Venerdì 18 giugno si è tenuta la tredicesima tornata elettorale per le presidenziali della Repubblica Islamica dell’Iran. Il candidato dell’ala rivoluzionaria (“ultraconservatrice” secondo gli schemi occidentali), Ebrahim Reisi, che finora è stato a capo della magistratura, ha trionfato con oltre il 60 per cento dei consensi; alle sue spalle, ad una distanza incolmabile, il conservatore moderato Rezai e il riformatore moderato Hemmati.

Per quanto riguarda il fronte interno, il governo guidato da Ebrahim Reisi dovrà confrontarsi con la grave crisi economica che attanaglia il Paese (con un’inflazione ufficiale stabilmente in doppia cifra, con punte di oltre il 50 per cento negli ultimi anni). In sostanza, il nuovo governo dovrà cercare di riportare l’inflazione sotto la soglia del 20 per cento, una cifra che, pur essendo alta, rappresenta la normalità per una nazione che da diversi decenni è alle prese con le sanzioni della cosiddetta “comunità internazionale” e che negli ultimi tempi ha visto aggravarsi ulteriormente la situazione a causa dello scontro con gli Stati Uniti, radicalizzatosi con l’amministrazione di Trump. Il Rial, la moneta nazionale, ha perso tantissimo rispetto alle valute estere; per esempio, se nel 2016 un euro valeva 50.000 Rial, ora ne vale almeno 280.000.

Il secondo problema che il nuovo esecutivo dovrà affrontare sul fronte interno è il progressivo allontanamento degli Iraniani dalla politica. Dalla metà degli anni ’90 dello scorso secolo le elezioni presidenziali avevano sempre registrato una partecipazione di oltre il 60 per cento, con punte dell’85 per cento nel 2009; tra il 2013 e il 2017 avevano registrato un’affluenza alle urne superiore al 70 per cento. Dall’anno scorso, con le elezioni parlamentari del 2020, l’affluenza è di colpo crollata al 50 per cento; secondo i dati del ministero dell’Interno, in questa tornata la percentuale è stata poco al di sopra del 48 per cento.

A cosa è dovuta questa improvvisa disaffezione degli Iraniani nei confronti delle elezioni? Alcuni ne indicano la causa nella situazione economica; altri incolpano il coronavirus, che certamente non incentiva la partecipazione a manifestazioni pubbliche, soprattutto se affollate. Secondo un’altra analisi, si tratterebbe di un sintomo di raffreddamento che richiederebbe il deciso intervento del nuovo presidente. In altri termini, il compito di Ebrahim Reisi consisterà nel rinsaldare la fiducia degli Iraniani nelle istituzioni della Repubblica Islamica, onde evitare che tale forma di governo rischi di decadere – Dio non voglia – al livello di una volgare autocrazia mediorientale. In un sistema in cui la partecipazione al voto viene considerata da alcuni come un dovere religioso e da altri una sorta di referendum permanente sulla forma di governo (non di rado i predicatori del venerdì affermano che partecipare alle tornate elettorali rappresenta una manifestazione di consenso nei confronti della Repubblica Islamica), un’affluenza sotto il 50 per cento degli aventi diritto non è un bel segnale.

Migliorando la condizione di vita degli Iraniani, Reisi potrà fra quattro anni ripresentarsi agli elettori come una sorta di salvatore della patria e della Repubblica Islamica, anche perché in questa missione potrà avvantaggiarsi del sostegno del Capo dello Stato, Ali Khamenei, sia di quello del Parlamento, che è guidato dal conservatore Ghalibaf, sia della solidarietà dei Pasdaran. Insomma, Reisi ha tutte le carte in regola per sistemare le cose, considerata anche la scomparsa di Trump dall’amministrazione statunitense.

A tale proposito occorre ricordare che le linee guida della politica estera iraniana sono di competenza della Guida e non dell’esecutivo in senso stretto. Ma tra il quadriennio in cui Raisi siederà alla presidenza della Repubblica Islamica e il quadriennio ormai scaduto del moderato Rohani c’è una differenza decisiva: adesso la Guida e il Presidente si trovano in sintonia, in quanto accomunati dallo stesso orientamento; perciò le politiche generali verranno attuate alla lettera dal governo, mentre prima, per via delle divergenze tra Khamenei e Rohani, la linea del Capo dello Stato era per così dire frenata dal governo. Ora invece tutto sembra far pensare ad una decisa virata eurasiatista, che magari potrebbe prevedere una certa distensione anche ad ovest, dal momento che l’Occidente non sembra disdegnare un riequilibrio rispetto alla politica platealmente filosaudita degli ultimi anni.

È forse un paradosso, ma il governo rivoluzionario, per via dell’uniformazione ideologica avvenuta all’interno delle istituzioni, ha maggiori possibilità di portare a termine un buon accordo con gli attori internazionali di quante non ne abbia avute il governo di Rohani.

In ogni caso il fronte interno è quello ora più delicato. Nonostante la crisi economica, la potenza regionale iraniana non è stata affatto scalfita dagli otto anni della presidenza Rohani, anche perché gli attori incisivi nella politica di forza della Repubblica Islamica dipendono dalla Guida, la quale adesso dispone di un uomo fidato a capo del governo. Tuttavia è bene ricordare che uno Stato potente non è solo quello che dispone di un esercito forte e di missili precisi, ma è anche quello che sa rispondere alle esigenze popolari in ogni situazione e sa adattarsi ai vari contesti sociali.


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Ali Reza Jalali, laureato in giurisprudenza presso l`Università degli Studi di Brescia, ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Verona. Attualmente insegna diritto costituzionale e internazionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza della Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università Islamica di Shahrud (Iran). Presiede il Centro studi internazionale Dimore della Sapienza, di cui è anche responsabile per la sezione dedicata agli studi giuridici e politologici. Ha pubblicato numerosi saggi su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Nelle sue ricerche si occupa prevalentemente dei temi attinenti al diritto pubblico, al diritto internazionale, al rapporto tra Islam e scienza politica ed alle relazioni internazionali, in particolare per quanto riguarda l’area islamica.