Il pugno duro delle forze dell’ordine dietro direttiva del primo ministro Recep Tayyip Erdogan non si è rivelato sufficiente a sedare i disordini scoppiati inizialmente a Istanbul ed Ankara e poi diffusisi in diverse zone della Turchia. Nonostante l’intero comparto informativo di massa tenda insistentemente ad individuare la radice delle proteste nella sostituzione di un parco con un gigantesco centro commerciale, le ragioni che stanno alla base dei subbugli che hanno infiammato buona parte della Turchia sono molteplici e ben più profonde. Una volta divenuto ministro degli Esteri, il professor Ahmet Davutoglu ha avuto la possibilità di applicare la sua ambiziosissima dottrina della “profondità strategica” turca, orientata a consolidare l’influenza di Ankara in gran parte del pianeta, attraverso le leve etnica e confessionale. Tale progetto si sarebbe infatti dovuto dipanare attraverso le due direttrici “panturca” e “panislamica”, in modo da estendere l’area di influenza del Paese dal Marocco all’Indonesia. In un primo momento, la “profondità strategica” turca appariva fondata sulla necessità di avere “zero problemi coi vicini”, allo scopo di creare le condizione adatte ad assicurare l’intensificazione dei rapporti politici, economici e culturali della Turchia con tutte le nazioni limitrofe. La “profondità strategica” che Davutoglu conferisce al proprio Paese sarebbe tuttavia limitata di fatto dai vincoli di fedeltà all’Alleanza Atlantica che durante la Guerra Fredda hanno attribuito alla Turchia un ruolo determinate nel contenimento dell’espansione sovietica verso l’Europa e il Vicino Oriente. La caduta dell’Unione Sovietica ha disintegrato questa condizione fondamentale, permettendo alla Turchia di emergere come reale, autentico “attore geostrategico”. «La posizione geopolitica – afferma Davutoglu – non dovrebbe più servire solo a proteggere i confini nazionali ma a trasformare in globale l’influenza locale e ad accrescere gradualmente l’apertura internazionale. La condizione prioritaria per evolvere dalla mera protezione dei confini nazionali all’esercizio di un’influenza continentale e mondiale, consiste nell’investire la nostra collocazione geopolitica nella dinamica internazionale delle relazioni economiche, politiche e di sicurezza» (1).

I piani di Erdogan e Davutoglu sono però stati seriamente messi in discussione dall’esercito turco, storico garante dell’atlantismo fin dal 1952, anno dell’entrata del paese nella NATO. Nel 2003 il parlamento di Ankara, facendosi interprete della schiacciante volontà popolazione, negò l’usufrutto del territorio turco come base di dispiegamento per le sortite dell’aviazione statunitense verso l’Iraq, suscitando l’ira di Paul Wolfowitz che redarguì l’esercito turco per non aver effettuato un ennesimo colpo di Stato che rovesciasse tale decisione. L’episodio si inserisce in un elenco sterminato di golpe politici attuati dalle forze armate a danno delle istituzioni politiche di Ankara. Erdogan, conscio di tutto ciò, ha iniziato ad erodere lo strapotere dell’esercito indicendo, il 12 settembre 2010, un referendum che sancì una radicale modifica delle due più importanti istituzioni giudiziarie del Paese (anch’esse coinvolte in numerose operazioni eversive a danno delle istituzioni politiche) e il ridimensionamento drastico delle funzioni e dei poteri dell’esercito. Il 58% dei votanti concesse il proprio appoggio al governo di Ankara, che applicò immediatamente le riforme e dispose numerose epurazioni dei vertici dell’esercito (venne scoperto e vanificato anche un tentato colpo di Stato ai suoi danni).

L’Islam politico di cui personaggi istituzionali di grande rilievo come il Presidente della Repubblica Abdullah Gul sono esponenti si rifà alle teorie di Fethullah Gulen, che dall’enclave turca di Erzurum emigrò negli Stati Uniti in seguito al colpo di Stato dell’esercito del 1997. Dal suo autoesilio in Pennsylvania, Gulen si è comunque ritagliato un ruolo cruciale, che gli consente di esercitare una forte influenza sull’esecutivo di Ankara. Proprio negli Stati Uniti, Gulen ha fondato l’organizzazione Hizmet (“servizio”), che è riuscita ad inaugurare oltre 130 scuole private in 25 differenti Stati americani in seguito ad un accordo con le autorità locali, che si sono impegnate a contribuire al finanziamento degli istituti con denaro pubblico. Questa organizzazione, attiva anche in Germania e in un centinaio di altri Paesi, propugna una versione riveduta e corretta di Islam, volta a rendere tale religione compatibile con i principi liberali che dominano in Occidente. Fortemente sospettata di godere del supporto attivo di una parte consistente degli apparati di sicurezza e intelligence statunitensi, Hizmet è stata bandita da tutti i Paesi aderenti alla Comunità degli Stati Indipendenti nel 2006. Anche se Erdogan non può essere considerato un “seguace” di Gulen, l’influenza che Hizmet ha esercitato sul governo turco è palese, specialmente alla luce del processo di islamizzazione della società. La coloritura musulmana che il primo ministro ha impresso alle misure ordinarie (restrizioni sugli alcoolici, ad esempio) e alle decisioni internazionali è un dato di fatto che pochi oseranno mettere in discussione. Ankara mira in tutta evidenza a imporsi quale punto di riferimento della sterminata galassia sunnita, come dimostra la “appropriazione” della causa palestinese e il successivo strappo (apparente) con Israele, inaugurato in occasione del World Economic Forum di Davos del gennaio 2009 (quando Erdogan chiamò pubblicamente sul banco degli imputati niente meno che il Presidente israeliano Shimon Peres per rispondere pubblicamente dell’eccidio di Gaza avvenuto tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009), allargatosi con l’oscura vicenda della Mavi Marmara (presa da’assalto dalle forze israeliane in acque internazionali mentre si accingeva a raggiungere i territori palestinesi per portare cibo, medicinali, materiali prefabbricati ecc.) e divenuto definitivo con l’espulsione dell’ambasciatore israeliano.

Come ritorsione, Israele riattivò i propri collegamenti con i terroristi del PKK, i quali sferrarono uno dei più sanguinosi attacchi nel corso della notte a cavallo tra il 18 e il 19 ottobre 2011, quando i suoi miliziani presero di mira un contingente turco schierato lungo la frontiera irachena, presso la regione di Hakkari, provocando la morte di oltre 25 soldati. Per inseguire e stanare gli aggressori in ritirata, Ankara inviò immediatamente un nucleo di truppe speciali, che penetrarono in territorio iracheno grazie alla copertura degli elicotteri da guerra, mentre l’aviazione martellava incessantemente le roccaforti del PKK dislocate alle pendici del monte Kandil, nella regione settentrionale del Kurdistan iracheno dominata dalla città di Kirkuk

In compenso, la rottura con Israele suscitò il plauso di gran parte delle popolazioni arabe e, più in generale, della maggior parte del mondo musulmano. La deriva islamica che potrebbe scaturire dalla strategia del governo di Ankara è probabilmente il più grande timore delle forze armate e della magistratura, che da decenni si ergono a garanti della laicità dello Stato. È probabile che la contrarietà alla linea politica seguita da Erdogan sia alla base del fallito colpo di Stato del febbraio 2010, che portò all’incarcerazione del capo di stato maggiore dell’esercito Ergin Saygun, del Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica Ibrahim Firtina e del Capo di Stato Maggiore della marina Ozden Ornek. Tutti gli alti ufficiali in questioni erano connessi ad una potente ed oscura setta kemalista ed atlantista Ergenekon, il pensatoio in cui venivano escogitati i piani “Martello” e “Gabbia”. Dalle indagini condotte su questa organizzazione emersero prove schiaccianti in relazione al coinvolgimento di giornalisti, Generali in pensione, Ammiragli in servizio e ufficiali di vario grado intenti a pianificare attentati (a moschee e monumenti in tutta la Turchia) e persino l’abbattimento di aerei civili. E probabile che Ergenekon costituisca il fondamento della lunga catena di colpi di Stato che per decenni hanno indirizzato la politica turca. Per sradicare questa minaccia, Erdogan ha adottato una prassi estremamente autoritaria, che ha comportato un’ondata di arresti indiscriminati, effettuati molto spesso in assenza di prove tangibili o sulla base di semplici “sospetti”.

Ciononostante, la Turchia aveva cominciato ad intensificare notevolmente i rapporti con il vicinato. Da quando il partito AKP era salito al potere, il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva intrapreso un processo distensivo nei riguardi della Siria che è andato ben oltre la semplice riappacificazione, da cui sono scaturiti succulenti accordi economici, l’abolizione delle imposte doganali e l’applicazione di incentivi sugli investimenti bilaterali. Nel corso degli ultimi anni le relazioni commerciali tra Turchia e Siria erano cresciute esponenzialmente, raggiungendo la considerevole cifra di 4 miliardi di dollari nel 2009, anno in cui era stata stabilita la libera circolazione di cittadini tra i due paesi.

Con l’avvento delle cosiddette “primavere arabe”, Erdogan ha ritenuto che dinnanzi a lui si presentasse un’occasione irripetibile. Dopo un periodo di moderazione e indecisione (mostrata in particolar modo in riferimento alla Libia), il primo ministro turco scelse di cavalcare la “tigre islamica”, non indugiando a gettare all’aria i notevoli risultati capitalizzati nel corso degli anni precedenti per fornire il proprio aperto sostegno ai “ribelli” siriani, alleandosi di fatto con il Qatar, l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico.

Nell’estate del 2011 la Turchia ospitò la “Conferenza per la liberazione nazionale della Siria”, da cui nacque (sull’onda dell’esperienza libica) il Consiglio Nazionale di Transizione siriano. Da Istanbul (sede della Conferenza) il Presidente Abdullah Gul annunciò che «La Turchia non si fida più del regime del presidente siriano Bashar al-Assad, che prosegue nella sua sanguinosa repressione delle manifestazioni di protesta» (2), aggiungendo che la situazione in Siria «Ha ormai raggiunto un tale livello che tutto è infimo e troppo tardivo. Non abbiamo più fiducia» (3).

L’aggressività nei confronti del regime di Damasco è tuttavia dovuta anche al fatto che nel 2011 Siria, Iran e Iraq avevano sottoscritto un accordo finalizzato alla costruzione del cosiddetto “gasdotto islamico”, che entro il 2016, dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars al Mediterraneo, attraversando il territorio siriano. La Siria potrebbe quindi divenire un hub di corridoi energetici alternativo alla Turchia, le cui condutture sono controllate da compagnie statunitensi ed europee.

Contestualmente a tale inversione di rotta,  Erdogan cominciò ad inasprire il tono della retorica antisiriana e a trasformare il confine meridionale che separa la Turchia dalla Siria in un gigantesco campo di addestramento per una miriade di gruppi islamici provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri Paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen, gli ordini venivano impartiti in arabo, per poi essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Dotati di passaporti falsi, i combattenti sono affluiti nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, ove la CIA ha aperto centri di formazione militare. Gli armamenti e i finanziamenti vengono forniti soprattutto da Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, inviano anche forze speciali. Il comando delle operazioni è situato a bordo di navi NATO nel porto di Alessandretta, mentre sul monte Cassius (posto a ridosso della Siria) la NATO ha costruito una nuova base di spionaggio elettronico, che si aggiunge a quella radar di Kisecik e a quella aerea di Incirlik. A Istanbul è stato aperto un centro di propaganda attraverso il quale i “dissidenti” siriani diffondono le notizie e i video sulle reti satellitari.

La tensione tra Turchia e Siria ha poi raggiunto picchi particolarmente alti, specialmente in seguito alla oscura vicenda del caccia turco abbattuto dalla contraerea dopo aver violato lo spazio aereo siriano, per il quale Ankara ha evocato l’articolo 5 dello statuto della NATO, che impegna ad assistere con la forza armata il Paese membro attaccato. A quel punto, ben 129 deputati (un quarto) hanno espresso la propria contrarietà alla guerra, mentre migliaia di dimostranti sono scesi in piazza inneggiando allo slogan “No all’intervento imperialista in Siria”. Da allora i nodi sono cominciati a venire progressivamente al pettine; all’infiammarsi dell’irrisolta “questione curda”, al rancore sotterraneo maturato tra le forze armate e parte consistente della magistratura e ai malumori delle componenti più “laiche” e conservatrici della società (come i “Lupi Grigi”), le quali rifiutano – così come le forze armate e parte della magistratura – di accettare ogni sia pur cauto e moderato provvedimento di apparente islamizzazione, è andato a sommarsi il forte rallentamento dell’economia (con una crescita che è passata dal 9 al 2,2%), causato in buona parte dalla rottura delle relazioni con la Siria e dall’isolamento regionale imputabile alla politica aggressiva condotta da Erdogan. Tale crescita, per di più, è caratterizzata da poderose campagne di privatizzazione e da una febbre edilizia che ha coperto di cemento anche le aree boschive del Bosforo e delle regioni più interne. Seguendo il mito della globalizzazione, Erdogan ha fatto approvare una legge che elimina la protezione giuridica ai parchi nazionali turchi, in seguito alla quale ha progressivamente trasformato interi quartieri delle principali città costiere in giganteschi villaggi turistici nuovi di zecca, obbligando i vecchi residenti a trasferirsi verso le periferie. Interi rioni risalenti agli inizi del ’900 sono stati “ristrutturati” o demoliti per far posto a nuove strutture atte a “favorire il turismo”. Ordinando l’abbattimento di 600 alberi nell’ambito di un progetto volto a sostituire un parco con un enorme centro commerciale (sul quale aleggia un forte sospetto di tangenti, alla luce del fatto che il sindaco di Istanbul, esponente dell’AKP, è proprietario di una catena di negozi ed ha già ottenuto i diritti per installare in tale centro i propri punti vendita, senza contare che il genero di Erdogan si è aggiudicato il contratto per lo sviluppo immobiliare dell’intera area), ha manifestato con estrema chiarezza l’intenzione di trasformare una città millenaria come Istanbul in una delle tante megalopoli ultra-pacchiane stile Doha. Istanbul (come diverse altre città turche) è costellata di rovine greche, romane, bizantine, ottomane, ortodosse e islamiche che rischiano di essere sostituite da giganteschi centri commerciali ed edifici moderni commissionati alle più celebri stelle occidentali dell’architettura. Il che non può che suscitare un forte malcontento in seno alla popolazione turca, così come la politica imperialista – e non imperiale – impropriamente definita “neo-ottomana”. La “Sublime Porta” era riuscita a inglobare e far convivere decine di etnie e popoli diversi, mentre l’attuale Turchia, con la sua alleanza di fatto con Qatar e Arabia Saudita e il suo appoggio ai guerriglieri islamisti più feroci, sta facendo l’esatto contrario: sta promuovendo il settarismo e allargando la “fitna”, la faglia che divide le molteplici “placche” religiose di cui è formato l’Islam. E a favorire questo processo è il primo ministro di un Paese costituito a sua volta da una notevole gamma di etnie e religioni diverse (50% circa sunniti, 20% alawiti, 20% curdi – principalmente sunniti –, il 10% appartiene ad altre minoranze). Non è quindi un caso che, secondo i sondaggi, ben 70 turchi su 100 disapprovino la politica aggressiva di Erdogan nei confronti della Siria. Thierry Meyssan ritiene a questo proposito che Erdogan abbia adottato il programma della Fratellanza Musulmana, il movimento finanziato e sostenuto dal Qatar che dall’Egitto alla Siria alla Giordania propugna una visione di Islam compatibile con gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. «Mostrando la sua vera natura – scrive Meyssan – (di Fratello Musulmano sotto vesti ottomane) il governo Erdogan s’è tagliato i ponti con la sua popolazione. Solo una parte minoritaria di sunniti può riconoscersi nel programma ipocrita e retrogrado dei Fratelli Musulmani» (4).

Per integrare completamente la Turchia nella strategia statunitense, vanno inoltre ricordati i memo, pubblicati nei primi mesi del 2012, attraverso cui i colossi di Wall Street JP Morgan Chase e Goldman Sachs consigliavano agli investitori di vendere azioni turche, a causa della perdita di valore della lira turca, del deficit commerciale e, più in generale, della imminente frenata dell’economia dovuta alle ripercussioni generate dalla recessione dell’Eurozona sulla bilancia dei pagamenti turca. Come osserva Aldo Braccio: «La Turchia è un obiettivo importante della speculazione finanziaria: una nazione in crescita, dotata di grande liquidità, che in passato (in particolare negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso) ha dimostrato una spiccata propensione all’indebitamento nei confronti del Fondo Monetario Internazionale ma che ora sembra aver cambiato strada. Una nazione che – per la sua importante e delicata posizione geopolitica – va controllata e messa sotto tutela, “globalizzandola” e sradicandone le pretese di sovranità; la tutela di tipo politico – ben visibile nei casi delle emergenze libica e siriana, in cui la Turchia si è conformata ai dettami occidentali, a dispetto di un’opinione pubblica alquanto perplessa – va completata con la tutela di tipo economico/finanziario, e in questo senso gli appelli provenienti dal mondo della speculazione internazionale si moltiplicano» (5).

Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan si trova quindi ad affrontare un’ondata di insoddisfazione e malcontento destinata molto probabilmente a travolgerlo, specialmente dopo l’ulteriore crescendo di violenza da parte delle forze dell’ordine, le quali, oltre a provocare la morte di diversi cittadini turchi, pare siano giunte a spruzzare sui manifestanti sostanze chimiche particolarmente pericolose. La deriva autoritaria, sommata ai fattori già indicati, ha accentuato lo scollamento tra la popolazione turca e il partito AKP – come sottolineato da Meyssan – e alimentato i malumori che serpeggiano in seno alle forze armate. Nonostante i toni pacati impiegati dalle diplomazie occidentali per commentare l’accaduto, è possibile che il primo ministro turco abbia perso buona parte degli appoggi internazionali che fino ad ora avevano mantenuto saldo il sui posto. La stessa Europa guarda con sempre maggior sospetto la Turchia, il cui ingresso nell’Unione Europea appare sempre più un miraggio (nonostante la stessa Turchia sia molto più “fredda” di qualche anno fa a questo riguardo) Erdogan si trova pertanto sull’orlo del baratro.

 

 

 

NOTE

1. Cit. in Aldo Braccio, Turchia, ponte d’Eurasia, Fuoco Edizioni, Roma 2010.

2. “ANSA”, 29 agosto 2011.

3. Ibidem.

4.  Thierry Meyssan, Soulèvement contre le Frère Erdogan, http://www.voltairenet.org/article178820.html.

5. Aldo Braccio, Anche la Turchia nel mirino delle banche d’affari, http://www.eurasia-rivista.org/anche-la-turchia-nel-mirino-delle-banche-daffari/14548/.


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