Nel nostro continente, la storia dei nostri paesi non viene studiata in una prospettiva integrazionista; solo luoghi comuni sul periodo preispanico o sui vicereami e ben poco che comprenda nel suo insieme l’indipendenza delle repubbliche iberoamericane rispetto al decadente impero spagnolo. Una di esse, la Gran Colombia, fu creata tra il 1819 e il 1830 dal Capitanato Generale del Venezuela e dal Vicereame della Nuova Granada. Copriva il nord del Sud America dall’Atlantico al Pacifico, con accesso ai Caraibi. Nel 1825 aveva una popolazione di circa 2.500.000 individui; il suo esercito era potente, con 30.000 soldati e una notevole marina; disponeva di risorse naturali minerarie, agricole, forestali e tessili, medicinali, ecc. Una vera potenza militare ed economica.

Finché esistette, la Gran Colombia proiettò la sua potenza sull’intero continente: sia sull’ex territorio vicereale della Nuova Granada sia su quello delle nazioni meridionali. Nel 1819 Simón Bolívar riuscì a liberare, col passaggio strategico del suo esercito attraverso la catena montuosa delle Ande, un territorio corrispondente all’incirca alle odierne Venezuela e Colombia; il passo successivo fu quello di “liberare Quito” per formare una repubblica divisa in tre parti: Venezuela, Quito e Cundinamarca, con le rispettive capitali. Egli ed i suoi seguaci avevano le idee chiare sul fatto che l’Audiencia di Quito, precedentemente appartenente al Vicereame della Nuova Granada, era essenziale per la nuova repubblica ed era la chiave per rendere indipendenti il Perù e il territorio dell’Audiencia de Charcas o Alto Perú (l’attuale Bolivia), anche se la “Campagna del Sud” dovette essere rinviata per un po’. La situazione cambiò quando giunse al Libertador la notizia dell’indipendenza di Guayaquil, proclamata il 9 ottobre 1820.

L’equilibrio strategico favoriva le forze indipendentiste; a sud, l’esercito comandato da San Martín operava contro il vicereame del Perù, mentre a nord perdurava l’armistizio tra le forze realiste e quelle del Libertador. Sebbene Guayaquil fosse minacciata solo dall’esercito monarchico insediato sulle montagne di Quito, la Giunta di Guayaquil, consapevole dei propri limiti sia rispetto ai fondi monetari sia quanto ad armi e truppe, chiese aiuto a San Martín ed a Bolívar nello stesso tempo.

La battaglia di Carabobo, che nel giugno 1821 consolidò l’indipendenza del Venezuela e della Nuova Granada, consentì a Bolívar di riprendere i preparativi per la Campagna del Sud; allora inviò alcune truppe a difendere Guayaquil con la missione riservata di promuoverne l’annessione alla neonata Repubblica di Colombia. Nominò il generale Antonio José de Sucre comandante dell’Esercito del Sud e lo mandò nella città portuale con 1.000 soldati colombiani, che in pochi mesi diventarono 2.000. Nonostante le vittorie iniziali, a Huachi il suo esercito fu quasi annientato. Perciò si ritirò a Guayaquil, dove evitò problemi politici (controversie per la suddetta annessione), e nel gennaio 1822 riprese la campagna militare con una tattica diversa. Innanzitutto si congiunse nel sud con una unità peruviano-argentina inviata da San Martín e guidata dal colonnello Santa Cruz, futuro presidente della Bolivia. Così liberò la città di Cuenca, un punto geostrategico. E con 2.000 soldati di fanteria e 800 di cavalleria, oltre a nuove truppe colombiane in arrivo da Guayaquil, si diresse verso gli altopiani centrali per rendere indipendente la presidenza di Quito.

Durante il percorso ci furono scaramucce, ma l’esercito realista preferì ritirarsi per attirare le forze ribelli all’ingresso meridionale di Quito, dove le attendevano con tutti i loro rinforzi. Sucre arrivò così a Chillogallo, alla periferia di Quito, dove le comunità indigene e i guerriglieri lo sostenevano con rifornimenti, medicine, ecc., sabotando le comunicazioni realiste e aiutando a nascondere armi, cavalli, truppe e artiglieria in mezzo alla pioggia, per non allertare l’esercito realista in attesa. Nelle prime ore del 24 maggio 1822, affidandosi ai guerriglieri contadini che guidarono l’esercito liberatore lungo quegli ardui sentieri, Sucre costeggiò le pendici del vulcano Pichincha in una manovra di accerchiamento per evitare il grosso del nemico, che a sud controllava la città da un forte di artiglieria sulla cima del monte Panecillo. Arrivando da nord, cercò di sorprenderli alle spalle.

L’esercito patriottico, con 2.971 uomini, iniziò a salire, ma la pioggia notturna aveva reso ancor più ardui i ripidi sentieri, sicché l’avanzata fu lenta. I 3.500 metri sul livello del mare aumentavano la stanchezza e i creoli, già avvistati dai realisti, cominciarono ad essere bersagliati. La battaglia era iniziata.

Il generale realista Aymerich si rese subito conto della strategia di Sucre e inviò truppe sul vulcano per affrontarlo. Lo spazio per manovrare in un terreno pieno di profondi burroni e boschetti era scarso. Le munizioni dei patrioti cominciarono a scarseggiare e alcuni dei loro battaglioni cominciarono a ritirarsi, ma Sucre diede l’ordine di andare all’assalto con la baionetta e la situazione si stabilizzò a costo di pesanti perdite in entrambi gli eserciti. Non si sapeva nemmeno dove si trovasse il battaglione inglese Albion, incaricato di fornire munizioni, e Aymerich affidò al suo miglior battaglione, l’Aragona, il compito di raggiungere la cima di Pichincha, per attaccare i creoli alle spalle e rompere le loro linee. Ma il battaglione perduto di Inglesi e Scozzesi era provvidenzialmente più in alto, entrò in battaglia ed interruppe il battaglione spagnolo d’élite, già in procinto di lanciarsi dalla sua posizione privilegiata sulle truppe ribelli indebolite. Ciò diede respiro ai patrioti, che Sucre riuscì a mobilitare per disarticolare il fronte realista. Verso mezzogiorno, l’esercito liberatore riuscì a lanciare il grido di vittoria davanti a un nemico così coraggioso.

 

In una scaramuccia finale, i patrioti circondarono e presero il forte del Panecillo. Il 25 maggio Sucre entrò a Quito ed accettò la resa del maresciallo Melchor de Aymerich, l’ultimo presidente della Real Audiencia de Quito. Quasi un mese dopo, con l’arrivo di Bolívar e il conseguente trambusto generale, la Presidenza di Quito fu incorporata nella Repubblica di Colombia. Ma la liberazione della regione non era stata completata: nel luglio 1823 Benito Boves e il colonnello Agustín Agualongo capeggiarono una nuova rivolta nel Pasto, giurarono fedeltà al re di Spagna e sconfissero le forze patriottiche di stanza a nord della vecchia Audiencia de Quito. Dopo alcuni successi, Agualongo riuscì ad organizzare un esercito di 1.500 uomini per recuperare Quito alla Corona. Bolívar lo scoprì ed organizzò subito delle milizie per affrontarlo personalmente nella città di Ibarra, presa da Agualongo senza incontrare resistenza. I Pastusos gli opposero una strenua resistenza, ma finirono per ritirarsi. Il Libertador ordinò al suo reggimento di lancieri di perseguitare e uccidere i ribelli, i quali non intendevano arrendersi. La carneficina non risparmiò nessuno: una decisione estrema, cupa e sicuramente necessaria del Libertador. Agualongo fuggì verso il Pasto con pochi seguaci, ma venne ferito e catturato. Si offrirono di risparmiargli la vita se avesse giurato fedeltà alla costituzione della Repubblica di Colombia, ma lui rispose: “Mai!” Il suo ultimo grido davanti al plotone di esecuzione fu: “Viva il Re!”! Così finì l’ultimo esercito realista nel vicereame della Nuova Granada.

 

All’interno della prima guerra d’indipendenza americana la battaglia di Pichincha di solito passa inosservata, e ancor più quella di Ibarra; si dimentica che queste vittorie – la seconda fu di Bolívar – suggellarono l’indipendenza sia dell’odierno Ecuador sia delle attuali Colombia e Venezuela. Poterono così concentrarsi risorse ed energie per l’indipendenza del Perù, culminata nella battaglia di Ayacucho. Pichincha fu la prima battaglia combattuta da un vero esercito ispano-americano: Venezuelani, Colombiani, Peruviani, Argentini, Ecuadoriani, Boliviani, Cileni, con contributi di anglofoni e persino di Tedeschi. Ai neoispanisti che amano usare il contributo inglese per minare la nostra Indipendenza ricordiamo che, a causa della sua alleanza con la Spagna contro Napoleone, la Corona inglese rifiutò il suo sostegno a Miranda. E non fu Wellington a liberare Madrid dai Francesi? Dicono che la maggior parte di indigeni, mulatti, negri era fedele alla Corona e che l’Indipendenza era solo una questione di élites creole. Oggi è difficile valutare la fedeltà dei gruppi e delle etnie, ma il sostegno contadino-indigeno ai patrioti di Pichincha dà modo di vedere che l’emancipazione dalla monarchia borbonica, propagandata ai nostri giorni come soluzione delle nostre crisi, aveva cessato di essere un affare delle élites e dei creoli, ed era la causa di tutti.

Lo sviluppo indipendentista, pieno di contraddizioni, fu inizialmente promosso, sì, da proprietari terrieri attenti ai propri interessi, ma tuttavia disposti a dare i propri beni e la propria vita, anche nel fervore delle battaglie. Tale fu il caso di Bolívar e di molti suoi compagni iniziali, e dei molti che persero il patrimonio e la vita nelle battaglie o furono fucilati, come a Quito durante il massacro del 2 agosto 1809. Élites ben diverse dalle cosiddette élites attuali, che ad ogni minimo accenno di difficoltà politica o economica o di rivolte popolari, pensano a Miami…

L’Indipendenza definitiva dell’America iberica deve ancora realizzarsi, non ne dubitiamo. Ecco perché è compito di ciascuno dei nostri popoli e nazioni raccogliere ed attualizzare il retaggio dei Libertadores, e identificare i veri nemici di oggi: l’egemone di turno e le oligarchie a lui sottomesse, ed anche coloro che oggi rivendicano la Spagna borbonica e la sua monarchia corrotta. Lo svantaggio è chiaro; controllano, con le loro numerose varianti, le istanze politiche, religiose, giornalistiche, universitarie ecc. e le Forze armate. E alcuni potrebbero scoraggiarsi. Ecco perché oggi è necessario mantenere accesa la fiamma comune della nostra Seconda Guerra d’Indipendenza.

Francisco de la Torre
Tumbaco, 2022
Ann del Bicentenario della Batalla di Pichincha


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Francisco José de la Torre Freire, nato a Quito nel 1965, è un economista (Pontificia Universidad Católica del Ecuador) e ha conseguito un master in Amministrazione delle Imprese (Universidad Andina Simón Bolívar). Professionista nel settore tessile, collabora con la rivista cilena “Ciudad de los Césares”, con la rivista argentina “El Pampero Americano” e con “Eurasia”.