La questione del giorno, che sembra angustiare la diplomazia e la Difesa italiane, per coinvolgere l’intero comparto della politica estera, è la seguente: le Frecce Tricolori possono esibirsi in Libia, per il 40° anniversario della “Rivoluzione libica”, emettendo strisce di solo fumo verde in ossequio al colore dello stendardo della Jamâhîriyya?
I media italiani presentano la questione come una delle proverbiali “bizze” del Colonnello. Ma la questione è molto più complessa, come si può immaginare.

Non sono “bizze” di Gheddafi

La politica non la si fa certo con le “bizze”. Piuttosto, è segno che si tratta di un modo ‘scandalistico’ per uscire da una situazione che a qualcuno che conta molto in Italia non è gradita. Quel “qualcuno”, come al solito (vedi, mesi or sono, l’annullamento del viaggio di Frattini in Iran appena 24 ore prima, la ‘partenza’ improvvisa di Hu Jintao dal G8 con la scusa dei disordini nello Xinjiang ecc.), decide che cosa può o non può fare il Governo italiano.

Ma i rapporti con la Libia per l’Italia sono di vitale importanza. Sia per gli approvvigionamenti energetici, sia per la liquidità di cui le aziende italiane hanno bisogno, sia per quanto riguarda la questione dell’afflusso di stranieri “clandestini”. Questi ultimi – vi si faccia caso – cominciano ad arrivare a frotte quando, probabilmente, alle roboanti promesse italiane (autostrade in Libia ecc.) non fa seguito un comportamento coerente.
Sempre per stare nell’ambito delle “bizze”, quando Gheddafi sostiene che Israele sia responsabile di molte guerre africane non s’inventa nulla, basti pensare all’interesse israeliano ed americano nella destabilizzazione del Sudan, troppo “amico” della Cina.
Ma come al solito, al pubblico dei ‘media mordi e fuggi’ non viene fornita alcuna analisi, così il tutto si riduce a mera tifoseria, in stile forum telematico (si legga il tenore dei commenti su quelli dei siti generalisti che consentono l’anonimato), col “beduino” che diventa oggetto degli strali di chi pensa che la politica funzioni come ce la fanno sembrare, umorale e in preda alle “bizze” di questo o di quell’altro.

A proposito di Gheddafi in Italia

Si ricorderà la recente visita in Italia e, soprattutto, la gazzarra – non solo mediatica – scatenata da vari soggetti. Vediamoli in rapida rassegna: c’erano i “centri sociali”, che tentavano d’avvicinarsi alla tenda del Colonnello; i Radicali, che manifestavano per i “diritti umani negati in Libia”; vari spezzoni della “sinistra radicale” e del mondo cattolico, in nome dei “migranti” contro il “negriero” Gheddafi; “comitati cittadini” che protestavano per la destinazione d’un parco pubblico ad accampamento di Gheddafi (!); le associazioni degli italiani espulsi dalla Libia (tendenzialmente “di destra”); le “comunità ebraiche”, per le quali il leader libico è un “terrorista” visto che aiutava i palestinesi. Insomma, tutta una congerie di soggetti che su altro sono spesso in totale disaccordo, ma che sulla critica al leader libico hanno trovato una sorprendente unità; un’unità che d’incanto si genera sui temi di politica estera.

Bene, tutti i soggetti summenzionati, in disaccordo su quasi tutto ma d’accordo nello scatenarsi contro Gheddafi, si sono prestati al gioco – esattamente come coloro che organizzano le iniziative pro-“rivoluzione verde” in Iran – perché così desidera quel “qualcuno” di cui sopra, ovvero l’Angloamerica. Si obietterà: forse i “centri sociali” sono filo-americani? No, non lo sono, almeno consapevolmente. Ma sono “oppositori” comodi, perché guarda caso le loro proteste non incidono sui reali rapporti di forza esistenti in Italia. Il problema capitale di tutti costoro (mi limito a quelli in buonafede, perché contro la malafede non si può nulla) è che non considerano affatto l’analisi di tipo geopolitico, che dice che noi e la Libia, entrambi Paesi mediterranei, abbiamo tutto l’interesse a crescere in co-prosperità, mentre l’Angloamerica (anche con lo strumento della Nato) non deve comandare in questo mare, come invece purtroppo avviene dalla fine della Seconda guerra mondiale (ma il problema già c’era prima, con le basi britanniche a Gibilterra, Malta, Cipro ecc., e tutto ciò in Italia era ben chiaro, tant’è che esiste una vasta letteratura coeva dedicata allo smascheramento delle mene britanniche).

Qualche elemento da valutare

L’astio dell’italiano medio contro Gheddafi, che fa leva su un malinteso “patriottismo” (“riprendiamoci la Colonia!”: l’interesse nazionale, oggi, non lo si serve certo in quel modo, ma perseguendo una linea d’integrazione euro-afro-asiatica e, per quanto ci riguarda da vicino, mediterranea) e sull’atavico disprezzo per “l’arabo”, è orchestrato in maniera da mettere in difficoltà il Governo italiano per alcune sue “scelte sbagliate” in politica estera. Lo stesso Governo che è oggetto, nella persona del Presidente del Consiglio, di continui e sempre più virulenti attacchi da parte della stampa britannica (compresa l’accusa di “reati contro il patrimonio archeologico”, il che suona ironico da chi ha assemblato le collezioni del celebre British Museum con la rapina sistematica dei patrimoni altrui). Il motivo unificante delle critiche rivolte a Berlusconi da certa stampa estera, ripresa da gran parte di quella italiana, è “l’amicizia” con, anzi tra, “dittatori”, poiché Putin, “l’amico” per antonomasia del Cavaliere, sarebbe un “dittatore” né più né meno come Gheddafi, quindi come lo stesso Berlusconi. Al fondo delle ‘preoccupazioni’ della stampa che attacca le mosse di politica estera italiana vi sarebbe dunque un elemento di natura “morale”. Da che pulpito arrivino certe prediche si commenta da sé, basti considerare secoli di politica estera britannica, volta non alla diffusione ed alla condivisione di una “civiltà”, bensì dell’accrescimento smodato del proprio tornaconto, ovvero quello delle proprie classi dirigenti della finanza e dell’industria.

Le cose, ripetiamolo, non stanno molto diversamente che negli anni Trenta e Quaranta, senonché oggi si assiste al progressivo sbriciolamento del dominio Usa e Nato nel mondo, e va da sé chi s’è abituato a dettare legge non lascerà la scena in punta di piedi. En passant, si noti che nessun paladino anti-Berlusconi, da Grillo a Travaglio, passando per l’Italia del Valori, ha mai speso una parola di critica netta sull’imperialismo anglo-americano e la sua appendice sionista.

Ma Berlusconi non è un nuovo “Duce”

Berlusconi, o meglio il gruppo che ne ha incoraggiato l’ascesa, è senz’altro sgradito ai “poteri forti”, al “partito americano” (ad esempio perché non è “ultraliberista”), ma da qui a scambiarlo per un nuovo “Duce” capace di ridare dignità all’Italia ce ne passa. Si rischia di prendere lucciole per lanterne, e probabilmente certi atteggiamenti ‘spavaldi’ sono anche calcolati per galvanizzare quella parte dell’opinione pubblica – elettoralmente ‘orfana’ – sensibile ad un sostanziale risollevamento delle sorti del nostro Paese al di là dei successi calcistici o della Formula 1.

Berlusconi, però (e chi lo circonda), sa che o l’Italia mantiene un suo ruolo “indispensabile” nella fase post-bipolare oppure questo Paese va verso una crisi devastante e senza ritorno (almeno per gli assetti di potere vigenti), i cui esiti potrebbero sfuggire al “partito americano” e perciò all’Angloamerica stessa, con tutto il codazzo di servi e valletti vari. Quindi, in ultima analisi, volente o nolente, lo stesso Berlsuconi cerca di mettere una falla al progressivo declino del potere anglo-americano, che è il quadro di riferimento, politico, economico e culturale nel quale lo stesso imprenditore di Arcore ha potuto prosperare. Il sospetto è che mentre si coltiva “l’amicizia” con Putin ed Erdogan si tenti di dare una mano all’America ad inserirsi nel nuovo scenario multipolare, evitandole una frana anziché un ineluttabile ridimensionamento.

Francamente, l’unica possibilità di veder cambiare rotta alla politica italiana è una crisi epocale su tutti i fronti, in grado di sconquassare le residue certezze che i più nutrono in un sistema ormai obsoleto, in una “civiltà” in cui l’economico ha preso il posto del “politico”. Una “crisi di civiltà”.

Per ora barcameniamoci

La scena del Colonnello che parla da dietro un vetro antiproiettile in Campidoglio è di quelle che fanno riflettere. Non capita tutti i giorni che un capo di Stato, neppure un Bush, sia così protetto in Italia. Ciò significa che in Italia circolano dei soggetti incontrollabili, delle reti dedite alla sovversione e alla provocazione al di là del controllo del Governo, in contrasto con certe recenti linee di politica estera. Si tratterà di “precauzioni”, ma il particolare s’è fatto notare. Per ora non siamo ancora ai livelli di guardia, anche se l’incattivirsi della campagna mediatica di denigrazione verso questo governo dà conto di malumori in crescita, da Bruxelles a Londra.

L’Italia fornisce truppe alle guerre dell’Angloamerica. In Afghanistan siamo invischiati fino al collo, al punto che l’attuale codice militare “in tempo di pace” sta rendendo la gestione della missione nel “Paese delle montagne” una sorta di gioco a nascondino per non far trapelare notizie “imbarazzanti”. C’è il rischio di qualche inchiesta della Magistratura per quanto avviene ai nostri soldati, e forse anche per questo c’è una gran fretta per “riformarla”.

Per ora ci si barcamena con la politica dei piedi in due staffe, che è quella che l’Italia ha (quasi) sempre fatto.
Anche la foto appuntata alla giacca di Gheddafi, che ritraeva l’eroe della “resistenza libica” Omar al-Mukhtâr, rientra in questa logica. Una cosa mai vista prima: apparentemente uno che viene a casa tua e che appena t’incontra ti dice: “siete degli assassini!”. In realtà il messaggio andava letto in ben altro modo e dava tutta la misura della difficoltà italiana ad uscire da un quadro stabilito sessant’anni fa: si tenta di smarcarsi un po’ dall’Angloamerica, in evidente crisi, ma sempre in un quadro “rassicurante” per l’”alleato americano”, perciò mentre trattiamo i nostri affari col “dittatore” ammettiamo (per sempre?) d’essere stati “cattivi”.

Non raccontiamoci storie: s’è mai vista l’America o l’Inghilterra, mettersi genuflessa in giro per il mondo – in India, in Vietnam ecc. – a chiedere “perdono” per i “crimini” commessi? No, perché la “colpa” è di casa solo in quei Paesi che non devono essere liberi, liberi di scegliersi i propri “amici” (consigliati più dalla geopolitica che dall’ideologia) e perciò la propria politica estera. Ma l’ipoteca sulla libertà opera anche ad un livello più profondo, quello della “mentalità collettiva”, che se coltivata in un modo per così dire ‘perdente’ e ‘rinunciatario’ si frappone sottilmente ad ogni sostanziale anelito d’indipendenza e di libertà.

Si esibiranno o no, a Tripoli, le Frecce Tricolori?

Quel che è certo è che le ‘frecciate’, tricolori, a stelle e strisce, bianche e gialle, bianche e azzurre e chi più ne ha più ne metta continueranno ancora per un po’ a saettare all’indirizzo del Presidente del Consiglio.


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Enrico Galoppini scrive su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” dal 2005. È ricercatore del CeSEM – Centro Studi Eurasia-Mediterraneo. Diplomato in lingua araba a Tunisi e ad Amman, ha lavorato in Yemen ed ha insegnato Storia dei Paesi islamici in alcune università italiane (Torino ed Enna); attualmente insegna Lingua Araba a Torino. Ha pubblicato due libri per le Edizioni all’insegna del Veltro (Il Fascismo e l’Islam, Parma 2001 e Islamofobia, Parma 2008), nonché alcune prefazioni e centinaia di articoli su riviste e quotidiani, tra i quali “LiMes”, “Imperi”, “Levante”, “La Porta d'Oriente”, “Kervàn”, “Africana”, “Rinascita”. Si occupa prevalentemente di geopolitica e di Islam, sia dal punto di vista storico che religioso, ma anche di attualità e critica del costume. È ideatore e curatore del sito "Il Discrimine".