La settimana passata Finian Cunningham ha pubblicato, nel sito “Global Research”, un interessante articolo dal titolo “Iran’s Natural Gas Riches: US Knife to the Heart of World Future Energy”.

Cunningham sostiene, rifacendosi ad autorevoli opinioni, che il gas naturale è destinato a soppiantare il petrolio quale principale risorsa energetica mondiale. Il “sorpasso” dovrebbe avvenire nel 2030, a suggellare un continuo aumento, che va avanti da decenni, della quota di gas nei consumi energetici a livello globale. Il gas ha numerosi pregi: un valore calorifico superiore a petrolio e carbone, una minore emissione di anidride carbonica all’atto della combustione, ed una maggiore facilità di trasporto. I recenti progressi tecnologici hanno permesso all’AIEA di raddoppiare la stima delle riserve di gas sfruttabili, ed esse – al livello di domanda attuale – durerebbero per tre secoli.

Le riserve di gas naturale più corpose si trovano nel Vicino Oriente e nell’ex URSS. Il maggiore giacimento di gas è Pars Sud, in Iràn, che secondo Cunningham è destinato a sostituirsi all’Arabia Saudita come nuovo “cuore pulsante” dell’approvvigionamento energetico globale. Pars Sud entra in funzione questo mese, ad opera d’una compagnia dello Stato cinese. Europa e Cina sono i due possibili grandi acquirenti del gas iraniano. Cunningham interpreta l’aggressività statunitense verso l’Iràn come il tentativo di controllare il futuro centro energetico mondiale.

La Russia è l’altro grande produttore mondiale di gas naturale. In effetti, Mosca e Tehrān possono vantare rispettivamente le prime e le seconde più vaste riserve di gas naturale (che, Qatar a parte, surclassano quelle di tutti gli altri paesi del mondo), anche se l’Iràn come produzione attuale scivola dietro gli USA e il Canada e, in termini di esportazione, crolla al ventottesimo posto della graduatoria mondiale. La principale motivazione del contestato programma nucleare iraniano è proprio quella di soddisfare la domanda interna di energia, liberando così la produzione di gas naturale per l’esportazione.

Cunningham scrive che Russia e Iràn possono considerarsi competitori, in quanto entrambi grossi produttori di gas naturale, e conclude il proprio articolo sostenendo che l’ambizione russa «potrebbe spiegare perché Mosca si sia mostrata un alleato mercuriale e volubile dell’Iràn. L’ambivalente posizione russa verso le sanzioni proposte dagli USA fa pensare che Mosca abbia un proprio piano per ostacolare la Repubblica Islamica come rivale energetico regionale».

Davvero Russia e Iràn sono rivali?


Zbigniew Brzezinski, massimo geopolitico anglosassone vivente (ex segretario di Stato a Washington dal 1977 al 1981) e capofila dei realisti statunitensi, nel suo The Grand Chessboard (New York, 1997) individua nell’Iràn uno dei cinque attuali perni geopolitici, ossia di quegli Stati «la cui importanza non deriva dalla potenza e motivazione, bensì dalla loro sensibile posizione e dalle conseguenze della loro condizione di potenziale vulnerabilità sul comportamento delle grandi potenze» (p. 41). Questo perché l’Iràn, «malgrado l’attuale ostilità verso gli Stati Uniti, funge da barriera a qualsiasi minaccia di lungo termine portata dalla Russia agli USA nella regione del Golfo Persico» (p. 47). Brzezinski descrive come «scenario più pericoloso» quello di «una grande coalizione tra Cina, Russia e forse Iràn, una coalizione “antiegemonica” unita non dall’ideologia ma dal risentimento comune» (p. 55). Tale scenario potrebbe però realizzarsi solo se si verificassero due eventi: la Russia si ristabilisse, divenendo più appetibile come alleato, e gli USA si mostrassero «tanto miopi da mettersi simultaneamente contro Cina e Iràn» (p. 116).

In questi tredici anni molte cose sono cambiate. I due fattori propedeutici all’alleanza antiegemonica temuta da Brzezinski si sono realizzati almeno in parte. A Mosca il debole e corrotto El’cin è stato rimpiazzato dall’abile e deciso Putin, il quale ha restaurato il potere dello Stato in Russia e della Russia nel mondo. La politica estera di George W. Bush è stata abbastanza “miope” da assumere atteggiamenti ostili verso Tehrān e per nulla amichevoli verso Pechino. L’aggressività palesata dagli USA nell’ultimo decennio, specchio del timore di perdere l’agognato ordinamento unipolare seguito alla fine della Guerra Fredda, ha suscitato una reazione multipolarista tra le altre grandi potenze mondiali (europee escluse), le quali hanno messo da parte le rispettive divergenze per frenare, con discrezione ma costanza, l’egemonismo statunitense. In particolare, Pechino e Mosca si sono avvicinate moltissimo, ed entrambe hanno appoggiato l’Iràn.

Brzezinski è stato critico severo della politica neoconservatrice e, assieme a Walt e Mearsheimer, della lobby israeliana, accusata di aver manipolato i dirigenti di Washington al punto di far privilegiare, nelle scelte di politica estera degli USA, l’interesse di Tel Aviv rispetto a quello statunitense. Brzezinski ha appoggiato la candidatura presidenziale di Barack Obama, e quello ha ricambiato definendolo «uno dei migliori pensatori statunitensi» ed arruolandolo come proprio consulente.

Prima ancora di assurgere alla presidenza, Obama ha auspicato una nuova politica verso l’Iràn. Nel suo libro Brzezinski caldeggiava «un graduale miglioramento delle relazioni iraniano-statunitensi» (p. 149), perché «non è nell’interesse degli USA perpetuare l’ostilità con l’Iràn»: semmai «un Iràn forte, anche religiosamente motivato ma non fanaticamente anti-occidentale, è nell’interesse degli USA» (p. 204). La politica di Obama verso l’Iràn s’ispira largamente alle concezioni di Brzezinski. Mentre Bush jr. voleva annichilire la potenza iraniana, in nome della “democratizzazione” e della “sicurezza di Israele”, Obama vuole trovare un accomodamento con l’Iràn, perché lo ritiene comunque utile a contenere l’influenza russa nella regione. Ciò è stato immediatamente recepito a Tehrān, dove potenti settori della classe dirigente, dopo avere invano cercato di sconfiggere democraticamente l’intransigente ed anti-statunitense Ahmadinejād, giocano ora la carta della destabilizzazione, nella speranza di poter raccogliere la mano tesa di Washington. Fatto sta che il presidente della Repubblica Islamica è ancora Mahmud Ahmadinejād, il quale tiene ferma l’ideologia anti-atlantista e l’alleanza con Cina e Russia.


Sicuramente anche in Russia vi sono persone che considerano l’Iràn un rivale, o vorrebbero fosse considerato tale per favorire interessi di terzi; ma tale posizione è minoritaria nella dirigenza e pressoché assente nelle forze armate. L’accorta strategia energetica di Vladimir Putin, ex presidente ed attuale primo ministro, non può prescindere dall’alleanza con Tehrān.

Contestualizziamo. Nella seconda metà del secolo scorso l’URSS instaurò un vincolo economico coi paesi dell’Europa Occidentale, che pure erano membri di un’alleanza ostile (la NATO). Tale vincolo era costituito dall’approvvigionamento energetico. Nell’ultimo ventennio la crescita di Cina e India ha aggiunto altri due grossi acquirenti di risorse energetiche in Eurasia. La disgregazione dell’URSS ha però complicato molte cose. Da uno si è passati ad una pluralità di fornitori d’idrocarburi: oltre alla Federazione Russa vi sono anche l’Azerbaigian e quasi tutti i paesi centroasiatici. Tuttavia, oleodotti e gasdotti d’epoca sovietica passano tutti per il territorio russo, alla volta dell’Europa.

Per Washington è divenuto prioritario sovvertire questo stato di cose, creando nuove rotte energetiche che dal Caspio e dall’Asia Centrale raggiungano l’Europa scavalcando la Russia. Ciò per diverse buone ragioni:

– se Mosca non controlla più i canali di smercio di questi paesi, che vivono sull’esportazione d’idrocarburi, perde un’importante leva per influenzarli;

– se diminuisce la quota d’idrocarburi consegnati dalla Russia all’Europa, diminuisce pure il loro vincolo energetico e quindi le motivazioni per mantenere rapporti amichevoli;

– se il Cremlino non influenza più l’Asia Centrale è più facile per Washington divenire egemone anche in quella regione, e se non c’è più interdipendenza tra Russia ed Europa è più semplice per la Casa Bianca separarle e metterle l’una contro l’altra.

In tale ottica, gli Statunitensi hanno concepito vari progetti, i più importanti dei quali sono l’oleodotto (con gasdotto parallelo) Bakù-Tblisi-Ceyhan, il gasdotto trans-afghano e il Nabucco. L’unico già costruito è il BTC, che raccoglie gl’idrocarburi azeri alla volta della Turchia e, da lì, del resto del mondo. Concepito come una sorta di progetto “definitivo” per ribaltare gli equilibri nel cuore dell’Eurasia, si è rivelato invece poca cosa perché incapace d’attrarre sufficienti quantità di petrolio e gas dell’Asia Centrale. Il Nabucco insiste sulla medesima rotta, ma è un progetto ancor più grandioso, poiché procede dalla Turchia Orientale fino all’Austria. È tanto costoso quanto incerto: non è ancora chiaro chi potrà rifornirlo di gas sufficiente a giustificare l’investimento. Egitto, Iràq e Azerbaigian, i fornitori più probabili, potrebbero non essere sufficienti. Si sono fatti i nomi di Turkmenistan e Iràn, ma non mancano i problemi. Il Turkmenistan richiederebbe un collegamento aggiuntivo fino al terminale turco di Erzurum, ma questo dovrebbe passare o sotto il Mar Caspio – un vecchio sogno statunitense che finora si è sempre scontrato con le difficoltà materiali – o per l’Iràn. Quest’ultima sarebbe la soluzione più semplice, anche perché il gas iraniano stesso potrebbe alimentare il Nabucco, ma l’attuale tensione tra Patto Atlantico e Repubblica Islamica la rendono impraticabile, almeno per il momento. Esagera quindi Cunningham, lasciando intendere che la partecipazione di Tehrān al Nabucco sia cosa fatta. L’ultimo dei tre progetti, il gasdotto trans-afghano, ha costituito una delle motivazioni recondite dell’invasione statunitense dell’Afghanistan, ma la perdurante instabilità del paese rende difficile prevedere quando potrà essere effettivamente realizzato.

Nel frattempo il Cremlino non è stato a guardare. Innanzi tutto sta potenziando le proprie rotte di transito, con la costruzione da poco avviata del Nord Stream e quella imminente del South Stream, che oltre ad aggiungere capienza al complesso delle condotte, scavalcano l’Europa Orientale, rivelatasi particolarmente infida e disturbatrice del flusso energetico russo-europeo (in ciò il ruolo perturbatore di Washington, pur esercitato nell’ombra, non è stato affatto secondario).

Con buona dose di realismo, i Russi hanno però compreso che non possono competere da soli contro l’offensiva geostrategica degli USA. Si sono perciò rassegnati ad una perdita parziale della propria posizione di privilegio, pur di respingere il tentativo statunitense di annullare quasi totalmente il vantaggio strategico russo. La Russia si è perciò rivolta a cinque attori principali: Europa Occidentale, Turchia, India, Cina e proprio Iràn. L’Europa Occidentale ha cooperato ai già citati programmi di rafforzamento delle rotte tradizionali. La Turchia ambisce a costituire un hub energetico del flusso diretto in Europa, ma l’intesa Putin-Erdoğan mira a fare sì che ciò avvenga in maniera cooperativa e non competitiva con Mosca. Ossia: la Russia accetterà la Turchia come secondo fulcro (minore), ed in cambio i due paesi non si combatteranno per non danneggiarsi a vicenda. India e Cina sono altrettanti bacini di domanda, paragonabili all’Europa, mentre l’Iràn è assieme all’Asia Centrale il principale bacino di offerta potenzialmente rivale della Russia. Va notato che Russia e Iràn sono gli unici due membri eurasiatici a pieno titolo del Forum dei Paesi Esportatori di Gas (il cartello dei paesi produttori, paragonabile all’OPEC).

Il Cremlino, anziché incapponirsi in velleitari tentativi di controllo assoluto, ha deciso di puntare su una ridefinizione delle rotte e dei vincoli energetici che, pur indebolendo il proprio ruolo rispetto al passato, lo rende saldo abbastanza da resistere ai minacciosi disegni statunitensi. La Russia ha scelto di concentrarsi sulle forniture all’Europa, senza rinunciare ad un potenziamento dei flussi verso Cina e Giappone per differenziare i mercati di vendita, dirottando verso oriente le risorse di Asia Centrale e Iràn, di modo che non le facciano concorrenza a ovest. Sull’Asia Centrale si è stabilita una sorta di condominio russo-cinese, il cui emblema è l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Vasti progetti infrastrutturali permettono alla Repubblica Popolare di ricevere ingenti quantità d’idrocarburi dalla vicina Asia Centrale; i Russi possono sfruttare a propria volta le nuove condotte per esportare di più in Cina, e si assicurano che il grosso degl’idrocarburi centroasiatici diretti in Europa continuino a passare per il loro territorio, poiché grandiosi progetti come il Nabucco divengono anti-economici, nel momento in cui il principale mercato si trova a oriente anziché occidente. A proposito dell’Iràn, Mosca sta patrocinando l’opzione del “Gasdotto della Pace” che, attraversando il Pakistan, dovrebbe giungere in India, per soddisfare il secondo grande “assetato d’Oriente”. Le pressioni statunitensi su Nuova Dehli stanno frenando il progetto, ma Tehrān e Islamabad hanno deciso di partire per conto proprio, costruendo le rispettive tratte di gasdotto, paventando la possibilità che ad agganciarsi sia la Cina anziché l’India. Per gl’Iraniani è uguale: quel che conta è vendere. Per i Pakistani idem: a loro serve il gas, e per rendere profittevole la nuova condotta hanno bisogno di un acquirente più grosso di loro, e l’alleato cinese è anzi più gradito del nemico indiano. Pechino ha una sete d’energia pressoché insaziabile, e la sua ipotetica partecipazione al gasdotto potrebbe indurre gl’Indiani a rivedere la propria posizione, per non rimanere esclusi dalle nuove rotte energetiche che si vanno organizzando nel cuore del continente. Infatti, il gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-India è ancora troppo velleitario ed incerto per far dormire sonni tranquilli a Nuova Dehli.


Resta ancora da spiegare una cosa: la politica russa verso l’Iràn, che Cunningham definisce “mercuriale” e “ambivalente”. Tale percezione è comune e non del tutto infondata, ma sembra possibile ravvisare una precisa logica nel comportamento del Cremlino. Di sicuro operano diversi fattori.

Uno potrebbe essere l’orientamento del nuovo presidente Medvedev, anche se il suo peso non è determinante nella definizione della geostrategia russa. Medvedev è un economista liberale con fama di “moderazione”, mentre Putin è un uomo dello Sicurezza nazionale, anch’egli occidentalista ma, nel corso della propria presidenza, resosi conto di quanto sia difficile per Mosca trovare un modus vivendi con Washington e Bruxelles. Putin si è sempre mostrato interessato all’alleanza con l’Iràn, mentre l’attuale presidente appare più freddo.

Non sorprenderebbe scoprire che si tratti d’un semplice “gioco delle parti”. Putin negli ultimi anni da presidente era divenuto molto esplicito nelle sue critiche verso il Patto Atlantico. La scelta di Medvedev come successore ha rappresentato però un evidente messaggio: la Russia è ancora interessata a una riappacificazione con la NATO; altrimenti avrebbe optato per Sergej Ivanov (il candidato dei militari) o per Vladimir Jakunin (il candidato degli esperti diplomatici d’epoca sovietica). Perciò, Putin continuerebbe a legare a sé i paesi non occidentali, mentre Medvedev sarebbe incaricato di “fare gli occhi dolci” agli atlantisti.

Ma se anche così non fosse, e veramente ci fossero incomprensioni tra i due, sarà la linea “eurasiatica” di Putin a prevalere. Putin è immensamente più popolare di Medvedev. Presiede il partito di entrambi. Ricopre un ruolo istituzionale di poco inferiore a Medvedev. I posti di potere brulicano di suoi fedelissimi. Piace di più alle forze armate, mentre gli “oligarchi” – gli unici poteri forti che potrebbero preferirgli Medvedev – sono stati notevolmente indeboliti durante la sua presidenza.

Altri sono a mio giudizio gli elementi che motivano le scelte diplomatiche della Russia nei confronti dell’Iràn:

– Washington, percependo il declinare della propria influenza geopolitica ma trovandosi in mano uno strumento militare senza pari al mondo, ha ceduto alla tentazione di difendere l’egemonia con la forza bruta e s’è fatta sempre più aggressiva, comportandosi spesso come un attore irrazionale. Mosca si muove coi piedi di piombo, per non suscitare reazioni incontrollate da parte degli USA. Non diversamente da come ci si comporta quando si ha di fronte un cane rabbioso;

– la Russia, dopo aver latitato negli anni ’90, è ritornata nell’agone diplomatico vicino-orientale. Non ha ancora la forza per capeggiare un vero e proprio blocco filo-russo nella regione, ma può trovare spazio come mediatore esterno tra le parti. Ciò è agevolato dalla crisi della diplomazia statunitense, che sta perdendo smalto in Vicino Oriente per essersi appiattita eccessivamente sulle posizioni di Tel Aviv (gli attuali tentativi d’Obama di farsi rispettare dagl’Israeliani sono una tardiva risposta al problema, sollecitata dalle forze armate statunitensi). Tuttavia, per porsi come mediatori bisogna cercare di tener conto delle esigenze di tutti, Tel Aviv e capitali atlantiche incluse;

– l’Iràn ha rifiutato un accordo molto favorevole alla Russia: quello d’affidarle la fase cruciale del ciclo d’arricchimento dell’uranio, cosa che permetterebbe a Tehrān d’avere l’energia nucleare senza possibilità di sviluppare armi atomiche. Mosca ha una spiccata inclinazione a proporsi come fulcro anche dell’energia nucleare, e lo dimostrano i recenti accordi di cooperazione con India e Turchia. L’accordo con l’Iràn avrebbe rappresentato un prezioso tassello in questo mosaico, ed ecco perché i Russi hanno reagito piccati al rifiuto di Tehrān (che pure aveva alcune buone ragioni per tirarsi indietro).

Tutto ciò non toglie che la Russia rimane un alleato dell’Iràn, e che Mosca non può prescindere dal paese persiano per ridisegnare la mappa dell’energia eurasiatica in maniera a sé favorevole.

Chi volesse approfondire le tematiche qui solo accennate, potrà trovare questo e molto altro nel mio La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze, libro che uscirà in aprile per la casa editrice Fuoco di Roma.


* Daniele Scalea, redattore della rivista di geopolitica “Eurasia”, è autore de La Sfida Totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze (prossima uscita; vedi: http://sfidatotale.wordpress.com/)

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