Mitt Romney in testa agli indici di gradimento, con un indice di popolarità molto alto, prossimo al 100% e uno di fiducia attestato intorno al 16%. La vera rivelazione è stata invece la candidatura di Michele Bachmann, senatrice repubblicana del Minnesota, molto vicina al Tea Party. Secondo Gallup la sua popolarità ha raggiunto valori intorno al 70%, in netto miglioramento rispetto alle rilevazioni dello scorso Febbraio che la attestavano al 50%. Durante il dibattito in New Hampshire la Bachmann ha sapientemente cavalcato le parole d’ordine del Tea Party risvegliando le coscienze degli elettori apolitici e affascinando quelle dei repubblicani più conservatori ammiccando ai temi cari alla destra statunitense. Dalla dura rappresaglia contro ‘Obamacare’, la contestatissima riforma del settore sanitario voluta dal Presidente, all’altrettanto contestata partecipazione alla campagna di Libia. La fiducia degli intervistati nei confronti di Bachmann possibile sfidante di Obama nel 2012 ha superato quella accordata a Romney, aggirandosi intorno al 24%.

 

Nonostante il vantaggio virtuale del Partito Repubblicano il Washington Post non dà per scontata una sua vittoria alle prossime presidenziali. Secondo l’autorevole quotidiano, infatti, sarebbe ancora consistente la fetta di elettori che esprimono una sostanziale fiducia nella leadership di Obama nonostante la difficile congiuntura economica. Inoltre, sottolinea il Post, durante lo stesso tipo di rilevazioni realizzate quattro anni fa, cioè alla vigilia della corsa presidenziale del 2008, gli elettori repubblicani si dichiaravano in generale più soddisfatti nei confronti dei candidati lanciati dal Partito rispetto a quanto non lo siano oggi. Segno dell’incertezza con cui la dirigenza del Gop si accinge ad affrontare la sfida elettorale del prossimo anno. In quest’ottica è interessante sottolineare un recente studio di Gallup secondo il quale l’elettorato repubblicano si presenta oggi sostanzialmente spaccato in due. Da una parte un blocco costituito da circa il 50% degli intervistati (soprattutto maschi) secondo cui sarebbe necessario che la nomination venisse assegnata al candidato con le chancés migliori di vittoria in caso di confronto diretto con Obama, indipendentemente dal programma elettorale o dalla sua personalità politica. C’è poi un secondo blocco di sostenitori che preferirebbe assegnare la candidatura meritocraticamente allo sfidante con il profilo politico più convincente. Nel 2007, invece, di fronte alla medesima questione soltanto 4 elettori repubblicani su 10 avevano ritenuto l’eleggibilità più importante della sostanza.

 

Le donne del GOP

 

È evidente che chi riuscirà a farsi strada attraverso questo clima di incertezza e confusione potrebbe risultare il candidato più convincente. Lo ha capito Michele Bachmann che non ha perso tempo e, ai segnali di incoraggiamento personale che hanno fatto seguito al dibattito in New Hampshire, ha subito fatto seguire una seconda mossa. A distanza di una settimana dall’evento televisivo è partita per Waterloo, Iowa, sua cittadina natale dove di fronte a una platea di amici, parenti e sostenitori ha pronunciato il suo discorso ufficiale di discesa in campo. Scegliendo l’Iowa come primo appuntamento elettorale, lo staff della Bachmann ha voluto inviare un duplice messaggio. Infatti, se questo è lo Stato dove la senatrice è cresciuta, è anche quello che rappresenta idealmente l’istituto delle Primarie essendo per tradizione uno dei primi a ospitarle durante l’anno elettorale. Con le parole che ha pronunciato davanti alla casa dove è nata ha voluto ribadire la propria origine ‘popolare’ annunciando di candidarsi per la gente e non per l’establishment, sottolineando così la sua stretta vicinanza al Tea Party e strizzando l’occhio agli elettori indipendenti. Soffiare sul vento dell’antipolitica potrebbe risultare la chiave vincente anche per mettere ko il suo principale avversario, Mitt Romney che invece rappresenta un candidato più solido proprio per la sua esperienza di governatore e di vecchia guardia del Partito. Nessun sondaggio nasconde, infatti, il continuo aumento di simpatizzanti del Tea Party e di conseguenza di coloro i quali si dichiarano stanchi di delegare a Washington le proprie richieste.

 

Ma c’è un però. E questo però si chiama Sarah Palin. L’ex governatrice dell’Alaska, che nel 2008 era in corsa per la vicepresidenza degli Usa insieme a McCain, potrebbe rimescolare le carte in tavola se decidesse di annunciare ufficialmente la sua candidatura alla nomination. La Palin è considerata il simbolo del Tea Party, essendo stata uno dei primi big del Gop a schierarsi pubblicamente con il movimento suscitando anche qualche malumore nella pancia del Partito. Il suo indice di popolarità è alle stelle, riconosciuta dal 98% degli americani, e con le sue accuse al vetriolo contro l’establishment di Washington è riuscita a guadagnarsi un’importante fetta di consensi. L’ex governatrice non ha mai nascosto le sue ambizioni presidenziali e per questo i commentatori si aspettavano la sua partecipazione al dibattito in New Hampshire. E mentre l’annuncio ufficiale della sua candidatura è dato ancora per verosimile dai bookmakers, la sua esitazione continua a far discutere. Molti si dicono certi che la sua discesa in campo oscurerebbe quella della Bachmann, spaccando gli elettori del Tea Party che a quel punto si ritroverebbe a dover gestire due candidate alle Primarie. Trattandosi di un movimento ancora molto giovane, cresciuto sull’onda di un entusiasmo popolare più che all’interno di una struttura politica consolidata, il Tea Party potrebbe non essere in grado di sopportare una dialettica interna troppo accesa. Le due donne sono sempre state vicine, tanto che la Palin ha più volte appoggiato Michele Bachmann nelle sue battaglie politiche. Se fossero costrette ad affrontarsi come rivali rischierebbero di far scivolare lo scontro all’interno di quei canoni della retorica elettorale tanto invisi ai simpatizzanti del Movimento. Può darsi però che la prudenza della Palin sia dovuta anche ai non incoraggianti dati che i sondaggi hanno diffuso sul suo conto. Infatti, a fronte di un indice di popolarità altissimo, gli americani non sembrano riconoscere alla ex governatrice le capacità necessarie per adempiere all’incarico di Presidente degli Stati Uniti. E inoltre, la maggioranza degli elettori repubblicani intervistati ha dichiarato di non vedere di buon occhio Sarah Palin come sfidante di Obama nell’imminente corsa alla Casa Bianca.

 

Il vero problema che il Partito Repubblicano deve affrontare sta nel fatto che le preferenze che i sondaggi gli accordano si fondano quasi esclusivamente sull’insoddisfazione nei confronti dell’amministrazione Obama più che su un programma politico vero e proprio. Solo se il candidato finale del Gop sarà in grado di gestire politicamente e incanalare verso un programma credibile la delusione dell’elettorato, il Partito potrà iniziare a sperare seriamente di riconquistare la Presidenza del Paese.

 

 

* Matteo Finotto è laureato in Antropologia Culturale e laureando in Geografia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “Sapienza” di Roma

 

 


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