Quella che segue è la versione italiana integrale (ricavata dall’originale in arabo) del nuovo Manifesto politico del partito libanese Hezbollah, preceduta da una prefazione del curatore Pietro Longo.

© “Eurasia, rivista di studi geopolitici” 2010

Nascita e Ascesa del “Partito di Dio”

Hezbollah, letteralmente il “Partito di Dio”, si può considerare un’espressione di quel più grande filone del movimento islamico nazionalista, sorto intorno agli anni ’80 come conseguenza del fallimento del progetto pan-arabista. Con l’uscita di scena del Presidente egiziano Gamal ‘Abd al-Nasir (morto nel 1970), sulle rovine del nazionalismo (Ḥarakat al-Qawmiyya) si affermarono in tutto il mondo arabo (ma non solo) numerosi movimenti di ispirazione religiosa, che reinterpretarono in chiave islamica il linguaggio politico, ispirandosi almeno inizialmente alla Fratellanza Musulmana degli anni ‘30. Questi movimenti, se da un lato si differenziarono dai partiti nazionalisti laici (come il partito Ba’th siriano o iracheno), dall’altro si distinsero nettamente anche dal ğihādismo transnazionale (nato a seguito del ritiro sovietico dall’Afghanistan in virtù della resistenza dei Muğāhidīn, humus questo che contribuì alla nascita di al-Qāida a partire dagli anni ’90). Uno dei tratti di maggiore divergenza si ritrova nell’interesse unicamente locale e al massimo relativo al quadrante regionale dei movimenti come Hezbollah o Hamas e per converso l’ambizione globale di organizzazioni come la “Base”. Inoltre se questa possiede la fisionomia di una avanguardia post-moderna, piuttosto il versante islamico è composto da raggruppamenti che si sono radicati nel tessuto sociale dei rispettivi paesi, trasformandosi in veri e propri partiti politici e spesso anche di più.

Il Partito di Dio nasce ufficialmente nel 1982, subito dopo l’invasione del Libano compiuta da Israele e la guerra civile. Alleato di Damasco e Tehran, talvolta anche del Cairo e Riyad, ha avuto lo scopo preciso di contrastare l’egemonia di Tel Aviv, a vantaggio della popolazione del paese dei Cedri, senza alcuna distinzione di religione, confessione e razza. Si sostiene di solito però che la nascita di Hezbollah è strettamente legata alla questione israelo-palestinese. Il pretesto era arrivato infatti già nel 1967 durante la Guerra dei Sei Giorni, allorquando Israele violò lo spazio aereo libanese per bombardare la Siria e occupò le fattorie di Sheba’a, più alcuni settori ad ovest e sud del Monte Hermon. Dopo questi eventi, il Libano meridionale diventò la zona di scontro prediletta tra l’esercito israeliano e la resistenza palestinese, basata ufficialmente in Giordania, almeno fino al “Settembre Nero” nel 1970, quando i Fidā’iyyīn costretti dalla repressione di ‘Amman, vi si insediarono in pianta stabile.

La guerra civile, che iniziò in Libano già nel 1975, grazie anche al sostegno della estrema destra maronita, spinse la comunità shi’ita a ricercare una forma di organizzazione e di autodifesa che la mettesse a riparo dai soprusi delle altre confessioni. Le cause di questa guerra pur essendo molte e diverse, possono avere come unica matrice proprio le ingerenze israeliane e le conseguenze derivanti. In quegli anni la visione strategica dello Stato Ebraico, annunciata poi palesemente soltanto nel 1981 da un consulente strategico vicino ad Ariel Sharon, consisteva nel tentativo di fomentare le divisioni inter-confessionali, esistenti nella regione, sperando in un possibile “divide et impera”, ferma restando l’alleanza con le minoranze cristiane. Questo, si riteneva, avrebbe facilitato l’occupazione e forse anche l’annessione da parte di Tel Aviv del sud del Libano, motivo per cui il Ministro della Difesa Shimon Peres autorizzò l’invio di un corpo di spedizione, chiamato l’Esercito del Libano Libero che si andò a sommare al già esistente South Lebanon Army. Infine, porre a capo un governo basato sui cristiani, avrebbe finito per asservire completamente il paese al volere israeliano. Vale la pena di ricordare che il Libano è etnicamente e religiosamente molto eterogeneo: la Costituzione oggi vigente riconosce ufficialmente 18 confessioni, fra le quali quelle dei Musulmani e dei Cristiani sono le maggiori. Esistono poi differenze intra-confessionali, tra ad esempio Cristiani Ortodossi e Cattolici ovvero tra Musulmani shi’iti e sunniti (entro gli stessi shi’iti esistono poi gruppi di Ismailiti, Druzi e ‘Alawiti). Stando ai numeri, gli sh’iti costituirebbero il 32% della popolazione, il 5,7% è rappresentato dai Druzi e l’1,4% invece è costituito dagli ‘Alawiti. I sunniti sono circa il 20%. I Cristiani sono divisi: il 23% della popolazione totale è composta di Maroniti, l’11% di Melchiti mentre percentuali minori rappresentano i Cattolici Romani, quelli Siriaci e quelli Armeni (rispettivamente lo 0,5, 0,7 e 0,5%). Una certa consistenza possiede anche la comunità degli Armeni Ortodossi che raggiunge il 3,2% della popolazione, mentre la Chiesa Siriaca Ortodossa e quella Greca non raggiunge che lo 0,1%. Dunque la formazione di un governo Christians-led ovviamente avrebbe portato ad una situazione arbitraria di una minoranza che decide per la collettività, ipotesi perseguibile solo con la volontà e i mezzi di un potente alleato.

Ufficialmente Tel Aviv non stava agendo per l’occupazione e la ricerca di una profondità strategica nel Libano meridionale, ma dato che la guerriglia palestinese dell’OLP in quella fase agiva ancora da quel quadrante, l’offensiva israeliana doveva servire per creare e mantenere sotto controllo una zona cuscinetto a cavallo tra i due paesi. Nel 1978 venne quindi lanciata l’Operazione Litani, mirante ad occupare una fascia di terreno di circa 700 km2, aree che l’Esercito del Libano Libero avrà il compito di amministrare fino al maggio del 2000. Nel 1982 poi il governo Begin diede il via alla cosiddetta Operazione Pace in Galilea. Le ragioni di questo secondo, poderoso, attacco furono molte: il cambiamento geo-strategico statunitense adesso con a capo il repubblicano Ronald Reagan e i primi “falchi” portatori della visione conservatrice in politica estera quanto in quella interna (cui fu dato poi il nome di Reaganismo), la ormai prossima fine del bipolarismo e dunque la conseguente azione di Bandwagoning adottata da Israele, che nelle più realistiche teorie delle Relazioni Internazionali indica la prassi di “salire sul carro dei vincitori”. Tel Aviv in buona sostanza inserì l’OLP nella lista nera e colpì la Galilea, con la scusa di doversi proteggere dalla guerriglia dopo aver spianato il terreno ed aver stretto alleanza con le Falangi Cristiane. Questa operazione, che arrivò fino alle porte di Beirut, si concluse con 19.085 morti tra la popolazione civile libanese e 31.915 feriti.

Da un punto di vista politico, la conseguenza fu la fuga dell’OLP dal Libano e l’ascesa proprio del partito cristiano di estrema destra di Bashir Gemayel e di questi alla Presidenza. Quando nello stesso anno, un attentato eliminò il capo dei falangisti, Ariel Sharon acconsentì all’ingresso dei carri armati a Beirut. Ovviamente l’omicidio creò anche una forte rappresaglia da parte cristiana, con gli eccidi dei campi di Sabra e Shatila e l’ascesa di Amin Gemayel, fratello del Presidente ucciso. Il 17 maggio del 1983 si realizzò infine la firma di un accordo tra Libano e Israele. Non si trattò di un vero trattato di pace ma di una serie di norme tali da garantire alle due parti il rispetto reciproco, entro confini sicuri, con la condizione che Israele avrebbe avuto il diritto di intervenire in Galilea quando lo avesse ritenuto opportuno. La capitalizzazione politica del’Operazione Pace in Galilea gettava le basi per una totale vassalizzazione del Libano, suscitando un’aperta ostilità da parte della Siria e della fazioni politiche libanesi non allineate con i cristiani (fra le quali i socialisti druzi di Walid Jumblat).

In questo quadro si pose l’azione e la propaganda dell’Imām shi’ita Musa al-Sadr, di origine libanese ma nato a Qom, Iran. Costui seppe trasformare quello che fino a quel momento era stato soprattutto un movimento islamico attivo sul piano intellettuale, in una rete di militanza e di attivismo politico. In ciò ha giocato un ruolo importante lo sviluppo della Rivoluzione Islamica in Iran, esplosa ad opera dell’Ayatollah Khomeini nel 1979. Sulle orme del “Segno di Dio sulla terra” di Tehran che aveva contrapposto allo shi’ismo nero (quello cioè delle gerarchie religiose conservatrici ed asservite al potere degli Shah Pahlavi) uno shi’ismo rosso rivoluzionario, al-Sadr riuscì a fare leva sulle schiere di oppressi (mustaḍ’afīn) per contrastare l’egemonia israeliana. Questo slogan aveva già fatto presa durante tutti gli anni ’70, quando la resistenza palestinese e quella libanese sembravano essere una cosa sola (gli uni erano diseredati dalla propria terra, gli altri diseredati nella propria terra). Tuttavia il movimento islamista shi’ita non fu all’inizio univoco ma risultava condotto da gruppi diversi e frammentati, fra i quali il maggiore era il partito Amal. Dalla fusione di diverse correnti, nacque Hezbollah entro il quale confluirono successivamente tutti i diversi leader della resistenza, come l’attuale segretario Hasan Nasr Allah o lo Šayḫ Na’im Qassem, tutt’oggi deputato al Parlamento Nazionale.

Il Secondo Manifesto di Hezbollah

Di seguito riportiamo in versione italiana il secondo Manifesto del Partito di Dio, reso noto dall’emittente ufficiale del movimento, al-Manār, il 29 novembre scorso (il testo in originale è disponibile al seguente link: http://almanar.com.lb/NewsSite/NewsDetails.aspx?id=113293&language=ar).

Hezbollah non è soltanto un movimento organizzato di lotta. Se, come sopra riportato, all’inizio della sua storia si è qualificato unicamente per l’azione di resistenza “islamica” (al-muqāwwama al-islāmiyya), con il passare del tempo e in forza dei risultati ottenuti, specie dopo la guerra del luglio 2006 detta dei 33 giorni, è riuscito ad ottenere consensi anche per vie politiche, cessando quindi una posizione esclusivamente anti-sistemica. Al contrario si è configurato sempre più come bacino di raccolta delle esigenze della comunità shi’ita, diventando quasi un partito di massa. Oggi Hezbollah è fortemente preso in considerazione nello scenario politico libanese, nonostante le sue posizioni siano invise a molti. Successivamente all’invasione statunitense in Iraq del 2003 ed al rovesciamento del regime di Saddam Hussein, si è dipanato un processo da molti definito come la “Rivincita Shi’ita” (ad esempio si veda: V. Nasr, Milano, 2007). Hezbollah è uno dei protagonisti indiscussi nella ridefinizione degli equilibri mediorientali. Basti pensare che il 10 novembre scorso, in Libano è stato formato un governo di unità nazionale, presieduto da Sa’ad Hariri, in cui sono confluiti anche due Ministri del Partito di Dio. Il movimento ha anche ottenuto l’approvazione di uno “statement” che lo abilita ad impiegare il suo arsenale (che quindi non va distrutto) per difendere il paese e “liberare il territorio nazionale”. In questo modo il leader Hasan Nasr Allah si è potuto scrollare di dosso le accuse di quanti hanno visto un segnale di debolezza nell’aver accettato l’ingresso in un governo “collaborazionista”. Piuttosto si tratta di una dimostrazione di forte duttilità e realismo politico, dettata da contingenze legali come la consuetudine della forma di governo “confessionale”. Non è affatto un caso quindi che pochi giorni dopo sia arrivata la pubblicazione di questo documento.

Il Partito di Hezbollah dunque, nato in circostanze di lotta contro l’invasione israeliana si è evoluto in un modello di organizzazione socio-politica basata su istanze islamiche. In questo processo, la teologia come il diritto shi’ita duodecimano hanno avuto un ruolo chiave. I continui appelli al martirio (istišhād), il ğihād “difensivo” e le forme di assistenza prestata alle famiglie dei martiri, sono elementi tipici dell’escatologia shi’ita, qui riproposta con significato politico. Il principio di legalità anima il movimento. Nel diritto islamico classico vige il più stringente obbligo giuridico di ribellarsi all’autorità costituita, qual’ora essa sia inadatta a governare o risulti arbitraria. Lo sforzo, finanche il sacrificio, del fedele sulla via di Dio non è solo meritorio ma è presentato in tutta la sua valenza normativa. Il vero significato di quella che mediaticamente è spesso presentata come “guerra santa” è piuttosto un adoperarsi in favore dell’Islam, in opposizione ai suoi nemici. Nella realtà politica essi sono soprattutto gli Stati Uniti con le loro valenze egemoniche globali ed Israele che i militanti di Hezbollah (ed in generale tutti gli Islamisti) si rifiutano di chiamare “Stato”. Esso è piuttosto una “entità” (kiyān) qualificata come “sionista”.

La considerazione di partenza è che il Medio Oriente è islamico. Culla dell’Islam, da sempre è stato la patria di popoli che trascendendo le differenze di razza, si sono riconosciuti nelle medesima fede. In virtù di ciò, si legge nel primo Manifesto redatto dal padre putativo del movimento, l’Imām Faḍl Allāh, e pubblicato nel 1985 che uno degli scopi del movimento è la costituzione di uno Stato Islamico in Libano, come patria per tutti i musulmani. Ovviamente l’esempio di riferimento è ancora una volta lo Stato Islamico realizzato in Iran, la cui guida suprema, Khomeini, è un modello da imitare per tutti gli shi’iti sparsi per il mondo. Ma l’Islam si basa (semplificando all’estremo) su un unico principio: il monoteismo. Di conseguenza le tre grandi religioni monoteistiche sono imparentate ed i cristiani al pari degli ebrei sono considerati “genti del Libro” (ahl al-Kitāb) ossia dotati di una rivelazione divina, seppur imperfetta perché datata. Israele dunque non viene colpito perché Stato degli Ebrei quanto piuttosto, nell’ideologia del partito, in forza della sua origine laica ed etero-imposta, oltre che avulsa dall’identità della regione. Sempre nel testo del 1985 si legge che Hezbollah si prefigge di colpire il male alle sue radici e che esso è incarnato dagli Stati Uniti. Il regime dei maroniti (quello cioè formato da Bashir Gemayel con la connivenza di Tel Aviv) sarà sradicato esattamente come in Persia il regime degli Shah Pahlavi è stato rovesciato dalla rivoluzione islamica.

Il nuovo Manifesto pur conservando molti dei tratti espressi nel testo precedente, ha un tono più realistico. Il messianismo religioso lascia il posto alla teoria politica e geo-politica. V’è in seno al partito l’idea di aver realizzato un’impresa eccezionale nell’estate del 2006 e dunque “la via della resistenza e dell’opposizione è in fase ascendente”. Ma il merito non è solo della lotta. Quasi echeggiando certe teorie marxiste, il sistema-mondo statunitense sembra destinato al collasso, se non altro per motivi economici. Il mercato condiziona tutti gli aspetti della vita e dunque della politica. L’egemonia a sua volta è lo strumento tramite il quale si mantiene uno status-quo asservito agli interessi particolaristici. Episodi come il fallimento delle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq sono al contempo la dimostrazione della cospirazione mondiale in atto e la riprova del suo necessario fallimento.

I vertici di Hezbollah si rivolgono alle masse con un semplice messaggio islamico fatto di speranza futura ma anche ai leader mondiali, ai dirigenti delle istituzioni internazionali come pure ai paesi membri dell’Unione Europea. L’”infelicità araba”, per citare un famoso giornalista libanese, non deriva soltanto dalle mire espansionistiche dell’asse USA-Israele, ma si giova della connivenza, tacita a volte, dell’Unione Europea. Il delfinaggio di Bruxelles nei confronti di Washington “sta portando ad annullare la tendenza moderata in Europa a favore dell’interesse dell’egemonia atlantica con il suo sfondo coloniale”. Inoltre la condotta dei paesi in questione è tanto riprovevole quanto incomprensibile. Gli europei hanno sperimentato sulla loro pelle l’aggressione e la servitù. Si sono serviti dei movimenti partigiani per liberare le loro terre dagli oppressori. In forza di questa passata esperienza, dovrebbe risuonare come un imperativo morale, prima ancora che politico, riconoscere la liceità del principio di auto-determinazione ed il diritto alla “resistenza”, distinguendo tale fenomeno da quello, ben diverso, del terrorismo transnazionale. La resistenza islamica infatti è portata per sua stessa natura ad adoperare mezzi che inevitabilmente ricadono sotto questa etichetta. Ma è altrettanto palese la differenza che intercorre tra organizzazioni come al-Qā’ida e i movimenti di lotta come Hamas o lo stesso Hezbollah.

Queste formazioni ritengono di avere scopi ben precisi, ideali e strategie di lotta. Dichiarano di prefiggersi obiettivi concreti ma soprattutto di derivare parte della loro intransigenza dall’evidente fallimento della via negoziale. Venute meno le promesse di Camp David e fallite le “road map”, ciò che rimane è un’altra strada: la resistenza. Essa è l’estrema strategia, approvata da Dio. Essa fornisce la certezza di una vittoria o di una nobile riunione con il Creatore.

Pietro Longo


Testo del Manifesto

N.B. Le citazioni dal Corano sono tratte da: A. Bausani, a cura di, Il Corano, Milano, 2003.

In nome di Dio, Clemente e Misericordioso, sia Lode a Dio, il Signore dei due Mondi. Sia pace sul Sigillo dei Profeti, nostro Signore Muḥammad, sulla sua nobile Famiglia, sui suoi Compagni e su tutti i Profeti e i Messaggeri di Dio.

Iddio ha detto quanto segue nel Suo Libro Sacro:

Ma quelli che lotteranno zelanti per Noi, li guideremo per le Nostre Vie, e certo Dio è con coloro che operano il bene” (Cor. XXIX:69);

O voi che credete! Temete Dio e cercate i mezzi di avvicinarvi a Lui e combattete sulla Sua via, ché per avventura siate fra coloro che prosperano” (Cor. V:35).

Questo nuovo documento politico mira a definire la visione politica del partito di Hezbollah, dato che comprende le nostre visioni e prese di posizione e le ambizioni, le aspettative e le paure che nutriamo. Prima di ogni altra cosa, questo documento politico arriva in seguito a quelle azioni prioritarie ed a quei sacrifici che meglio abbiamo conosciuto avendone fatto esperienza.

In una tale fase politica, eccezionale e carica di trasformazioni, non è più possibile affrontare questi cambiamenti senza prendere in considerazione la posizione particolare che la nostra resistenza ha assunto o le conquiste realizzate lungo il nostro percorso.

Sarà necessario affrontare queste trasformazioni in un contesto di confronto tra due percorsi che da un lato sono tra loro contraddittori ma fra i quali esiste anche una la proporzionalità indiretta:

  1. la via della resistenza e dell’opposizione si trova in una fase ascendente. Essa si basa sulle vittorie militari, sui successi politici e sul consolidamento di questo modello di resistenza popolare e politica. Si fonda anche sulla fermezza delle posizioni politiche che abbiamo assunto nonostante gli attacchi massicci e le gigantesche sfide cui siamo stati sottoposti…giungendo così a modificare in modo a noi favorevole il bilanciamento delle forze al fine di creare un equilibrio regionale, che vada a tutto vantaggio della resistenza e dei suoi sostenitori.
  2. il sentiero del dominio e dell’egemonia statunitense-israeliana in tutte le sue molteplici dimensioni, alleanze ed estensioni, dirette ed indirette, sta andando incontro a sconfitte militari, passi falsi e delusioni che a loro volta mostrano l’ineludibile fallimento delle strategie e dei piani attuati dagli Stati Uniti, uno dopo l’altro. Tutte queste vicende hanno portato ad una situazione di collisioni, ritirate ed incapacità nel dirigere ed amministrare gli sviluppi e gli eventi nel nostro mondo arabo e islamico.

Questi dati si integrano in un più ampio scenario internazionale, che contribuisce a sua volta a mostrare la crisi degli Stati Uniti e il declino dell’egemonia unipolare in favore di un multipolarismo le cui caratteristiche non sono ancora del tutto chiare.

Ciò che aggrava ancora di più la crisi del sistema egemonico mondiale sono i collassi dei mercati finanziari statunitensi ed internazionali e l’ingresso dell’economia degli Stati Uniti in una fase di recessione. Questo fornisce una chiara immagine dell’acuta crisi strutturale che è insita nell’arrogante modello capitalista.

Pertanto si può affermare che ci troviamo nel bel mezzo di trasformazioni epocali, che stanno sancendo il retrocedere del ruolo degli Stati Uniti come potenza predominante, la caduta di questo riprovevole sistema unipolare e dunque l’inizio della progressiva scomparsa storica dell’entità sionista.

I movimenti di resistenza sono nel vivo di queste trasformazioni ed emergono come un fattore strategico nel panorama internazionale, dopo aver ricoperto un ruolo decisamente centrale nella generazione o nella promozione di queste trasformazioni in tutta la nostra regione.

La resistenza in Libano, compresa la nostra Resistenza Islamica, è stata la prima a combattere l’egemonia e l’occupazione da più di due decenni e mezzo. Noi abbiamo aderito a questa scelta in un momento che sembrava essere l’inaugurazione dell’era Americana, caratterizzata da trasformazioni che la descrivevano come la “fine della storia”. Alla luce degli equilibri di potenza e delle circostanze allora in vigore, alcuni videro la scelta della resistenza come una sorta di illusione o come un segno di avventatezza politica ovvero come un’inclinazione che si opponeva al razionalismo e alla logica.

Nonostante ciò, la resistenza continuò a muoversi nel suo processo di ğihād ritenendo assolutamente giusta la propria causa e plausibile la propria capacità di conseguire la vittoria, anche attraverso la fede in Dio ed avendo fiducia in Lui e grazie al senso d’appartenenza di tutta la comunità formata da coloro che hanno a cuore gli interessi nazionali libanesi, nonché avendo fiducia nel proprio popolo e tenendo alti i valori umani di rettitudine, giustizia e libertà.

Attraverso il suo lungo cammino di ğihād e le sue note vittorie – a cominciare dal ritiro della occupazione israeliana da Beirut e dal Monte del Libano, le fughe da Sidone, Tiro e Nabatiyeh, l’aggressione del luglio 1993, l’aggressione dell’aprile 1996, la liberazione del maggio 2000, la guerra del luglio 2006 – la resistenza ha reso credibile il proprio modello prima ancora di conseguire le sue vittorie. Il progetto della Resistenza poi è cresciuto, passando dal rappresentare una forza di liberazione ad una di equilibrio e contrapposizione ed infine si addirittura trasformata in una forza di difesa e di dissuasione, oltre ad aver ottenuto un influente ruolo nella politica interna, come pilastro per la costruzione di uno Stato giusto e capace.

Contemporaneamente anche lo status politico e umano della Resistenza si doveva evolvere per necessità: si è trasformato da un semplice valore nazionale libanese ad un più diffuso sentimento arabo e islamico, fino a rappresentare oggi un valore umano internazionale. Il suo modello viene seguito e le sue conquiste vengono prese ad esempio da tutti coloro che cercano la libertà e l’indipendenza in ogni parte del mondo.

Pur essendo a conoscenza di queste trasformazioni significative e considerato che il nemico oscilla tra una inetta strategia di guerra e l’incapacità di raggiungere un accordo a causa delle condizioni poste, Hezbollah non sottovaluta la dimensione delle attuali sfide e delle minacce dichiarate, la grande difficoltà dello scontro e gli altrettanto grandi sacrifici ritenuti necessari dalla resistenza, al fine di ristabilire i diritti e prendere parte alla resurrezione nazionale. Davanti a ciò, Hezbollah ha fatto chiarezza nelle sue scelte, divenendo più determinato nella sua volontà e più fiducioso nel suo Signore, nel popolo ed in se stesso.

In questo contesto, Hezbollah ha definito le principali linee guida che costituiscono un quadro politico e intellettuale per la sua visione e le prese di posizione nei confronti delle sfide da affrontare.

Capitolo 1: L’Egemonia ed il Risveglio

Primo: Il Mondo e L’Egemonia statunitense e occidentale

Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sono diventati autori di un primo progetto di egemonia centralizzata. Questo si è affermato con terribili sviluppi senza precedenti nella storia dei mezzi di dominio egemonico, basandosi sui risultati ottenuti ai vari livelli della conoscenza, come nel campo dell’educazione, della scienza, della tecnologia, dell’economia e soprattutto nell’ambito militare. Tutto ciò è stato sostenuto da un sistema economico che considera il mondo solo come un libero mercato, governato da specifiche norme americane.

L’aspetto più pericoloso della logica egemonica Occidentale in generale e degli Stati Uniti in particolare, è, in sostanza, la convinzione che il mondo sia di loro proprietà e che essi hanno il diritto di dominare sulla base della loro presunta superiorità in più di un campo. Così la strategia di espansione occidentale —e in particolare statunitense— accoppiata al sistema economico capitalistico, si riduce ad una avida strategia internazionale priva di limiti quanto a bramosia e a cupidigia.

Il controllo delle potenze capitalistiche presente soprattutto nelle reti interstatali di monopolizzazione formata da compagnie internazionali e intercontinentali ovvero da istituzioni internazionali di vario genere (in particolare le istituzioni finanziarie supportate dalla indiscussa potenza militare) ha portato a sempre maggiori contraddizioni ed al radicalizzarsi di lotte fra cui non ultime oggi sono menzionabili la lotta fra identità, culture e civiltà, oltre alla lotta fra ricchezza e povertà.

Il capitalismo selvaggio ha trasformato la globalizzazione in un meccanismo che diffonde disparità e instilla discordia, demolisce le identità ed impone il tipo più pericoloso di sfruttamento civile, culturale, economico e sociale.

La globalizzazione ha raggiunto il suo aspetto più pericoloso quando si è trasformata in una globalizzazione militare riposta nelle mani di quanti hanno deciso di seguire il piano di dominazione occidentale, in gran parte manifestatosi nella regione del Medio Oriente, a partire dall’Afghanistan fino all’Iraq, fino in Palestina e Libano e di cui una parte integrante è stata l’aggressione del luglio 2006 per mano israeliana.

La dominazione ed il progetto di egemonia degli Stati Uniti non ha mai raggiunto livelli così pericolosi come ha fatto recentemente, soprattutto a partire dall’ultimo decennio del ventesimo secolo in poi, lungo un percorso ascendente che ha preso il via dalla disgregazione e dalla caduta dell’Unione Sovietica (fatto che ha offerto il destro all’idea statunitense di poter essere l’unico polo, alla guida del progetto di egemonia internazionale chiamato responsabilità storica) senza distinguere tra il benessere del mondo e quello degli Stati Uniti e spacciando pertanto tale egemonia come un interesse per tutti gli altri stati e nazioni piuttosto che come un proprio mero interesse ed un tornaconto personale.

Questo piano ha trovato l’apice con l’affermarsi del movimento neoconservatore sotto l’amministrazione di George Bush figlio. Questo movimento ha espresso i suoi particolari punti di vista attraverso il “Progetto del Nuovo Secolo Americano”, scritto prima delle elezioni USA del 2000. Il progetto ha trovato la sua via di esecuzione dopo che l’amministrazione di Bush figlio prese il potere negli Stati Uniti.

Non deve apparire strano né sorprendente che quel documento –ben presto la guida dell’amministrazione Bush– sollecitava soprattutto la ricostruzione delle capacità degli Stati Uniti nel quadro di una visione strategica della sicurezza nazionale USA. Era chiaro che quel documento si concentrava sulla costruzione di strategie militari, non solo come forza di deterrenza ma anche come una forza di azione e di intervento o come forza di precauzione attraverso attacchi preventivi, intesi come mezzi di gestione delle crisi prima che queste hanno avuto luogo.

Quando accaddero gli avvenimenti dell’11 settembre, v’era al potere negli Stati Uniti l’amministrazione Bush. Davanti a ciò essa ha realizzato che era l’occasione opportuna per esercitare la più grande influenza possibile per realizzare la sua visione di egemonia mondiale strategica unipolare con lo slogan della “guerra universale contro il terrorismo”. Ha quindi compiuto molti tentativi che sono stati inizialmente considerati come successi, dai seguenti punti di vista:

  1. massima militarizzazione della propria politica estera e delle relazioni internazionali;
  2. sottrazione al quadro multilaterale e assunzione del monopolio nel processo decisionale strategico e nel coordinamento, quando necessario, con gli alleati posti in posizione subordinata;
  3. rapida conclusione della guerra in Afghanistan per potersi dedicare interamente al successivo e più importante passo del progetto egemonico, ossia l’assunzione del controllo dell’Iraq. L’Iraq era considerato il pilastro fondamentale per la fondazione del progetto di Nuovo Medio Oriente che andava incontro ai desideri mondiali dopo l’11 settembre. Questa amministrazione non si è mai tirata indietro dal ricorrere a tutti i mezzi di inganno, menzogne ed aperte falsificazioni per giustificare le sue guerre ed in particolare la guerra in Iraq e contro ogni Stato, movimento, forza o personalità che resiste al suo progetto neocoloniale. In questo quadro, l’amministrazione Bush ha cercato di stabilire una conformità tra il terrorismo e la resistenza, per togliere a quest’ultima la sua legittimità umana e legale al fine quindi di giustificare qualsiasi guerra contro i suoi movimenti, cercando di rimuovere l’ultima fortezza a cui i popoli e gli Stati ricorrono per difendere il proprio diritto a vivere con libertà, dignità e orgoglio, per difendere la loro ineccepibile sovranità e per svilupparsi attraverso le proprie esperienze assumendo così il proprio status e ruolo storico nei movimenti umani, a livello culturale e politico.

La definizione di “terrorismo” si è trasformata in un pretesto americano per praticare l’egemonia attraverso i seguenti mezzi: la cattura o l’arresto e la detenzione arbitraria in assenza degli elementi primari di un processo equo, come nella Base di Guantanamo, attraverso l’intervento diretto al di sopra della sovranità degli Stati, trasformandolo ineludibilmente in un processo di incriminazione arbitraria, nonché la decisione di infliggere pene ad intere nazioni e popoli ed infine, la concessione a sé stessi del diritto assoluto di lanciare guerre distruttive, che non distinguono tra innocente e criminale, bambino e anziano e uomo e donna.

Le guerre al terrorismo degli Stati Uniti sono finora costate all’umanità svariati milioni di persone, nonché aree totalmente distrutte, non solamente per i danni al suolo e alle infrastrutture ma anche alle basi della società che sono state disintegrate, spingendo all’indietro il processo di sviluppo storico in un movimento di ricaduta, generante guerre civili e infiniti conflitti fra fazioni, confessioni ed etnie. Ciò senza dimenticare l’attacco al patrimonio culturale e civile di questi popoli.

Non c’è dubbio che il terrorismo degli Stati Uniti è il fondamento di ogni aspetto del terrorismo in tutto il mondo. L’amministrazione Bush ha trasformato gli Stati Uniti in un pericolo che minaccia il mondo intero ad ogni livello ed in ogni campo. Se oggigiorno venissero condotti dei sondaggi internazionali, gli Stati Uniti si rivelerebbero la nazione più ripugnante in tutto il mondo.

Il fallimento subito nella guerra in Iraq e lo sviluppo della resistenza in quel paese, oltre al risentimento regionale ed internazionale per l’andamento di questa guerra ed il fiasco della cosiddetta “guerra al terrorismo” in particolare in Afghanistan, nonché il ritorno impetuoso del movimento Talebano insieme al dover riconoscere il suo ruolo e cercare di concludere accordi con esso, così come il grande fallimento della guerra degli Stati Uniti (per mano di Israele) contro la resistenza in Libano e Palestina, ha portato all’erosione del prestigio degli Stati Uniti a livello internazionale e ad una ritirata strategica della capacità degli Stati Uniti di intraprendere o impegnarsi in nuove avventure.

Tutto quanto detto non significa che gli Stati Uniti lasceranno la scena facilmente. Faranno invece tutto il possibile per proteggere ciò che chiamano “interessi strategici”. Questo perché le politiche di egemonia degli Stati Uniti si basano su considerazioni ideologiche e progetti teorici alimentati da correnti estremiste che sono alleate con un complesso industriale – militare caratterizzato da una avidità ed un materialismo senza fine.

Secondo: La nostra regione ed il progetto statunitense

Quando tutto il mondo detto sottosviluppato si trovava sotto la morsa dell’arrogante egemonia americana, tale morsa era ancora più stretta e dura sul nostro mondo arabo e islamico, per molte considerazioni legate alla sua storia, civiltà, disponibilità di risorse ed ubicazione geografica.

Per secoli il nostro mondo arabo e islamico è sempre stato oggetto di infinite guerre selvagge. Tuttavia, le fasi più pericolose sono iniziate con l’insediamento dell’entità sionista nella regione, nel quadro di un progetto di disintegrazione di questa regione e per affrontare o far guerra a vario titolo alle varie entità. Il picco di questa fase è stato raggiunto quando gli Stati Uniti hanno ereditato il vecchio colonialismo della regione.

L’obiettivo centrale dell’egemonia americana consiste nel dominare a tutti i livelli le nazioni: politicamente, economicamente, culturalmente o attraverso il saccheggio delle loro risorse, soprattutto del petrolio (che è il principale strumento di controllo dell’economia internazionale). Si prefigge di conseguire il controllo con qualsiasi mezzo che non rispetti le norme morali e le condizioni umane, tra cui l’uso eccessivo della forza militare, sia direttamente che indirettamente (ovvero mediatamente).

Per raggiungere questo obiettivo, gli USA hanno sempre fatto ricorso a diverse politiche generali e a molte strategie operative, tra cui:

  1. Fornire all’entità sionista tutti i tipi di garanzie di stabilità in quanto base avanzata e pilastro per il progetto di egemonia degli Stati Uniti che mira a disintegrare la regione, nonché sostenere questa entità con tutti gli elementi di forza e di continuità e dotandola di una rete di sicurezza per la sua stessa esistenza. Questo le consente di svolgere il ruolo di ghiandola tumorale che esaurisce le capacità della comunità musulmana, neutralizza le sue capacità e disperde le sue aspettative e speranze.
  2. Distruggere le capacità spirituali, la civiltà e le culture dei nostri popoli e cercare di indebolire la nostra morale attraverso i media e le guerre psicologiche che prendono di mira i valori e le figure del ğihād e della resistenza.
  3. Sostenere i regimi subordinati e le dittature della regione.
  4. Prendere possesso della terre e dei mari geograficamente strategici nella regione e delle basi aeree che costituiscono i punti di collegamento decisivi, nonché diffondere le basi militari nei punti vitali del territorio, affinché si rivelino utili alle sue guerre e a sostenere i suoi strumenti.
  5. Sopprimere qualsiasi rinascita della regione che consenta di acquisire mezzi di potere e progresso e che possa svolgere un ruolo storico a livello internazionale.
  6. Seminare tutti i tipi possibili di sedizione e divisione nella regione, specialmente quelli confessionali tra musulmani per produrre infinite lotte civili interne.

È chiaro che non c’è modo oggi di leggere ogni lotta in qualsiasi regione del mondo, se non attraverso un punto di vista strategico internazionale. Il pericolo degli Stati Uniti non è locale o specifico per una regione e non un altra. Di conseguenza anche il fronte che si contrappone a questo pericolo statunitense deve necessariamente essere globale.

Non c’è dubbio che questo scontro è difficile e compromettente. Si tratta di una lotta di dimensione storica e di conseguenza è una lotta di generazioni che ha bisogno di fare uso di ogni forza potenziale. La nostra esperienza in Libano ci ha insegnato che difficile non significa impossibile. Al contrario, i popoli vitali e attivi posti dietro una guida saggia, consapevole e pronta a tutte le possibilità, sono propensi ad accumulare i successi ed a conseguire una vittoria dopo l’altra. Così come ciò è vero verticalmente lungo la storia, è vero anche orizzontalmente nell’espansione geografica e geopolitica.

L’arroganza americana non ha lasciato alla nostra nazione e al nostro popolo che la scelta della resistenza, almeno per una vita migliore e per un futuro umanitario, un futuro governato da relazioni di fraternità, solidarietà e al tempo stesso diversità, in un mondo di pace e di armonia, come descritto da tutti i profeti e i grandi riformisti nella storia e com’è aspirazione di uno spirito umano, giusto e sublime.

Capitolo 2: Il Libano

Primo: La Patria

Il Libano è la nostra patria e la patria dei nostri padri e antenati. È anche la patria dei nostri figli, nipoti e delle generazioni future. È il paese per la cui sovranità, orgoglio, dignità e liberazione abbiamo offerto i nostri sacrifici estremi ed i nostri più cari martiri. Vogliamo questa nazione per tutti i libanesi. Vogliamo abbracciarli, avere spazio per loro ed essere orgogliosi delle loro offerte.

Vogliamo che ci sia unione e coesione tra la terra, il popolo, lo stato e le istituzioni. Noi rifiutiamo ogni forma di frammentazione o di federalismo, esplicita o mascherata. Vogliamo che il Libano sia sovrano, libero, indipendente, forte e capace. Vogliamo anche che sia attivo e presente nella geopolitica della regione. Vogliamo anche che dia un contributo fondamentale nel fare il presente ed il futuro, come è sempre stato attivo nel fare la storia.

Una delle condizioni più importanti per la creazione e la continuità di una patria di questo tipo è quella di avere uno Stato equo, capace e forte, nonché un sistema politico che rappresenti veramente la volontà del popolo e le sue aspirazioni per la giustizia, la libertà, la sicurezza, la stabilità, il benessere e la dignità. Questo è ciò che tutto il popolo libanese vuole e ciò per cui lavora. Noi siamo una parte di esso.

Secondo: La Resistenza

Israele rappresenta una minaccia eterna per il Libano – lo Stato e l’entità – e un reale pericolo per il paese a causa delle sue ambizioni storiche sulla terra come sull’acqua. Inoltre il Libano è considerato un modello di convivenza tra i seguaci delle religioni monoteiste, in una formula unica in contrasto con l’idea di Stato razzista espressa invece dalla entità sionista. In più la presenza del Libano ai confini della Palestina occupata, in una regione particolarmente instabile a causa della continua lotta con il nemico israeliano, ha reso inevitabile l’assumersi delle responsabilità nazionalistiche.

La minaccia israeliana in questo paese è iniziata sin dall’istituzione della entità sionista nella terra della Palestina. È un entità che non ha mai esitato a rivelare le sue ambizioni di occupare alcune zone del Libano e di prenderne le ricchezze, in particolare l’acqua. Quindi, ha cercato di realizzare gradualmente queste ambizioni.

Questa entità ha iniziato la sua aggressione contro il Libano a partire dal 1948, dal confine fin nel profondo del paese, dal Massacro di Hula nel 1949 all’aggressione all’aeroporto internazionale di Beirut nel 1968. Tra questi eventi ci sono stati lunghi anni di attacchi alle aree di confine, alla terra, popolazione e ricchezza. Ciò è stato un preludio all’impadronirsi direttamente della terra mediante ripetute invasioni che hanno poi condotto all’invasione del marzo 1978 ed all’occupazione della zona di frontiera, in modo da rendere la popolazione di quell’area soggetta alla loro autorità non solo a livello di sicurezza ma anche a livello politico ed economico, nel quadro di un processo di sottomissione di tutto il paese, con l’invasione del 1982.

Tutto ciò stava avvenendo con il pieno sostegno degli Stati Uniti ed il disinteresse, elevatosi fino a diventare una vera complicità, da parte della cosiddetta “comunità internazionale” e delle sue istituzioni, in mezzo al sospetto silenzio ufficiale del mondo arabo ed all’assenza di alcuna autorità libanese che ha abbandonato la terra ed il popolo all’occupazione e ai massacri israeliani, senza assumersi mai le proprie responsabilità ed i propri obblighi nazionali.

Nonostante questa grande tragedia nazionale, le sofferenze del popolo, l’assenza dello Stato e l’abbandono internazionale, i Libanesi leali verso la propria patria non hanno avuto altra scelta se non quella di avvalersi del proprio diritto, in nome del proprio dovere nazionale, morale e religioso, a difendere la propria terra. Così, la loro scelta è stata quella di lanciare una resistenza popolare armata per affrontare il pericolo sionista e l’aggressione permanente contro la loro vita, la loro ricchezza ed il loro futuro.

In mezzo a queste difficili circostanze, i libanesi hanno iniziato un processo di ripristino della nazione tramite la resistenza armata, iniziando a liberare la terra e l’iniziativa politica dalle mani dell’occupazione israeliana, preludio al ripristino dello Stato e all’edificio delle istituzioni costituzionali. Ancor più importante è stato ristabilire i valori nazionali su cui la nazione si è costruita, in cima ai quali ci sono la dignità e la sovranità nazionale. Ciò ha conferito alla libertà la sua dimensione reale, non lasciandola limitata ad uno slogan. La resistenza si è consacrata mediante l’atto di liberare la terra e gli uomini e quindi questi valori nazionali si sono trasformati in pilastri per la costruzione del Libano moderno. In quanto tale, il Libano ha ripristinato la propria posizione sulla mappa del mondo ed ha restaurato il suo ruolo di paese da rispettare, i cui figli sono orgogliosi di appartenervi, dal momento che è la nazione della libertà, della cultura, della scienza e della diversità, nonché paese di orgoglio, rispetto, sacrifici ed eroismo. La Resistenza ha coronato tutte queste dimensioni insieme raggiungendo la liberazione nel 2000 e la storica vittoria nel luglio 2006, dimostrando di possedere una vera esperienza nella difesa della patria, un’esperienza che si è trasformata in un esempio dal quale le nazioni e gli Stati possono trarre beneficio per difendere il proprio territorio, proteggere la propria indipendenza e mantenere la propria sovranità.

Questo successo nazionale della resistenza è stato realizzato grazie al sostegno reale di un popolo e di un esercito nazionale leale, frustrando così gli obiettivi del nemico ed infliggendogli una sconfitta storica che ha permesso alla resistenza di celebrare insieme ai suoi combattenti e martiri, così come a tutto il Libano, attraverso la nazione e l’esercito, la grande vittoria che ha spianato la strada a una nuova fase nella regione, fondata sul ruolo centrale della resistenza a dissuadere i nemici, garantire la salvaguardia dell’indipendenza e della sovranità del paese, a difendere il popolo e a completare la liberazione dei territori occupati che erano rimasti.

La Resistenza è un mezzo nazionale, necessario e continuato, almeno fino a quando continueranno le minacce israeliane e le loro ambizioni di prendere le nostre terre e acque, fino a quando non esisterà uno Stato forte ed efficace ed in presenza di uno squilibrio di potenza tra noi ed il nemico. Questo squilibrio in realtà obbliga gli Stati ed i popoli deboli che sono bersaglio delle minacce degli Stati forti e dominanti a ricercare formule attraverso cui beneficiare delle capacità e potenzialità disponibili. Perciò le continue minacce israeliane obbligano il Libano ad adottare una strategia difensiva composta da una resistenza popolare che partecipa a difendere il paese e da un esercito che opera per la protezione e la salvaguardia della sicurezza e della stabilità, in un processo complementare che nelle fasi precedenti si è dimostrato vincente nella lotta contro il nemico, nell’ottenere risultati per il Libano e fornirlo di mezzi per proteggere se stesso.

Questa formula, che è inclusa nella strategia difensiva, costituisce un mezzo di protezione per il Libano, in particolare dopo il fallimento dei tentativi con altre modalità, siano esse internazionali, arabe o cercate attraverso la negoziazione con il nemico. L’adozione del percorso di resistenza in Libano ha raggiunto il suo obiettivo con la liberazione della terra, con il ripristino delle istituzioni statali, con la salvaguardia della sovranità e con il raggiungimento della vera indipendenza. In questo quadro, i libanesi di tutti i partiti politici, le classi sociali, le organizzazioni culturali e gli organismi economici si preoccupano di salvaguardare e mantenere questa formula, perché il pericolo israeliano minaccia il Libano in tutte le sue componenti e ciò richiede la più ampia partecipazione dei Libanesi nell’assumersi le responsabilità della difesa.

Il successo dell’esperienza di resistenza nella lotta contro il nemico ed il fallimento di tutti i piani e gli schemi di abolirne i movimenti, di limitare la loro scelta e disarmarli da un lato ed il protrarsi delle minacce israeliane contro il Libano dall’altro rendono inevitabile che la Resistenza faccia del suo meglio per rafforzare le sue capacità e consolidare le sue forze per assumersi le proprie responsabilità nazionali e partecipare a liberare le terre ancora sotto l’occupazione israeliana nelle Fattorie di Sheba’a e nelle Colline Kafarshuba e la città libanese di Ghajar, così come a liberare i detenuti e le persone scomparse e i corpi dei martiri e prendere parte alla difesa e alla salvaguardia della terra e del popolo.

Terzo: Lo Stato ed il sistema politico

Il principale problema del sistema politico libanese che impedisce una riforma, sviluppo ed aggiornamento continuo è il confessionalismo politico. L’istituzione del regime su base confessionale costituisce di per sé stesso un forte ostacolo al raggiungimento di una vera democrazia, in cui la maggioranza eletta possa governare e la minoranza elettorale possa opporsi, aprendo la porta ad una corretta circolazione di potere tra l’adesione e l’opposizione o fra le diverse coalizioni politiche. Perciò l’abolizione del settarismo è una condizione fondamentale per una vera democrazia. In questo quadro, l’Accordo di Taif prevede la costituzione di un consiglio supremo nazionale per conseguire l’abolizione del settarismo.

Tuttavia, fino a quando i libanesi non riusciranno a raggiungere attraverso il dialogo nazionale questo significativo risultato – cioè l’abolizione del confessionalismo politico – e dato che il sistema politico in Libano si basa su fondamenta confessionali, la democrazia consensuale rimane la base fondamentale per la governabilità del Libano, perché è l’incarnazione reale dello spirito della Costituzione e la quint’essenza dell’Accordo di Coesistenza.

Perciò qualsiasi approccio alle questioni nazionali secondo l’uguaglianza di maggioranza e di minoranza attende il raggiungimento delle condizioni storiche e sociali per l’esercizio della democrazia effettiva in cui il cittadino diventa un valore di per se stesso.

La volontà dei libanesi di vivere insieme in dignità, uguali diritti ed obblighi richiede una cooperazione costruttiva al fine di consolidare il principio del vero e proprio partenariato, che costituisce la formula più adeguata per proteggere la diversità e la piena stabilità dopo un periodo di instabilità causata dalle politiche basate sul monopolio, la cancellazione e le esclusioni.

La democrazia consensuale costituisce una formula politica appropriata per garantire vero partenariato e contribuisce ad aprire le porte a chiunque per accedere alla fase della costruzione dello Stato assistenziale che dia a tutti i suoi cittadini la sensazione di essere stato costituito per il loro bene.

Di seguito la nostra visione dello Stato che ci auguriamo di poter costruire insieme a tutti i Libanesi.

  1. Lo Stato che preserva le libertà pubbliche e offre l’ambiente adatto per metterle in pratica.
  2. Lo Stato che è forte in virtù della sua unità nazionale e coerenza.
  3. Lo Stato che è in grado di proteggere la sua terra, il suo popolo e la sua sovranità e che ha un esercito nazionale forte e organismi di sicurezza attivi che rispettano la sicurezza del popolo e dei suoi interessi.
  4. Lo Stato che è strutturato sulla base di istituzioni moderne, efficaci e cooperative che hanno poteri e competenze definite e chiare.
  5. Lo Stato che si impegna nell’applicazione delle leggi nei confronti di tutti i suoi cittadini senza distinzione di religione, provenienza geografica ed orientamento politico, in un quadro di rispetto delle libertà e di giustizia verso i diritti e i doveri dei cittadini.
  6. Lo Stato che garantisce una rappresentanza parlamentare corretta e giusta, che non può essere ottenuta se non attraverso una legge elettorale moderna che consenta agli elettori di scegliere i propri rappresentanti al di fuori del controllo del denaro, del fanatismo e delle varie pressioni e che renda possibile la più ampia rappresentanza dei vari tessuti popolari libanesi.
  7. Lo Stato che si affida a persone dalle capacità qualificate e senza pregiudizi a prescindere dal loro credo religioso e che imposta meccanismi attivi ed energici per combattere senza compromessi la corruzione e i corruttori nella pubblica amministrazione.
  8. Lo Stato che gode di una autorità giudiziaria indipendente e non politicizzata in cui giudici competenti e senza pregiudizi esercitano il loro critico dovere di diffondere la giustizia tra la gente.
  9. Lo Stato che basa la sua economia principalmente sui settori produttivi e lavora al loro consolidamento, soprattutto quello agricolo e industriale, dando loro una quota adeguata nei piani e nei progetti di sviluppo e sostenendo tutto ciò che conduce al miglioramento dei prodotti e gli strumenti della loro commercializzazione che offrono opportunità di lavoro adeguate e sufficienti soprattutto nelle zone di campagna.
  10. Lo Stato che adotta e applica il principio di uno sviluppo equilibrato tra tutte le regioni e cerca di colmare i divari economici e sociali tra loro.
  11. Lo Stato che si preoccupa per il suo popolo e opera per fornirgli servizi adeguati: istruzione, cure mediche, alloggio, benessere, combattendo la povertà, offrendo opportunità di lavoro…
  12. Lo Stato che si prende cura delle nuove generazioni in crescita, aiuta i giovani a sviluppare le proprie capacità e talenti, li orienta verso obiettivi umanistici e nazionali e li protegge dalla delinquenza e dal vizio.
  13. Lo Stato che opera per consolidare il ruolo delle donne a tutti i livelli nell’ottica di beneficiare delle loro caratteristiche, nel rispetto del loro status.
  14. Lo Stato che ha a cuore l’istruzione e lavora per rafforzare le scuole ufficiali e l’Università Libanese a tutti i livelli, applicando il principio dell’insegnamento obbligatorio e gratuito.
  15. Lo Stato che adotta un sistema decentrato che da ampi poteri amministrativi alle varie unità amministrative (province/distretti/comuni) con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo e facilitare gli affari e le transazioni senza consentire la successiva trasformazione di questa decentralizzazione in una sorta di federalismo.
  16. Lo Stato che lavora duramente per arrestare l’emigrazione dei giovani e delle famiglie e la fuga di cervelli mediante un piano esaustivo e razionale.
  17. Lo Stato che custodisce i suoi soggetti in tutto il mondo, li protegge e trae beneficio dalle loro posizioni per il servizio della causa nazionale.

La creazione di uno Stato basato su queste specifiche e requisiti è il nostro obiettivo e lo scopo di ogni persona libanese onesta e sincera. Noi, con Hezbollah, eserciteremo tutti gli sforzi possibili, in cooperazione con le forze popolari e politiche, per raggiungere questo nobile obiettivo nazionale.

Quarto: Il Libano e le relazioni libano-palestinesi

Una delle tragiche conseguenze della costruzione dell’entità sionista sulla terra di Palestina e dello spostamento dei suoi abitanti è il problema dei profughi palestinesi che si sono trasferiti in Libano per vivere temporaneamente sul suo territorio come ospiti dei loro compagni libanesi fino a quando non ritorneranno nel loro paese e alle loro case dalle quali furono espulsi.

La causa originale e diretta della sofferenza dei libanesi e dei palestinesi è stata in realtà l’occupazione israeliana della Palestina, che ha provocato tragedie e calamità che hanno afflitto tutti i popoli della regione e non solo i palestinesi.

Inoltre, le sofferenze dei profughi palestinesi in Libano non sono limitate al dolore della migrazione forzata, ma sono dovute anche ai selvaggi massacri e alle atrocità israeliane che hanno distrutto uomini ed edifici (come quello che è stato commesso nel Campo di Nabatiyeh, completamente distrutto) alle difficoltà della vita in campi che mancano delle condizioni minime per un dignitoso benessere, alla privazione di tutti i diritti civili e sociali, alla non assunzione da parte dei governi libanesi succedutisi delle loro responsabilità verso i rifugiati palestinesi.

Questa situazione malsana impone ora alle autorità libanesi di assumersi le proprie responsabilità e, pertanto, edificare relazioni libano-palestinesi su basi giuste, solide e legali, che rispettino le norme della giustizia, del diritto e dei giusti interessi di entrambe le nazioni. È necessario che questo rapporto libano-palestinese non resti disciplinato dai capricci e dagli stati d’animo così come da considerazioni di ordine politico spicciolo, da interazioni interne e interventi internazionali.

Noi crediamo che questa missione possa essere realizzata attraverso i seguenti punti:

  1. Dialogo libano-palestinese diretto;
  2. Invito dei Palestinesi in Libano per accordarsi su una sola autorità che li rappresenti in questo dialogo, oltrepassando le disparità dello status generale palestinese.
  3. Garanzia ai Palestinesi in Libano dei loro diritti sociali e civili, che migliorino le loro condizioni umane e salvaguardino la loro personalità, identità e causa.
  4. Impegno per il Diritto al Ritorno e rifiuto di ogni negoziato.

Quinto: il Libano e le relazioni col mondo arabo

Il Libano possiede un’identità ed un’appartenenza araba che considera come una condizione originale naturale nel processo di edificazione sociale libanese.

Inoltre, l’ambito vitale, la geopolitica, la dimensione strategica, le politiche di integrazione regionale e gli interessi nazionali – che sono le specifiche strategiche ed i maggiori interessi della posizione politica del Libano – hanno reso inevitabile per il Libano di impegnarsi per le cause arabe giuste ed eque, fra le quali primeggia la causa palestinese e il conflitto con il nemico israeliano.

Inoltre, c’è un urgente bisogno di sforzi concertati per superare i conflitti che attraversano i vertici arabi. La contraddizione strategica e la differenza di alleanze, nonostante la loro gravità e intensità, non giustificano le politiche che mirano ad impegnarsi in progetti esterni basati sull’aggravare le discordie, incitare al settarismo e agitare i fattori di divisione e di disgregazione, che portano all’esaurimento della nazione e di conseguenza fanno gioco al nemico sionista e rafforzano le trame statunitensi.

Lo sviluppo di una pratica politica basata sul limitare o dare ordine ai conflitti ed evitare il loro proliferare in lotte aperte è una scelta degna di essere adottata per maturare un approccio qualitativo responsabile nel trattare le cause nazionalistiche. In quanto tale, cerca di promuovere punti comuni e fornire opportunità per una comunicazione pubblica e ufficiale costruttiva, al fine di ottenere il più ampio quadro di solidarietà al servizio delle nostre cause.

La scelta della Resistenza costituisce ancora una volta la necessità centrale e un fattore obiettivo di rafforzamento della posizione araba e di indebolimento del nemico, al di la della natura delle strategie o delle contrattazioni politiche.

Basandosi su tutto ciò che è stato summenzionato, la resistenza non intraprende alcuna offensiva per giustificarne l’uso o per raggiungere le varie posizioni arabe, a meno che queste azioni non rientrino nel quadro di un indebolimento del nemico e del conseguente rafforzamento della posizione araba.

In questo contesto, la Siria ha dimostrato una distintiva fermezza nella lotta contro il nemico israeliano. Ha sostenuto i movimenti di resistenza nella regione, è stata accanto a noi nelle circostanze più difficili ed ha cercato di unificare gli sforzi arabi per garantire gli interessi dell’area e affrontare le sfide.

Vogliamo sottolineare come la necessità di stringere notevoli rapporti tra Libano e Siria sia un’esigenza politica, economica e di sicurezza dettata dai due paesi, dai due popoli, dagli imperativi geopolitici, dai requisiti per la stabilità del Libano e per far fronte alle sfide comuni. Ci appelliamo, inoltre, perché si ponga fine a tutti i sentimenti negativi che hanno intralciato i rapporti bilaterali in questi ultimi anni e affinché queste relazioni ritornino al loro stato normale il più presto possibile.

Sesto: il Libano e le relazioni col mondo islamico

Il mondo arabo e islamico si trova ad affrontare sfide che si estendono al punto da raggiungere la nostra società nelle sue varie componenti. Ciò rende necessario che noi non ne pregiudichiamo l’efficacia.

In verità, i conflitti e le tensioni confessionali create artificiosamente, in particolare tra sunniti e shi’iti, la creazione di contrasti razziali tra curdi, turcomanni ed arabi e tra iraniani ed arabi… l’intimidire e terrorizzare le minoranze, il continuo drenaggio cristiano dall’Oriente arabo ed in particolare dalla Palestina e dall’Iraq oltre che dal Libano, sono tutti fattori che minacciano la coesione delle nostre società, indebolendo le sue forze e incrementando le difficoltà per la rinascita e lo sviluppo.

Invece di essere una fonte di ricchezza sociale e di vitalità, le diversità confessionali sembrano essere sfruttate come fattori di incitamento alla divisione sociale.

Un tale abuso sembra essere il risultato dell’intersezione di deliberate politiche occidentali – soprattutto americane – e di visioni interne fanatiche ed irresponsabili, oltre che di un ambiente politico instabile.

Sembra inevitabile prendere in considerazione tali fatti. È inoltre necessario elencarli tra le preoccupazioni basilari nelle piattaforme delle forze e dei movimenti essenziali. Fra di essi i movimenti islamici devono assumere una particolare responsabilità nell’impegnarsi in queste sfide e affrontare tali crisi.

Hezbollah sottolinea la necessità di cooperare con gli stati islamici a diversi livelli per ottenere la forza di contrastare i progetti di egemonia. Tale cooperazione serve anche ad affrontare l’invasione culturale della comunità e dei media e incoraggia gli Stati islamici a sfruttare le loro risorse per un proficuo scambio tra questi paesi.

In questo contesto, Hezbollah considera l’Iran come uno Stato centrale nel mondo islamico, dal momento che è il paese che ha abbattuto con la sua rivoluzione il regime dello Shah e i suoi progetti statunitensi-israeliani. È anche lo Stato che ha sostenuto i movimenti di resistenza nella nostra regione e che si è schierato con coraggio e determinazione al fianco delle cause arabe e islamiche, fra le quali primeggia la causa palestinese.

La politica della Repubblica Islamica è chiara e ferma nel sostenere la causa primaria, centrale e più importante per gli arabi ed i musulmani, vale a dire la “Causa Palestinese”. Dopo l’annuncio della vittoria benedetta della rivoluzione islamica sotto la guida del Wali al-Faqih Imam Khomeini (possa Iddio benedire la sua anima) e la creazione della prima ambasciata palestinese al posto della Ambasciata d’Israele, questo sostegno è continuato in varie forme fino ai giorni nostri sotto la leadership del Wali al-Faqih Imam Khamenei (possa Iddio prolungare la sua vita). Ciò ha portato a conseguire importanti vittorie per la prima volta nella storia della lotta contro gli aggressori sionisti.

La fabbricazione di accuse contro la Repubblica Islamica in Iran da parte di alcuni partiti arabi rappresenta un esempio di autolesionismo e danneggiamento delle cause arabe. Ciò non è utile che ad “Israele” e agli Stati Uniti d’America.

L’Iran, che ha formato il suo credo politico e costruito il suo ambito vitale nel dare supporto alla causa palestinese, nell’ostilità ad “Israele”, nell’ostacolare le politiche degli Stati Uniti e nell’integrazione con l’ambiente arabo e islamico, deve essere trattato con la volontà di cooperare fraternamente. Bisogna confrontarsi con esso su una base di rinascita. Deve essere il centro del bilancio strategico. Deve essere considerato come un esempio di sovranità, indipendenza e libertà che sostiene il progetto moderno di indipendenza arabo-islamica e come una potenza che aumenta la fermezza e la forza degli Stati e dei popoli della nostra regione.

Il mondo islamico cresce più forte con il formarsi di coalizioni e della cooperazione tra i suoi Stati. Rivendichiamo l’importanza del fare uso degli elementi di forza di natura politica, economica ed umana che esistono in ogni Stato nel nostro mondo islamico, su una base di integrazione e patrocinio e per non essere soggetti a arroganti egemonie.

Ricordiamo l’importanza dell’unità tra i musulmani. Dio il Possente dice nel Sacro Corano: “E aggrappatevi tutti insieme alla corda di Dio e non dividetevi tra voi”. Bisogna stare attenti a tutto ciò che causa discordia tra i musulmani, come le istigazioni settarie, specialmente tra sunniti e shi’iti. Scommettiamo sulla consapevolezza dei popoli musulmani nell’affrontare le congiure e le ordalie tessute contro di loro in questa prospettiva.

Settimo: il Libano e le relazioni internazionali

I criteri che regolano il disaccordo, il conflitto e la lotta secondo il punto di vista e l’approccio di Hezbollah si basano primariamente su questioni politiche e morali: i rapporti avvengono tra l’arrogante ed il supposto debole, tra l’autoritario ed il soggiogato e tra l’occupante e coloro che chiedono libertà e indipendenza.

Hezbollah ritiene inoltre che l’egemonia unilaterale rovesci l’equilibrio e la stabilità internazionale, nonché la pace e la sicurezza tra gli Stati.

Il sostegno illimitato degli Stati Uniti ad Israele ed il suo appoggio verso l’occupazione israeliana dei territori arabi, oltre al dominio delle istituzioni internazionali e in aggiunta all’opportunismo insito nell’approvazione e nell’implementazione delle risoluzioni internazionali, la politica di interferenze negli affari degli altri Stati, la militarizzazione del mondo e l’adozione del principio delle guerre preventive nei conflitti internazionali, (che provocano disordine e turbolenze in tutto il mondo) hanno posto l’amministrazione americana in una posizione ostile alla nostra nazione ed ai nostri popoli e la rendono in sostanza responsabile di provocare il caos nel sistema politico inter-statale.

Quanto alle politiche europee, esse oscillano tra l’incapacità e l’inefficienza da un lato e la sottomissione ingiustificata alle politiche statunitensi dall’altro, cosa che sta portando in realtà ad annullare la tendenza moderata in Europa a favore dell’interesse della egemonia atlantica con il suo sfondo coloniale.

Essere sottomessi alle politiche statunitensi – in particolare nella fase del loro fallimento storico – è un errore strategico che porterà solo ad altre crisi, complicazioni e ostacoli alle relazioni euro-arabe.

Una particolare responsabilità grava sull’Europa a causa del patrimonio coloniale che ha inflitto alla nostra regione, con danni enormi le cui ripercussioni i nostri popoli stanno ancora soffrendo.

Dato che ci sono popoli europei che vantano una lunga esperienza di resistenza agli invasori, è un obbligo umano e morale dell’Europa, ancor prima di essere un obbligo politico, quello di riconoscere il diritto dei popoli a resistere all’occupante sulla base della distinzione tra resistenza e terrorismo.

Dal nostro punto di vista, i presupposti per la stabilità e per la cooperazione euro-araba richiedono la costruzione di un approccio europeo più indipendente, giusto ed obiettivo. È impossibile costruire un comune ambito vitale di politica e di sicurezza senza questa trasformazione, al fine di garantire che siano affrontati i sintomi delle crisi e dell’instabilità.

D’altra parte, abbiamo osservato con molta attenzione e profondo rispetto lo sforzo indipendente e libero che si oppone all’egemonia sugli stati latino-americani. Ci sono moteplicii punti in comune tra i loro progetti ed i progetti dei movimenti di resistenza della nostra regione, cosa che contribuisce a costruire un sistema internazionale più equilibrato e giusto.

Questi sforzi sono molto promettenti a livello internazionale per una identità umana collettiva e un comune background politico e morale. In questo quadro, lo slogan dell’“unità dei supposti deboli” rimane uno dei pilastri della nostra concezione politica per costruire la nostra consapevolezza, le nostre relazioni ed i nostri atteggiamenti verso le cause internazionali.

Capitolo 3: La Palestina e i negoziati per un accordo

Primo: La Causa Palestinese e l’entità sionista

Sin dalla usurpazione della Palestina e dalla cacciata del suo popolo nel 1948 con il sostegno e l’appoggio delle potenze allora egemoniche, l’entità sionista ha rappresentato un’aggressione diretta, un grave pericolo e una minaccia per la sicurezza e la stabilità di tutta la regione araba e per i suoi interessi. I danni non sono limitati solo al popolo palestinese o agli Stati e popoli confinanti con la Palestina. Le aggressioni, le tensioni e le guerre a cui la nostra regione ha assistito a causa delle tendenze aggressive e delle concrete aggressioni israeliane sono una prova tangibile della massiccia oppressione che ha colpito il popolo palestinese, gli arabi ed i musulmani a causa dei crimini contro l’umanità perpetrati dall’Occidente, allorquando ha impiantato questa estranea entità nel cuore del mondo arabo e islamico. In questo modo ha creato al tempo stesso una violazione aggressiva ed una posizione avanzata per l’arrogante progetto occidentale in generale, e una base per il controllo e l’egemonia sulla regione in particolare.

Il movimento sionista è un movimento razzista a livello sia pratico che teorico. È il prodotto di una mentalità arrogante, opprimente e dominante. Il suo progetto è fondamentalmente la giudaizzazione mediante l’espansione degli insediamenti. Ancor di più, l’entità che è stata costituita in base a questo movimento, è cresciuta diventando sempre più forte ed è riuscita a sopravvivere mediante l’occupazione, l’aggressività, i massacri ed il terrorismo, fattori sostenuti ed appoggiati dagli Stati coloniali ed in particolare gli Stati Uniti d’America, ad essa legati da un’alleanza strategica che l’hanno resa un vero e proprio partner in tutte le guerre, i massacri e le pratiche terroristiche.

La lotta in cui noi e la nostra nazione ci siamo impegnati contro il progetto coloniale sionista in Palestina sta adempiendo all’obbligo di autodifesa contro l’occupazione coloniale di Israele, l’aggressione e l’oppressione che minacciano la nostra esistenza e prendono di mira i nostri diritti ed il nostro futuro. Non si basa, da parte nostra, sullo scontro religioso o razziale, ma è così per i coloni sionisti: il progetto coloniale non ha mai esitato a coinvolgere la religione ed a sfruttare i sentimenti religiosi come mezzo per raggiungere i propri obiettivi e traguardi.

In effetti, la stessa richiesta del presidente degli Stati Uniti Bush, del suo successore Obama e dei leader dell’entità sionista a palestinesi, arabi e musulmani di riconoscere uno “Stato di Israele” ebreo, non è altro che la prova più evidente di ciò.

Il risultato naturale e inevitabile è che questa entità costituita sull’usurpazione vive una crisi esistenziale che preoccupa i suoi dirigenti ed i suoi sostenitori, perché si tratta di un neonato innaturale e di un’entità incapace di vivere e durare, cioè soggetta alla distruzione. Ciò impone la responsabilità storica alla nazione ed ai suoi popoli di non riconoscere questa entità, indipendentemente dalle pressioni e dalle conseguenti sfide. Piuttosto, la nazione ed i suoi popoli devono continuare a lavorare per liberare tutte le terre usurpate e ripristinare tutti i diritti sequestrati, non importa quanto tempo e quanti sacrifici ciò richiederà.

Secondo: al-Quds (Gerusalemme) e la Moschea di al-Aqṣā

Il mondo intero è a conoscenza dell’importanza e della santità di al-Quds (Gerusalemme) e della Moschea di al-Aqṣā. Al-Aqṣā è una delle due Qibla (direzione verso cui tende la preghiera) ed è terza solo alle due Moschee Sacre (di La Mecca e Medina). È la destinazione del viaggio notturno del Profeta (pace su di lui e la sua famiglia). Nessuno tra i musulmani nega il suo grande status come uno dei luoghi più sacri, avente un profondo rapporto con l’Islam come uno dei più importanti simboli islamici sulla Terra.

La città di al-Quds (Gerusalemme) incarna insieme molti luoghi santi islamici e cristiani, cosa che la rende sublime sia per i musulmani che per i cristiani.

La continua occupazione israeliana della città santa, insieme alle trame ed ai progetti di giudaizzazione, all’espulsione dei suoi abitanti, alla confisca delle loro case e dei loro possedimenti, al suo accerchiamento con quartieri, cinture e blocchi di insediamenti ebraici ed al suo soffocamento con il Muro di Separazione razzista, in aggiunta agli incessanti tentativi israeliani e statunitensi di consacrarla come la capitale eterna internazionalmente riconosciuta dell’entità sionista, tutte queste sono misure aggressive che vanno respinte e condannate.

Per di più, le incessanti e ripetute aggressioni pericolose alla benedetta Moschea di al-Aqṣā, gli scavi eseguiti in tale area ed i progetti di demolirla costituiscono un serio pericolo reale che minaccia la sua esistenza e sopravvivenza e preannuncia pericolose ripercussioni in tutta la regione.

Sostenere al-Quds (Gerusalemme) e difendere e salvaguardare la Moschea di al-Aqṣā è un obbligo religioso e una responsabilità morale e umana che devono essere assunti da ogni persona nobile e libera nella nostra nazione araba e islamica e da tutti i popoli liberi e nobili del mondo.

Ci appelliamo agli arabi ed ai musulmani a livello pubblico e ufficiale e a tutti gli Stati che hanno a cuore la pace e la stabilità mondiale perché esercitino ogni sforzo possibile per liberare al-Quds (Gerusalemme) dall’occupazione sionista e per preservare la sua vera identità ed i suoi luoghi sacri islamici e cristiani.

Terzo: La Resistenza Palestinese

Il popolo palestinese, mentre è impegnato nella battaglia di autodifesa e di lotta per ripristinare i propri legittimi diritti nazionali in Palestina – nel suo significato e nella sua posizione geografica e storica – sta in realtà esercitando un diritto legittimo approvato e reso necessario dalle missioni divine, dalle leggi internazionali, dai codici e dalle norme umani.

Tale diritto include la resistenza in tutte le sue forme – prima fra tutte la resistenza armata – e con tutti i mezzi che le fazioni della resistenza palestinese sono in grado di utilizzare, in particolare in queste condizioni di squilibrio di forze a vantaggio dell’entità sionista, che è armata con le armi di distruzione più avanzate, usate per uccidere, attaccare e distruggere.

Questi tentativi hanno costituito una prova evidente che non lascia spazio a dubbi, durante tutto il processo di lotta e di scontro tra la nostra nazione e l’entità sionista sin da quando ha usurpato la Palestina fino ad oggi. L’importanza e l’efficacia della scelta di resistenza ğihādista e la lotta armata contro le aggressioni per liberare le terre, ripristinare i diritti e raggiungere un equilibrio che colmi il divario di superiorità strategica attraverso il bilanciamento imposto dalla resistenza sfruttando le capacità disponibili, la forza di volontà e la determinazione nel campo di battaglia. La miglior prova di ciò sono le vittorie conseguite dalla resistenza in Libano e le conquiste militari e morali che hanno segnato tutto il suo processo ğihādista, in particolare costringendo i sionisti a mettere in scena nel maggio 2000 un massiccio ritiro israeliano dalla maggior parte dei territori libanesi occupati ed il fiasco assoluto dell’esercito sionista nel corso dell’aggressione del luglio 2006, momento in cui la resistenza ha ottenuto una vittoria divina, storica e strategica che ha cambiato radicalmente la forma della lotta ed ha inflitto una sconfitta al nemico israeliano, la prima del suo genere, dato che ha spazzato via la leggenda dell’esercito imbattibile.

L’altra prova è ciò che ha ottenuto la resistenza in Palestina: conquiste successive che sono iniziate con il tentativo di rivoluzione palestinese, la scelta della resistenza armata che ha adottato la prima e la seconda Intifada, fino a costringere alla ritirata l’esercito israeliano nel corso del totale ritiro dalla striscia di Gaza nel 2005, un ritiro incondizionato, non conseguente ad alcuna trattativa ne accordo e privo di alcun risultato politico, geografico o a livello di sicurezza. Quella è stata la prima grande (a livello geografico) vittoria sul campo di questo tipo. Il significato del fatto che la resistenza in Palestina sia stata la prima a costringere ad un ritiro israeliano, dovuto alla resistenza all’interno dei confini storici della Palestina, è molto importante a livello strategico nel processo di lotta tra noi e l’entità sionista. Per di più, la brillante fermezza del popolo palestinese in lotta e la sua resistenza a Gaza contro il nemico sionista nel 2008, sono una lezione per le generazioni a venire e un avvertimento per gli invasori e gli aggressori.

Se questa è stata l’efficienza della resistenza in Libano e Palestina, qual è stata l’efficienza della scelta dei negoziati e degli accordi? Quali sono gli esiti, gli interessi ed i risultati ottenuti dai negoziati in tutte le loro fasi e attraverso tutti gli accordi conclusi? Non si riducono forse ad una maggiore arroganza ed egemonia israeliana, e maggiori condizioni, interessi e conquiste a vantaggio di Israele?

Come abbiamo sottolineato il nostro sostegno permanente e fermo al popolo ed alla causa palestinese con i suoi dati storici, geografici e politici, così rimarchiamo definitivamente e decisamente il nostro sostegno e supporto a questo popolo ed ai movimenti di resistenza palestinesi ed alla loro lotta contro il progetto israeliano.

Quarto: I negoziati per un accordo

La nostra posizione nei confronti del processo di negoziazione e degli accordi prodotti dai negoziati di Madrid (l’“Accordo di Wadi ‘Araba”) con le sue appendici, degli “Accordi di Oslo” con le appendici e prima ancora dell’“Accordo di Camp David” con le sue appendici è sempre stata e sempre sarà quella di un rifiuto assoluto al principio stesso di un accordo con l’entità sionista che si basi sul riconoscimento della legittimità all’esistenza di questa entità e sulla rinuncia a suo favore delle terre che ha usurpato alla Palestina araba ed islamica.

Questa nostra posizione è una posizione finale, definitiva e permanente, che non è oggetto di negoziazione o ritiro, anche se il mondo intero dovesse riconoscere “Israele”.

Perciò, in nome della fratellanza e della responsabilità, ci appelliamo a tutte le autorità arabe perché si impegnino a rispettare le scelte del loro popolo, riconsiderando la scelta dei negoziati e rivedendo i risultati degli accordi conclusi con il nemico sionista, in modo da abbandonare in modo decisivo e definitivo il processo illusorio verso una soluzione di oppressione che viene falsamente chiamato “processo di pace”. In particolare coloro che hanno contrattato, credendo nel ruolo di partner o mediatori imparziali e giusti per il processo dei governi statunitensi succedutesi, hanno visto senza dubbio che questi sono venuti meno a tale ruolo, hanno esercitato pressioni su di loro o addirittura li hanno ricattati. Anche questa amministrazione statunitense ha dimostrato ostilità verso i loro popoli, le loro cause ed i loro interessi e si è schierata totalmente ed apertamente con il suo alleato strategico, l’entità sionista.

Per quanto riguarda l’entità sionista, con cui ritengono di poter fare pace, essa ha dimostrato in tutte le fasi dei negoziati che non cerca ne auspica la pace. Piuttosto, sta sfruttando i negoziati per imporre le sue condizioni, promuovere la sua posizione, ottenere i propri interessi e rompere l’ostilità e il blocco psicologico dei loro popoli verso di sé. Per conseguire ciò, mira ad una aperta normalizzazione ufficiale e pubblica, che renda possibile la convivenza naturale e la sua integrazione nel sistema regionale e la imponga come uno status quo nella regione, che quindi la dovrebbe accettare e dovrebbe riconoscere la sua legittimità all’esistenza, dopo averle lasciato le terre palestinesi che ha usurpato.

Perciò chiediamo, ci aspettiamo e ci auguriamo che tutti gli arabi e i musulmani, a livello ufficiale e pubblico, possano considerare nuovamente la Palestina e al-Quds (Gerusalemme) come la loro causa centrale, attraverso cui possano unirsi tutti ed impegnarsi a liberarla dalla abominevole ed oppressiva occupazione sionista. Ci auguriamo che espletino i loro obblighi religiosi, fraterni ed umani nei confronti dei loro santuari in Palestina e del suo popolo oppresso, che gli forniscano tutti i mezzi di sostegno per salvaguardare la fermezza del popolo palestinese, che gli consentano di proseguire nella sua resistenza e rifiutino e facciano fallire tutti i piani di normalizzazione con il nemico sionista e rispettino il diritto al ritorno per tutti i rifugiati palestinesi alle terre ed alle case da cui sono stati espulsi, rifiutino decisamente tutte le proposte alternative senza possibilità di accordi, risarcimenti o compensazioni, si attivino immediatamente per la revoca dell’assedio imposto al popolo palestinese ed in particolare dell’assedio totale sulla Striscia di Gaza e adottino la causa degli oltre 11 mila prigionieri nelle carceri israeliane e mettano in opera piani per liberarli.

Conclusione

Questi sono i nostri punti di vista e le nostre aspettative. Nel delinearli, abbiamo cercato di appellarci alla giustizia ed alla verità. Queste sono le nostre posizioni ed i nostri impegni. Abbiamo cercato, nel definirli, di essere delle persone leali, sincere e fiduciose nella giustizia, che parlano chiaro, difendono la giustizia e si sacrificano per ottenerla, fino al martirio. Noi non ci aspettiamo altro, nel farlo, che l’approvazione del nostro Creatore e Dio, il Signore dei Cieli e della Terra. Non ci aspettiamo che di migliorare il nostro popolo e la nostra nazione ed il loro benessere e la felicità in questo Mondo e nell’Aldilà.

Iddio sa che non lo abbiamo fatto per competere per il potere o andare in cerca di profitti mondani. Solo per rilanciare la giustizia e battere la menzogna, per difendere i nostri schiavi oppressi e diffondere la giustizia nella Sua terra, in cerca della Sua approvazione e cercando di avvicinarci a Lui. Per questo i nostri martiri sono stati onorati con il martirio e per questo andiamo avanti e continuiamo la nostra lotta e il nostro ğihād, e Lui ci ha promesso uno dei due lieto fine: la vittoria o essere onorati dalla riunione con Lui, tinti del nostro sangue.

La nostra promessa a Te, Nostro Signore, e a tutti i Tuoi schiavi oppressi è quella di essere sempre uomini e donne sinceri, che mantengono i loro giuramenti, ed attendono il loro compito fermamente e senza esitazioni.


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