Anche quest’anno si è tenuta a New York, alla fine di settembre, l’Assemblea dell’ONU (67esima edizione). Erano presenti almeno 160 delegazioni, fra cui circa 120 Capi di Stato e di Governo che si sono confrontati in una settimana di intensi lavori conclusisi il 1 ottobre.

Presente al Palazzo di Vetro per l’apertura del dibattito generale anche Mario Monti, che ha parlato della crisi economica e dell’instabilità internazionale,  mostrandosi ottimista sul futuro: “L’Italia non rischia più di infiammare la crisi del debito”. Il nostro Paese aiuterà a risolvere la crisi nel Mediterraneo, in quanto è un impegno necessario per l’interesse comune.

Ha partecipato anche il presidente USA Obama, assumendo però stavolta un basso profilo, in quanto molto impegnato nelle presidenziali di novembre.

I dirigenti politici dei Paesi partecipanti hanno dibattuto in seduta plenaria su un argomento che è stato scelto dal presidente di turno, il serbo Vuk Jeremic: “Strumenti di soluzione pacifica delle controversie internazionali”.

Oltre al tema centrale, i dirigenti si sono incontrati per discutere di una serie di problematiche pressanti a cui bisogna far fronte, come  la povertà; in particolare, l’attenzione è andata alla Somalia, che sta affrontando la più grave crisi umanitaria negli ultimi 60 anni, dovuta a siccità, carestia  e ripresa dei combattimenti. Oltre 13 milioni di persone ne sono state colpite nel Sud della Somalia e nel Corno d’ Africa.

Monti ha dichiarato: “Aiutare la Somalia resterà un punto in cima alla mia agenda di governo, affinché ritrovi integrità e dignità”.

Si è parlato anche di riscaldamento globale e delle nuove tensioni nel Medio Oriente e Africa, con i riflettori puntati sulla questione israelo–palestinese, il nucleare iraniano, la questione siriana. Per quanto riguarda la Siria, si teme che la crisi si trasformi in una guerra regionale, e non a torto, in quanto si respira aria di guerra tra Turchia e Siria in seguito ad attacchi attribuiti a Damasco (3 ottobre), e la decisione turca di condurre operazioni militari fuori dai confini nazionali, approvata dal Parlamento il 4 ottobre. Quella turca è una rappresaglia in risposta ai colpi di mortaio siriani, anche se si sostiene che sia stato un incidente.

Un altro intervento importante è stato quello nel nuovo Presidente egiziano Mohamed Morsi, con i Fratelli Musulmani a prova di governo. Morsi si è presentato come il primo Presidente eletto in maniera democratica dopo una rivoluzione pacifica, ha mostrato la visione egiziana sul Vicino Oriente e l’Africa, inoltre, ha denunciato il film “Innocenza dei Musulmani” come offensivo della propria religione – ricordiamo che questo film ha provocato numerose proteste e attacchi alla ambasciate americane in Yemen, Libia ed Egitto.

Morsi ha rivolto una richiesta in particolare all’ONU: come è stato aiutato il popolo arabo durante le “rivoluzioni”, aiutare anche il popolo palestinese a riavere i propri diritti e far sì che, finalmente, venga riconosciuto uno Stato palestinese.

Infatti, la questione palestinese, eternamente irrisolta, resta un punto dolente nella politica internazionale odierna.

Il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, presente anche lui a New York in qualità di membro uditore, dichiara che c’è un’ultima possibilità di riprendere i dialoghi con Israele, che però non esita a comportarsi da Stato razzista. Abu Mazen richiede che la Palestina venga riconosciuta almeno come Stato non membro dell’ONU, mentre continua a sperare in un pieno riconoscimento lungi dall’arrivare. La strada, tuttavia, sembra lunga e tortuosa a cause dell’opposizione continua di USA e Israele, mentre i Paesi europei non sanno bene da che parte schierarsi senza riuscire a formulare una linea di azione comune, con i Paesi scandinavi filo palestinesi, Francia e Germania non allineati, mentre l’Italia sembra schierarsi con Israele. L’Occidente, ripiegato e indebolito da una crisi economica e finanziaria, fa finta di non udire le grida di dolore provenienti dalla terra palestinese, di non vedere i massacri quotidiani di persone innocenti, e pretende di dare lezioni di morale e democrazia al mondo. Israele provvede a mantenere il silenzio sulla Palestina e dirottare l’attenzione sull’Iran.

Infatti, uno degli argomenti che hanno attirato più attenzione è il nucleare iraniano, in vista delle continue minacce di Israele di attaccare gli impianti nucleari della Repubblica Islamica.

Tutti i riflettori sono stati puntati sul discorso del Presidente iraniano Mahmud  Ahmadinejad, il cui intervento si è svolto il giorno dello Yom Kippur, la festività più importante del calendario ebraico, come per beffa del destino a danno degli israeliani.

Il discorso di Ahmadinejad non è stato polemico come negli anni passati; nonostante questo, sia la delegazione nordamericana sia quella israeliana si sono rifiutati di ascoltarlo ed hanno abbandonato la sala.

Il succo del discorso è stato: “Chi ha accumulato migliaia di bombe atomiche non ha il diritto di farci prediche sul nucleare”.

È a dir poco strano, in effetti, che due Paesi, dotati di arsenale nucleare a loro volta, con Israele non aderente al trattato di non proliferazione nucleare (TNP), siano tanto impegnati a dichiarare come l’Iran sia un pericolo. Gli Stati Uniti possiedono in totale 8500 testate nucleari, invece Israele 80 (dati stimati dal Natural Resources Defence Council).

Gli stessi due Stati che hanno usato armi vietate dai trattati internazionali in almeno due occasioni: gli Stati Uniti hanno usato fosforo bianco a Falluja (guerra all’ Iraq ), e Israele l’ha utilizzato a Gaza.

L’Iran è sotto la “continua minaccia di sionisti che vorrebbero lanciare un attacco militare”, continua il Presidente iraniano. Infatti, sono 20 anni che Israele predica la necessità di uno scontro militare con la Repubblica Islamica: già nel 1992, il Primo Ministro israeliano Rabin nella sua visita alla Casa Bianca tentò di convincere gli Stati Uniti che l’Iran rappresentasse un pericolo troppo grande per la sicurezza di Israele.

Ma è veramente in grado – e interessato – l’Iran di produrre la bomba atomica?

Ahmadinejad sostiene che l’uranio arricchito serva a scopi civili, ma non è l’unico a pensarla così. Infatti, anche il Ministro degli Affari Esteri russi Ryabkov ha dichiarato, agli inizi di settembre, che un attacco all’Iran porterebbe ad effetti catastrofici e destabilizzerebbe tutto il Medio Oriente, sottolineando che non è stata trovata nessuna evidenza che l’uranio arricchito iraniano serva per scopi militari.

La Russia sostiene: “Noi sappiamo dell’esistenza di materiale nucleare in Iran, ma  questo  è sotto il controllo di specialisti, ispettori della Agenzia Internazionale per l’energia atomica (AIEA). La stessa agenzia ha precisato ufficialmente che “non ci sono evidenze che questo materiale venga usato per scopi militari”.

L’Iran è arrivato ad arricchire l’Uranio 238, militarmente inutilizzabile, fino al 20% di uranio 235, l’isotopo utile per produrre una bomba atomica, ma le atomiche si fanno con l’uranio arricchito almeno al 90-95 % di uranio 235, mentre al 20% si possono fare solo attrezzature mediche o usarlo per altri scopi industriali.

Israele, nonostante ciò, continua a lanciare l’allarme che l’Iran sia vicino a raggiungere lo scopo di produrre l’uranio necessario per la sua prima bomba atomica.

Il Presidente israeliano Benjamin Netanyahu durante il suo intervento, vero e proprio show mediatico, all’Assembla generale dell’ONU, ha invitato a tracciare una linea rossa sul programma nucleare della Repubblica Islamica: infatti, ha mostrato ai presenti un disegno stile fumetto del presunto ordigno nucleare pronto al 90%, e che sarà finito entro per la prossima estate.

Netanyahu, pur non sbilanciandosi apertamente su chi preferisca come nuovo inquilino della Casa Bianca, sembra più orientato verso Mitt Romney come nuovo alleato e con il cui supporto sicuramente avrà vita più facile, considerando che il rapporto con Obama è difficile nell’ultimo periodo – in effetti, non c’è stato nemmeno un incontro tra i due Presidenti durante la visita di Netanyahu a New York.

Quello usato da Netanyahu è uno stratagemma per spaventare sempre di più l’opinione internazionale e costringerla ad un’azione contro l’Iran, facendo esempi concreti e parlando di una data precisa per una guerra vera e propria, ossia l’estate 2013.

Gli Stati Uniti hanno dichiarato che non accetteranno un Iran dotato di bomba atomica, ma, per adesso, continuano a limitarsi alle sanzioni economiche, sottolineando però che il tempo per la democrazia non è illimitato.

Le sanzioni decise dagli Stati Uniti contro l’Iran sono entrate in vigore il primo luglio del 2012, e prevedono il divieto, in primis per i Paesi europei, di acquistare greggio dalla Repubblica Islamica, terzo esportatore mondiale di greggio. Queste sanzioni non valgono per tutti, in particolare Cina, India, Giappone, Malesia, Repubblica Coreana, Singapore, Sudafrica, Sri Lanka, Turchia e Taiwan potranno acquistare ancora dall’Iran riducendo le importazioni.

Lo scopo di queste sanzioni è, naturalmente, mettere in ginocchio l’economia iraniana, in modo da costringere Ahmadinejad a mostrarsi più collaborativo al prossimo round di incontri internazionali, che mirano ufficialmente a impedire all’Iran di costruire la bomba atomica.

Le pressioni israeliane per un attacco militare all’Iran restano un dato di fatto, ma è difficile immaginare che attacchino da soli senza l’appoggio degli Stati Uniti, e soprattutto con la Cina e la Russia che continuano a porre il veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Qualora intraprendessero una guerra di propria iniziativa, si porrebbero in una situazione di illegalità a livello di diritto internazionale.

 

* Natalya Korlotyan è dottoressa in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee (Università Statale di Milano)


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