La cosiddetta “pandemia di coronavirus” ha indotto taluni a rievocare le vere e proprie epidemie pestilenziali del passato, soprattutto quelle di cui alcune celebri opere letterarie ci hanno trasmesso il ricordo. Tra le pestilenze dell’antichità è stata menzionata l’epidemia (di tifo o di vaiolo) nota come “peste di Atene”, descritta da Tucidide nelle pagine della Guerra del Peloponneso che questo numero di “Eurasia” offre al lettore in una nuova traduzione.

Non sembra invece che la pandemia attuale abbia ridestato il ricordo di altri analoghi eventi appartenenti più che altro alla dimensione mitica di cui si nutrirono l’epica e la tragedia greche, eventi che, proprio perché mitici e quindi pregni di un significato “teologico”, ebbero nell’antico mondo greco un rilievo pari a quello dei fatti storici, se non superiore. Si pensi, ad esempio, alla pestilenza seminata da Apollo nel campo degli Achei per punire la hybris di Agamennone[1]; o alla peste di Tebe, manifestazione di una “divinità ignifera” (pyrfóros theós)[2] richiamata dall’impurità (míasma)[3] di un sovrano inconsapevolmente parricida e incestuoso; o, ancora, alla peste che infuriò nella primordiale Atene di Egeo e di Teseo quando Minosse pregò Zeus di vendicare la morte di suo figlio Androgeo[4].

Se queste epidemie mitiche possono fornire utili elementi di riflessione circa il processo di secolarizzazione del pensiero europeo, la peste scoppiata ad Atene nell’estate del 430 (attribuita da Tucidide ai veleni gettati dagli Spartani nelle cisterne del porto del Pireo) può rivestire un certo interesse da un punto di vista politico e, lato sensu, anche geopolitico. Questo perché essa non solo coinvolse e sconvolse l’ordine sociale e morale della polis, ma anche perché condizionò l’andamento della guerra contro Sparta e i suoi alleati: l’esercito ateniese inviato a Potidea fu infatti costretto a ritirarsi, dal momento che 1500 soldati su 4000 furono falcidiati dal morbo. Inoltre il trauma causato dall’epidemia mise a rischio il rapporto fra il demos e il suo capo (“mettevano Pericle in stato d’accusa per averli persuasi a fare la guerra”[5]) e indusse gli Ateniesi a compiere un tentativo, che risultò vano, di porre termine al conflitto. Fu solo l’impegno di Pericle a dissuadere gli Ateniesi dal fare marcia indietro e a convincerli a proseguire la guerra.

Ma Tucidide non ci parla soltanto degli effetti che un’epidemia può produrre sul piano politico e geopolitico. Secondo lo storico ateniese la guerra del Peloponneso scoppiò allorché Sparta, intimorita dalla minaccia rappresentata dall’emergente potenza di Atene, cadde nella trappola e diede inizio al conflitto che dissanguò la Grecia. Ora, è stato proprio Xi Jinping, capo della potenza emergente del nostro secolo, a citare la “trappola di Tucidide”, immagine coniata da Graham Tillett Allison Jr. nel descrivere la tendenza di una potenza dominante a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente. Già nel 2013, infatti, il presidente cinese disse ad un gruppo di visitatori occidentali: “Dobbiamo tutti lavorare insieme per evitare gli scenari evocati da Tucidide”.

* * *

Qualora fosse possibile tentare un qualche confronto tra le circostanze di allora e quelle di oggi, si potrebbe notare che l’evento pandemico attuale, diversamente dalla peste di Atene, non esercita affatto un ruolo di “forza frenante” sul rapporto conflittuale tra le potenze rivali odierne; anzi, esso agisce se mai come un autentico “acceleratore”, se proprio vogliamo utilizzare i concetti schmittiani di Aufhalter e di Verzögener.

In particolare, a subire una notevole accelerazione è il corso di quella che ormai può essere chiamata la “guerra fredda” tra Stati Uniti e Cina. Il 12 marzo 2020 il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Zhao Lijian, ha accusato apertamente gli Stati Uniti di essere all’origine dell’epidemia, affermando che “il virus potrebbe essere stato portato a Wuhan da un soldato americano durante i Giochi Militari”, che si erano svolti dal 18 al 27 ottobre 2019 e avevano visto arrivare una squadra di 300 atleti militari statunitensi su 9300 provenienti da 140 nazioni diverse.

L’accusa non è del tutto inverosimile, se si considera che in passato gli Statunitensi non si sono astenuti dal fare ricorso alle armi biologiche[6]. E non soltanto nella guerra di Corea, quando un comitato scientifico internazionale accertò che Coreani e Cinesi “furono oggetto dell’impiego di armi biologiche, usate da unità delle forze armate degli Stati Uniti d’America che si sono servite di una grande varietà di metodi a tale scopo”[7]; ciò avvenne anche in seguito, ad esempio nel 1981, quando venne diffusa a Cuba l’epidemia di dengue. Crimini di questo genere, d’altronde, contrassegnano in modo eloquente le origini stesse della storia degli Stati Uniti: nel XVII secolo i coloni puritani “avevano intuito la debolezza biologica degli Indiani e avevano cominciato a distribuire loro, negli scambi, le coperte infette di vaiolo raccolte negli ospedali durante le ricorrenti epidemie; il vaiolo era infatti endemico nelle colonie, portato dall’Europa”[8].

Il generale Qiao Liang, uno dei due autori di un libro famoso, Guerra senza limiti[9], in una recente intervista ha dato prova di un garbo esemplare, limitandosi a citare il caso della cosiddetta “spagnola” e quello dell’AIDS. “Quando gli Stati Uniti sono forti – ha detto il generale – chi può accusarli della diffusione dell’AIDS? Nessuno ha accusato gli Stati Uniti del fatto che le forze di spedizione americane portarono in Europa l’epidemia che era scoppiata negli Stati Uniti verso la fine della Prima Guerra Mondiale e che poi fu chiamata ‘spagnola’. Perché nessuno mise in causa gli Stati Uniti? Per la forza di cui gli Stati Uniti disponevano a quell’epoca”[10].

Per quanto riguarda il coronavirus, è stato proprio un ex funzionario della US Central Intelligence Agency, Philip Giraldi, ad ipotizzare che esso sia stato creato in laboratorio per essere usato come agente di guerra biologica contro la Cina e l’Iran, i due paesi aggrediti per primi dall’epidemia.

Tale ipotesi appare più che legittima, poiché, secondo un’inchiesta della giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva pubblicata il 12 settembre 2018, i laboratori dell’esercito statunitense producono regolarmente “armi biologiche” facili da usare e fornite di un enorme potere devastante, nonostante la Convenzione delle Nazioni Unite metta al bando la guerra batteriologica. Questi laboratori militari, finanziati dall’Agenzia per la Riduzione delle Minacce alla Difesa (Defense Threat Reduction Agency, DTRA) nell’ambito di un programma da due miliardi e cento milioni di dollari, sono disseminati in venticinque paesi, tra cui l’Ucraina e la Georgia[11]

Non deve perciò destare eccessivo stupore la seguente dichiarazione di Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri della Federazione Russa: “Mosca è a conoscenza del programma americano. Secondo le informazioni disponibili, rappresentanti del Pentagono hanno recentemente visitato il centro di ricerche Richard Lugar, nei pressi di Tbilisi, ed hanno proposto alle autorità georgiane di ampliare la gamma delle ricerche”. La signora Zakharova ha anche affermato: “Non si può escludere che in questo tipo di laboratorio ed in quelli ubicati nei paesi terzi gli americani svolgano il lavoro di ricerca per creare e modificare vari agenti patogeni di malattie pericolose, anche a fini militari”[12]. D’altronde il Memorial Battelle Institute, uno degli enti privati coinvolti nelle attività del laboratorio georgiano, vanta un curriculum di prim’ordine, avendo lavorato con undici regolari contratti ai programmi del Pentagono sulle armi biologiche.

Da parte sua, il presidente Donald Trump ha definito il coronavirus come “il virus cinese” (“the Chinese virus”), cosicché la tesi secondo cui esso sarebbe stato creato dai Cinesi stessi è uscita dai circuiti complottisti della rete informatica ed ha acquisito legittimità, fino a diventare la versione più accreditata nel mondo occidentale. Diffusa in Asia da Radio Free Asia (emittente controllata dal Dipartimento di Stato USA), la tesi americana è stata simultaneamente sostenuta in Europa dai giornali del gruppo Springer (notoriamente legato al KKR Global Institute diretto da David Petraeus, 23° direttore della CIA). Il quotidiano-spazzatura fondato dallo stesso Axel Springer, “Bild”, ha usato i toni volgari ed aggressivi che gli sono consueti, definendo Xi Jinping “un rischio per il mondo”, accusando la Cina di “imperialismo” e invitando il governo tedesco a chiedere a Pechino 165 miliardi a titolo di riparazione.

In seguito, la tesi del “virus cinese” è stata ulteriormente ribadita da Mike Pompeo, il quale, intervistato il 3 maggio dalla Abc, ha dichiarato: “Ci sono numerose prove sul fatto che il coronavirus arrivi dal laboratorio di virologia di Wuhan”. Parole, queste, che rivelano la loro attendibilità se interpretate alla luce di quest’altra dichiarazione dello stesso segretario di Stato: “Io sono stato direttore della CIA. Noi mentivamo, ingannavamo, rubavamo. Avevamo interi corsi di addestramento”[13]. Infine, con un grazioso cinguettio del 13 maggio, Donald Trump è passato dal “virus cinese” alla “peste cinese” (“the plague from China”).

Il presidente Trump non ha fatto altro che esasperare quell’ostilità anticinese che nella politica estera statunitense risale come minimo alla seconda presidenza Obama. Infatti, al di là delle divergenze secondarie esistenti tra le fazioni del potere statunitense, il timore di Washington è che molti paesi, e non solo in Africa ed in Asia, vedano nella Cina un interlocutore più credibile degli Stati Uniti e dei loro “alleati” occidentali. D’altronde, commenta un analista francese, è “come se un sistema di vasi comunicanti trasfondesse l’energia di un Occidente malridotto verso la potenza emergente. Da questo punto di vista, la crisi del Covid-19 accelera la transizione mondiale”[14].

La crisi sanitaria, dunque, sta affrettando quel processo che, se da un lato ha fatto della Cina un avversario geopolitico dell’imperialismo statunitense in Asia e in Africa (e, col progetto della nuova Via della Seta, un temibile rivale degli USA anche in Europa), dall’altro ha indotto gli Stati Uniti a passare da una politica di “contenimento” alla creazione di un “arco di crisi” per ostacolare il progetto geoeconomico cinese.

Il ruolo di acceleratore svolto dall’epidemia di coronavirus è stato riconosciuto dal quasi centenario Henry Kissinger, il quale ha rilanciato quel tema messianico che si trova enunciato sullo stemma degli USA e sulla banconota da un dollaro con le parole novus ordo seclorum. “Gli USA – ha scritto sul “Wall Street Journal” l’ex segretario di Stato – devono lavorare urgentemente per pianificare una nuova era (…) Quando la pandemia di Covid-19 finirà, si vedrà che le istituzioni in molti paesi hanno fallito. La realtà è che il mondo non sarà più lo stesso dopo il coronavirus”[15].

“Il mondo non sarà più quello di prima”: lo stesso concetto venne ripetuto in maniera ossessiva dopo il crollo delle Torri Gemelle, l’evento acceleratore al quale seguirono l’invasione dell’Afghanistan e la distruzione dell’Iraq.

“Il prossimo scontro – disse a quell’epoca il sinologo Lionello Lanciotti – sarà tra gli Stati Uniti e la Cina”[16]. In tal caso, gli Stati Uniti avrebbero scelto l’avversario sbagliato. Non lo afferma soltanto il generale Qiao Liang[17]; un avvertimento analogo diede, già quarant’anni fa, un ex generale della NATO. “I tentativi di intrusione economica o militare in Cina non possono ottenere nulla, perché la sua estensione è troppo vasta. La Cina è di un’altra razza e di una cultura antica, di gran lunga più antica. Essa ha accumulato tutta l’esperienza della storia mondiale e resiste ad ogni trasformazione. La Cina è inattaccabile”[18].


NOTE

[1] Omero, Iliade, I, 44-53.

[2] Sofocle, Edipo Re, 27.

[3] Sofocle, Edipo Re, 97.

[4] Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, 3.15.7-8.

[5] Tucidide, II, 59, 2.

[6] Mauro Pasquinelli, Il libro nero degli Stati Uniti d’America, Massari editore, Bolsena 2003.

[7] Gordon Poole, La Sars e gli esperimenti USA, “Guerre & Pace”, maggio 2003.

[8] John Kleeves, Un paese pericoloso. Storia non romanzata degli Stati Uniti d’America, Società Editrice Barbarossa, Cusano Milanino 1999, p. 221.

[9] Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001.

[10] La Chine dominera le monde. Entretien avec le Général Qiao Liang, 7 maggio 2020, www.revueconflits.com

[11] Filippine, Vietnam, Laos, Myanmar, Cambogia, Malaysia, Pakistan, Afghanistan, Uzbekistan, Kazakhstan, Azerbaigian, Georgia, Ucraina, Iraq, Giordania, Kenya, Uganda, Tanzania, Sudafrica, Camerun, Costa d’Avorio, Liberia, Sierra Leone, Guinea, Senegal.

[12] Rusia revela: EEUU ofreció a Georgia estudios biológicos militares, www.hispantv.com

[13] “I was the CIA director. We lied, we cheated, we stole. We had entire training courses. It reminds you of the glory of the American experiment” www.youtube.com/watch?v=LAYJatVZm50

[14] Bruno Guigue explique l’avalanche de propagande occidentale contre la Chine, www.tunisiefocus.com

[15] Henry A. Kissinger, The Coronavirus Pandemic Will Forever Alter the World Order, “Wall Street Journal”, 3 Aprile 20120.

[16] Lionello Lanciotti, Dove va la Cina?, Settimo Sigillo, Roma 2005, p. 28.

[17] Qiao Liang, La grande strategia cinese, “Limes”, 1 luglio 2015.

[18] Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Kurt Vowinckel, Berg am See 1981.


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Claudio Mutti, antichista di formazione, ha svolto attività didattica e di ricerca presso lo Studio di Filologia Ugrofinnica dell’Università di Bologna. Successivamente ha insegnato latino e greco nei licei. Ha pubblicato qualche centinaio di articoli in italiano e in altre lingue. Nel 1978 ha fondato le Edizioni all'insegna del Veltro, che hanno in catalogo oltre un centinaio di titoli. Dirige il trimestrale “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. Tra i suoi libri più recenti: A oriente di Roma e di Berlino (2003), Imperium. Epifanie dell’idea di impero (2005), L’unità dell’Eurasia (2008), Gentes. Popoli, territori, miti (2010), Esploratori del continente (2011), A domanda risponde (2013), Democrazia e talassocrazia (2014), Saturnia regna (2015).