Se da un lato il vertice di Palermo sulla crisi libica (a prescindere dalla confusa organizzazione e dai risultati pressoché nulli) ha avuto il “merito” di riportare alla ribalta, nel bene e nel male, la diplomazia italiana, dall’altro, paradossalmente, ha segnato proprio la definitiva sconfitta di quella “non linea” che dal 2011 in poi ha caratterizzato l’azione dei governi nazionali nel contesto del suddetto scenario.

 

Dall’aggressione congiunta tra forze NATO e Qatar alla Jamahiriyya guidata dal Colonnello Mu’ammar Gheddafi nel 2011, l’Italia, tra evidenti errori di valutazione, debolezze e subalternità geopolitica, ha perseguito una politica in totale contrasto con quello che è il suo interesse nazionale.

Nella prospettiva del nuovo “governo del cambiamento”, forte delle dichiarazioni di sostegno degli Stati Uniti su una presunta “cabina di regia congiunta nel teatro libico”, la conferenza di Palermo del 12/13 novembre avrebbe dovuto rovesciare questo stato di cose riportando l’Italia al centro della diplomazia internazionale come arbitro necessario per la risoluzione del conflitto.

Tuttavia, il vertice si è risolto nell’ennesima dimostrazione di impotenza (in linea con l’atteggiamento sempre più debole e meno lungimirante dei governi precedenti) di un apparato diplomatico reso incapace di reale autonomia di manovra da oltre settant’anni di egemonia militare e “culturale” atlantista.

L’assenza totale di pianificazione sul piano dell’interesse nazionale si è riflessa nell’organizzazione approssimativa del vertice, le cui finalità sono state addirittura decise in corso d’opera (tanto che la conferenza è stata trasformata in “conferenza di servizio”), e nell’incertezza sugli stessi partecipanti.

La spasmodica attesa sulla partecipazione o meno del generale Khalifa B. Haftar (l’uomo forte della Cirenaica) e la sua successiva presenza “informale”, all’infuori dei lavori della conferenza e solo per incontrare i leader dei Paesi vicini[1], ha sancito il tracollo della linea italiana nel Paese nordafricano; percepita, dagli stessi libici, come incapace di portare reali soluzioni.

L’invito esteso ai rappresentanti delle milizie gihadiste sostenute dal Qatar e lo stesso “pellegrinaggio economico” del Vice Premier e Ministro dell’Interno Matteo Salvini nella pragmatica monarchia wahhabita che ebbe un ruolo così determinante nella distruzione della Libia, non ha contribuito a mettere su un binario favorevole a quella che potrebbe essere definita come la “non linea” italiana i lavori della conferenza.

Questa “non linea” si è fondata nel corso degli ultimi sette anni sul rispetto del quadro diplomatico sancito dall’ONU, sul vittimismo di fronte all’usurpazione francese delle prerogative italiane di sfruttamento esclusivo delle risorse energetiche libiche e sull’incondizionato appoggio ad un governo, quello di Tripoli guidata da Fayez al-Serraj, che teoricamente dovrebbe amministrare le aree dove maggiori sono gli interessi italiani.

Tuttavia, il governo di Tripoli si è dimostrato incapace di controllare la stessa capitale, tanto che nei giorni della conferenza la Settima Brigata di Tarhuna, già protagonista degli scontri che destabilizzarono la regione a cavallo tra agosto e settembre, è riuscita ad avvicinarsi pericolosamente all’aeroporto della città ponendo una nuova seria minaccia al fragilissimo governo di Serraj[2].

Allo stesso tempo, non è da dimenticare che fino agli accordi di Skhirat del 2015, l’unico governo riconosciuto come legittimo dalla cosiddetta “Comunità Internazionale”era quel governo di Tobruk i cui rappresentanti a Palermo hanno lasciato trapelare il loro malcontento per non essere stati avvisati in anticipo sugli argomenti dei tavoli di discussione.

La Turchia, altro Stato non privo di responsabilità per l’attuale situazione di caos, ha abbandonato la conferenza per non essere stata invitata a partecipare all’incontro privato tra Haftar, Serraj ed il Primo Ministro Giuseppe Conte che ha portato alla foto di rito con la stretta di mano tra i due leader libici. Un presunto successo ben poco entusiasmante, se si considera che i due avevano fatto lo stesso a margine della conferenza di Parigi di maggio senza aver raggiunto, anche in quel caso, alcun risultato concreto.

Paradossalmente, la conferenza si è risolta in una vittoria su tutti i fronti proprio di Haftar (e dei suoi sostenitori a vario grado) che fino a qualche settimana fa veniva presentato dai sistemi di propaganda legati al nuovo governo italiano come una sorta di burattino nelle mani della Francia.

L’apertura al generale, in questo senso, corrisponde ad una sorta di tacita ammissione di fallimento che accresce la sua credibilità come unico personaggio capace di riportare stabilità nel complesso scenario libico.

Ancor più paradossalmente, gli Stati Uniti, protettori internazionali del governo giallo-verde, hanno mostrato una sostanziale ambiguità di fondo rispetto all’iniziativa italiana. Di fatto, se è vero che Haftar gode dell’appoggio di Egitto, Emirati Arabi Uniti ed in misura diversa di Russia (nemico geopolitico per eccellenza degli USA) e della Francia (al cui vertice vi è la corrente opposta del sionismo rispetto a quella al potere a Washington), è altrettanto vero che il generale è anche un uomo degli Stati Uniti.

Haftar, infatti, dopo la guerra tra Libia e Ciad negli anni ’80 del XX secolo, ha trascorso sotto l’egida della CIA, oltre venti anni di esilio negli Stati Uniti durante i quali ha addirittura ottenuto la cittadinanza americana. E non è da escludere che gli USA, ben consapevoli della fragilità del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli, in puro stile doppiogiochista, mirino a far valere l’amicizia dimostrata in passato nei confronti del generale per indirizzarlo verso il rispetto degli interessi geostrategici nordamericani nella regione o quanto meno per utilizzarlo nella prospettiva del mantenimento ad oltranza dell’attuale stato di anarchia.

Appare evidente che il presunto appoggio statunitense alla linea dell’Italia sia rivolto semplicemente all’ottenimento di qualche quota petrolifera ENI utile a garantire la progressiva penetrazione statunitense nel mercato energetico libico. Alla pari di quanto avvenne con l’Operazione Ajax in Iran del 1953, quando i britannici chiesero il soccorso degli USA per ristabilire i propri interessi messi in discussione dal governo nazionalista di Mossadeq, i nordamericani potrebbero sfruttare il loro soccorso (o presunto tale) all’Italia per spodestarla una volta per tutte dalla Libia come fecero, nel giro di pochi anni, con gli alleati britannici in Iran dopo la restaurazione del potere dello Shah.

Un ingresso prepotente degli Stati Uniti in Libia potrebbe essere ben più pericoloso per gli interessi italiani dei contratti già posti in essere tra la compagnia francese Total e la NOC – National Oil Company libica che, nel concreto, nonostante la pesante campagna mediatica volta alla stigmatizzazione del “nemico francese”, non vanno minimamente ad intaccare i contratti dalla durata pluridecennale dell’ENI con la medesima compagnia. 

Non sarebbe neanche la prima volta che “l’alleato” d’oltreoceano impedisca la difesa da parte dell’Italia dei propri interessi nazionali. Ad esempio, è arcinoto il coinvolgimento degli apparati di spionaggio sionisti e nordamericani sia nell’assassinio del dirigente ENI Enrico Mattei[3], sia in quello del politico democristiano Aldo Moro[4]: entrambi colpevoli di aver cercato di restituire all’Italia spazi, seppur ridotti, di reale sovranità.

É infatti impensabile che gli USA si disinteressino della Libia come, al contrario, sembrerebbe voler suggerire la retorica ufficiale di Washington. Soprattutto perché la Russia, altrettanto consapevole dell’importanza strategica della regione, a sua volta, attraverso la propria diplomazia e la controllata statale Rosneft, sta cercando di ricoprire un ruolo di primo piano nella stabilizzazione e ricostruzione della Libia che per decenni è stata, seppur a fasi alterne, un alleato fondamentale di Mosca[5].

La sconfitta in Siria, la rinnovata presenza russa in Libia e la costruzione di nuovi canali commerciali tra Mosca e l’Egitto, potrebbero infatti incrinare il dominio nordamericano nel Mediterraneo di cui la “sovranista” Italia rappresenta il pivot geopolitico di riferimento anche per portare a termine il piano di divisione del nemico economico: l’Unione europea.

Jean Thiriart riconobbe come il Terzo Reich perse la Seconda Guerra Mondiale a causa della “cecità geopolitica di Hitler” che trascurò il Mediterraneo[6]. Gli strateghi sionisti e nordamericani, al contrario, sanno perfettamente come il controllo di questo lago interno sia di fondamentale importanza per il mantenimento dell’egemonia talassocratica statunitense sul continente europeo.

Per questo gli USA non possono permettere che porzioni sempre crescenti di questo mare finiscano sotto diretta influenza russa. E non sorprende per nulla il fatto che il Regno filosionista del Marocco, – individuato da Thiriart come chiave di accesso al Mediterraneo in quanto il suo controllo da parte dell’Europa impedirebbe il rifornimento alla Sesta Flotta nordamericana[7] – sia rimasto immune dagli sconvolgimenti conosciuti con l’infausto nome di “primavere arabe”.

Dunque, gli USA non possono permettersi di veder vanificati gli sforzi derivati dalla distruzione della Jamahiriyya e dalla conseguente crisi. Quest’ultima si inscrive perfettamente all’interno di quel conflitto mondiale su più fronti, ma localizzato in dimensioni spaziali ridotte, che vede l’Occidente a guida nordamericana opporsi alle forze multipolari che hanno nell’asse Mosca-Pechino la direttrice geopolitica di riferimento.

L’assassinio del colonnello Gheddafi ha infatti eliminato un personaggio politico che solo qualche anno prima ebbe modo di affermare: “Nuovo ordine mondiale significa che ebrei e cristiani controllano i musulmani; se possono fare ciò, domani eserciteranno il loro dominio anche sul confucianesimo e sulle forme tradizionali dell’India, della Cina e del Giappone (…) Oggi cristiani ed ebrei sostengono che l’Occidente, dopo avere distrutto il comunismo, deve distruggere l’Islam e il confucianesimo. (…) Noi ci schieriamo dalla parte del confucianesimo; alleandoci con esso e combattendo al suo fianco in un unico fronte internazionale, sconfiggeremo il nostro nemico comune. Perciò, in quanto musulmani, aiuteremo la Cina nella lotta contro il nemico comune”[8].


NOTE

[1]Libia: Haftar gela l’Italia, non parteciperà ai lavori della conferenza di Palermo, su www.agi.it.

[2]Sources: Seventh Brigade Movements Reported Near Tripoli Airport, su www.addresslybia.com.

[3]Si veda a tal proposito C. Mutti, Chi ha voluto la morte di Mattei, “L’Umanità”, 6-7 marzo 1994, su www.claudiomutti.com.

[4]V. Vinciguerra, Il movente, su www.ivoltidigiano.tumblr.com.

[5]Medvedev: Russia ready to help Libya retore its economic stability, su www.libyanexpress.com.

[6]J. Thiriart, L’impero euro-sovietico da Vladivostock a Dublino, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2018, p. 44.

[7]Ibidem, p. 38.

[8]Contenuto in C. Mutti, Pound contra Huntington, “Eurasia rivista di studi geopolitici” 1/ 2006 (gennaio-marzo 2006)


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).