Il programma nucleare israeliano è uno dei segreti più “pubblici” della politica internazionale contemporanea. Sono in molti a ritenere che Israele sia la sesta potenza nucleare su scala globale anche se è possibile affermarlo solamente in via non ufficiale.

Israele conduce una politica di ambiguità (o opacità) rispetto al suo programma nucleare, da una parte rifiutandosi di chiarire a che stadio di sviluppo sia, dall’altra evitando di rilasciare dichiarazioni ufficiali rispetto alle finalità e potenzialità dello stesso. “Israel will not be the first country to introduce nuclear weapons into the Middle East”, recita una celeberrima frase dell’ex-primo ministro israeliano Levi Eshkol, ottimo esempio della vaghezza dell’atteggiamento di Tel Aviv in merito al nucleare.

La politica di ambiguità nucleare è stata concepita come uno “strumento” funzionale alla sicurezza del Paese: la possibilità del ricorso alle armi nucleari – mai ufficializzata – ha operato come deterrente nell’ambito della politica mediorientale.

Tuttavia l’opacità nucleare dura ormai da parecchi decenni e alcuni analisti affermano che sia venuto il momento per Israele di “venire allo scoperto”: in particolare di fronte a minacce nuove come il terrorismo nucleare, il coming out israeliano potrebbe avere come risultato l’irrobustimento dell’effetto deterrenza di cui sopra. Uno dei maggiori sostenitori di questa tesi è lo storico Avner Cohen che ha definito la politica di ambiguità portata avanti dagli israeliani un “anacronismo politico”, soprattutto alla luce delle persistenti richieste di chiarimento che la comunità internazionale avanza in relazione al programma nucleare iraniano.

Accanto alla politica di ambiguità si è consolidato un approccio strategico complementare conosciuto col nome di “Dottrina Begin” che prevede il fermo impegno israeliano a mantenere il proprio “monopolio nucleare” in Medio Oriente. La sua applicazione più lampante fu il bombardamento della centrale irachena di Osiraq nel 1981: oggi l’opposizione di Tel Aviv allo sviluppo di un programma nucleare iraniano rientra in questa logica.

Secondo il giornalista Amnon Kapeliouk, l’opinione pubblica israeliana sembra sostenere il programma nucleare e la stessa politica di ambiguità messa in atto dal Governo di Tel Aviv. Soltanto una esigua minoranza della popolazione è favorevole alla denuclearizzazione dello Stato. Sembra inoltre che il nucleare non sia assolutamente al centro di alcun dibattito pubblico e resti escluso dalle campagne elettorali e dai programmi dei maggiori partiti politici israeliani. Quasi ad indicare che la sua legittimità  sia scontata e indissolubilmente legata all’idea di sicurezza nazionale.

IL TRATTATO DI NON PROLIFERAZIONE NUCLEARE

Il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) è uno dei pilastri della sicurezza globale e risponde a molteplici obiettivi: la non proliferazione delle armi nucleari su scala globale, la riduzione degli arsenali esistenti (disarmo) e la cooperazione nel settore del nucleare civile. Esso si basa su un “compresso politico”: da un lato gli Stati in possesso di armi nucleari si impegnano a non farvi ricorso, dall’altro gli Stati che non ne sono in possesso rinunciano a procurarsele in cambio del supporto esterno necessario a sviluppare un proprio programma nucleare per scopi civili.

Israele non ha ratificato il Tnp nonostante gran parte della comunità internazionale  ritenga sia in possesso di armi nucleari. Insieme a India, Pakistan e Corea del Nord, è quindi considerato uno degli “outsiders” armati rispetto al regime internazionale di non proliferazione sulle armi nucleari, e proprio la mancata membership universale è fra i principali fattori di crisi ed instabilità del regime stesso.

Ai primi di maggio, Rose Gottemoeller, assistente segretario di Stato americano, ha lanciato un appello a Israele, India, Pakistan e Corea del Nord affinché aderiscano al Trattato di non proliferazione sulle armi nucleari. Le sue parole hanno suscitato forti polemiche in Israele. Si teme infatti che l’amministrazione Obama possa modificare la tradizionale politica statunitense nei confronti del nucleare israeliano.

Alla fine di maggio, nel corso dell’ultima conferenza per il riesame del Tnp, 189 paesi (tra cui gli stessi Stati Uniti di Obama) hanno caldeggiato l’adesione da parte di Israele con l’obiettivo di creare un’area denuclearizzata in Medio Oriente.

All’inizio del mese di giugno, presso il convegno del Nuclear Suppliers Group tenutosi in Corea del Sud, la Russia ha espresso la sua preoccupazione riguardo al programma nucleare israeliano, definendolo potenzialmente più pericoloso di quello iraniano per la pace in Medio Oriente.

Il timore è che se Israele persiste con la politica dell’ambiguità e rifiuta di aderire al Trattato di non proliferazione sulle armi nucleari – impedendo agli ispettori internazionali di entrare a Dimona – ciò possa scatenare una vera e propria corsa al riarmo in tutta la regione con conseguenze sicuramente drammatiche.

BREVE STORIA DEL NUCLEARE ISRAELIANO

Israele cominciò ad interessarsi al nucleare all’indomani della sua fondazione. Nel 1949 un’unità dell’esercito israeliano, nota come HEMED GIMMEL, condusse una ricerca geologica nel deserto del Negev con l’obiettivo di indagare l’eventuale presenza di riserve di uranio nel sottosuolo. Nel 1952 fu fondata l’Agenzia Israeliana per l’Energia Atomica: secondo il giornalista saudita Hussein Shobokshi, essa ricevette un notevole sostegno tecnico e finanziario da parte di Francia e Regno Unito.

Infatti Israele non avrebbe potuto raggiungere i suoi obiettivi senza il sostegno e la complicità segreta di attori esterni molto influenti. Fu soprattutto la Francia ad aiutare Israele a dotarsi di “un’opzione nucleare”: nel 1957 venne firmato un accordo bilaterale che prevedeva la fornitura di un reattore da 24 mega watt. Il reattore in questione venne costruito a Dimona, nel deserto del Negev e divenne operativo intorno al 1964. Sembra che Israele disponga dell’arma nucleare dal 1967. La costruzione del reattore nucleare di Dimona fu circondata dalla massima riservatezza: una agenzia di intelligence (LEKEM) ne doveva assicurare la segretezza e invisibilità davanti alla comunità internazionale. La cooperazione tra Francia e Israele era rafforzata da interessi comuni in politica estera:  si consolidò attorno alla Guerra di Suez e davanti al nemico comune Gamal Abdel Nasser, che da una parte finanziava il Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria e dall’altra  i fedayn palestinesi contro Israele.

All’inizio degli anni ’60, soprattutto durante l’amministrazione Kennedy, gli Stati Uniti cominciarono ad esercitare pressioni sul governo israeliano affinchè aprisse le porte del centro di ricerca sul nucleare di Dimona agli ispettori americani e ratificasse il Trattato di non proliferazione nucleare. Dopo la morte di Kennedy le cose cambiarono significativamente e le successive amministrazioni americane dimostrarono un atteggiamento più morbido rispetto alla questione del nucleare israeliano, sostanzialmente avallandone la politica di ambiguità.

Nel 1969 si tenne un incontro storico fra Golda Meir e Richard Nixon in cui le parti strinsero un accordo sulla “segretezza” del programma nucleare militare israeliano: i tre principi guida – no test, no declaration, no public display of its nuclear capabilities –  avrebbero impostato le relazioni israelo-americane sul nucleare secondo la logica del “Don’t ask, Don’t tell”.

L’accademico americano Sasha-Polakov Suransky sostiene che Israele abbia cooperato in campo nucleare anche con il Sud Africa dell’apartheid durante gli anni ’70-’80. Nel suo ultimo libro, The Unspoken Alliance: Israel’s secret relationship with apartheid South Africa, fa riferimento a numerosi documenti declassificati che attesterebbero l’interesse israeliano – nella persona dell’allora Ministro della Difesa Shimon Peres – a vendere missili Jerico e testate nucleari ai sudafricani. Inoltre sembra che durante gli anni ’70 -’80 il Sud Africa fosse il maggior fornitore di uranio destinato alla centrale di Dimona.

In passato si sono verificati degli “incidenti” che hanno messo in crisi la politica di ambiguità messa in piedi dagli israeliani in campo nucleare: in primis la testimonianza di Mordechai Vanunu.

Nel 1986 Mordechai Vanunu, ingegnere presso la centrale di Dimona, rivelò al Sunday Times l’esistenza di un programma nucleare militare israeliano. Scappò da Israele munito di foto e documenti preziosissimi per corroborare la sua testimonianza. Dopo aver preso contatti con il giornale inglese (e prima che il materiale venisse pubblicato) fu rapito dal Mossad a Roma e ricondotto in Israele dove, in seguito ad un processo svoltosi a porte chiuse, fu condannato a 18 anni di prigione per alto tradimento. Nonostante abbia scontato per intero la pena, ancora oggi la sua libertà è sottoposta a numerose limitazioni, in particolare per quanto riguarda i contatti con gli stranieri e la possibilità di uscire da Israele. In base alla sua testimonianza gli esperti hanno stimato che all’epoca Israele avrebbe potuto detenere dalle 100 fino alle 200 testate nucleari. Vanunu ha spiegato alla stampa internazionale il suo gesto come frutto della volontà di dare un contributo per la pace in Medio Oriente ed evitare lo scoppio di un conflitto nucleare nella regione.

LE RAGIONI DEL NUCLEARE ISRAELIANO: POSSONO LE ARMI PREPARARE LA VIA DELLA PACE?

It [Israel] must be in a position to threaten another Hiroshima to prevent another holocaust (Avner Cohen)

Il nucleare israeliano è stato pensato come deterrente rispetto ad eventuali attacchi  (convenzionali e non convenzionali) ma ha avuto anche molte altre funzioni. Inizialmente concepito come arma di last resort – da usare nel caso in cui la stessa esistenza di Israele fosse in pericolo (la c.d. Samson Option) – finì con l’esercitare notevoli pressioni sugli stessi “amici di Israele”, in primis gli Stati Uniti.

In occasione delle guerre arabo-israeliane, essi si trovarono “costretti” – o comunque fortemente motivati – a sostenere  l’artiglieria convenzionale israeliana per evitare che il governo di Tel Aviv arrivasse ad utilizzare la propria opzione nucleare.

We have built a nuclear option, not in order to have a Hiroshima, but to have an Oslo, ha affermato nel 1998 l’ex-primo ministro israeliano Shimon Peres ricollegando l’opzione nucleare al processo di pace. Ma è veramente possibile pensare ad un Medio Oriente pacificato sulla base della “deterrenza nucleare” esercitata da Israele? I più recenti meeting internazionali hanno indicato come gli Stati arabi stiano spingendo per  aprire una discussione sul tema della denuclearizzazione della regione. Dal canto loro gli israeliani si rifiutano anche solo di sedersi al tavolo delle trattative e puntano il dito contro le intenzioni dell’Iran in campo nucleare. Di questo passo la pace sembra sempre più lontana.

*Valentina Marconi è dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)

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