Pubblichiamo un articolo di Giulio Brigante Colonna, ricordando ai nostri Lettori che la democrazia, in termini geopolitici, ha sempre rappresentato la sovrastruttura delle Potenze marittime. Attualmente essa costituisce la sovrastruttura ideologica ed operativa ad un tempo del cosiddetto sistema occidentale guidato da Washington e Londra.
La “democratizzazione” del Pianeta, infatti, come insegnava il teorico dello scontro di civiltà, Samuel Huntington, nel suo La Terza ondata, si traduce – attraverso le guerre di Clinton e Bush, prima e la diplomazia di Obama , oggi (cfr. il commento di T. Meyssan al discorso del Cairo del presidente Obama) – nella sostanziale espansione degli USA nell’area eurasiatica.
L’introduzione dei “valori democratici” per vie cruente e incruente nelle aree extra occidentali – oltre a evidenziare, ancora una volta, la presunzione occidentale di stampo colonialista, secondo la quale il sistema democratico sarebbe il migliore del mondo, che tutte le popolazioni del Pianeta dovrebbero, prima o poi, adottare – è chiaramente sinergica alla “geopolitica del caos” che gli USA conducono in aree considerate strategiche dal Pentagono, tra cui l’Afghanistan, il Pakistan e l’Iran.

Gli ultimi due anni hanno visto un’ondata di elezioni investire il Medio Oriente, un’area geopolitica storicamente caratterizzata da un deficit di democrazia. Nel febbraio del 2009 si sono svolte le elezioni israeliane e poi hanno seguito Libano e Iran a giugno e l’Afghanistan ad agosto, mentre nel corso del 2008 si sono altresì svolte elezioni in Pakistan ed in Iraq. Questa improvvisa propensione alla legittimazione elettorale fa sorgere qualche interrogativo di ampio respiro: la democrazia si può esportare come qualsiasi prodotto commerciale e ancora, queste elezioni dimostrano che l’area mediorientale è definitivamente democratizzata?

In Occidente la democrazia è considerata la migliore forma di governo che ha portato stabilità, benessere, progresso ed un costante miglioramento delle condizioni di vita per gran parte della popolazione. L’esperienza europea dopo la seconda guerra mondiale è il miglior esempio di democrazia all’opera: da più di cinquant’anni infatti, i Paesi europei vivono insieme in pace e prosperità. Di più, la democrazia ha dimostrato di essere la forma di governo che meglio garantisce i diritti umani. E’ però necessario ricordare che la democrazia è un processo lungo e tortuoso, che inizia ma non finisce con le elezioni ed è per questo che molti dei Paesi sopramenzionati non sono diventati democrazie da un giorno all’altro. Le democrazie compiute hanno sviluppato, negli anni, quelle istituzioni democratiche che garantiscono un corretto funzionamento delle istituzioni. La separazione dei poteri auspicata da Montesquieu, (un sistema giudiziario indipendente che garantisca l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, un parlamento che controlli l’azione del governo), la tutela delle minoranze nonchè forze armate che rispondano al governo sono alcune delle garanzie che garantiscono la vita di ogni cittadino in quelle democrazie fondate sui principi della Rivoluzione Francese. Queste istituzioni che creano i limiti di ogni moderna democrazia si sviluppano nell’arco di molti anni e non possono certamente essere imposte dall’esterno.

Per queste ragioni, fra le nazioni che abbiamo menzionato, Israele è a tutti gli effetti l’unica democrazia compiuta del Medio Oriente, una democrazia giovane, nata poco più di 50 anni fa. Il Libano non soffre di un deficit democratico, quanto della difficoltà a liberarsi dell’influenza straniera che, nel corso degli ultimi 30 anni, ha influenzato gli affari interni dello Stato attraverso l’appoggio alle diverse fazioni politiche creando grande instabilità. I principali attori in Libano sono stati e continuano ad essere la Siria, l’Iran ed Israele.  L’Iraq si sta riprendendo da una dittatura che ha mantenuto il potere attraverso la repressione brutale della maggioranza Sciita e della minoranza separatista Curda. Il Paese sta lentamente recuperando quella società civile che ha sofferto la repressione e gli anni di embargo. Da qualche anno l’Iraq sta sviluppando quelle istituzioni democratiche che sono la chiave per il proprio futuro.

Spostandoci verso l’Asia  si arriva al Pakistan, uno stato che per gran parte della propria esistenza è stato governato da una leadership militare, che ha accentrato il potere senza mai garantire quella trasparenza e alternanza che sono tipiche delle democrazie compiute. La storia del Pakistan è stata segnata dal perenne conflitto con l’India e le proprie decisioni di politica interna ed estera rispecchiano questo conflitto. La società civile pachistana svolge un ruolo rilevante, un esempio emblematico è stata la marcia per reintegrare il Giudice Supremo Iftikhar Muhammad Chaudry che nel 2007 è stato licenziato e messo agli arresti domiciliari dal Presidente Musharraf.

Concentriamoci adesso sulle recentissime elezioni Afghane ed Iraniane e vediamo cosa emerge in termini di sviluppo democratico in questi due Paesi. E’ importante ricordarsi che entrambi i Paesi sono strategicamente molto importanti per la stabilità regionale, caratteristica che li pone sotto l’attento scrutinio della comunità internazionale .

La comunità internazionale è attivamente impegnata nel nation building in Afghanistan. A tal fine, le elezioni del 20 agosto avrebbero dovuto rappresentare un caposaldo a dimostrazione dello sviluppo del Paese secondo linee democratiche. Tuttavia, le elezioni hanno gettato un ombra sull’intero processo elettorale e sulla legittimità del prossimo governo afgano. Qualche segnale positivo si è registrato, soprattutto per quel che riguarda l’affluenza alle urne, in un Paese che sta vivendo sotto la continua minaccia di attacchi da parte degli insorgenti, il dato che si attesterebbe intorno al 38,17%[1] è da considerarsi discreto. Questo numero dimostra la determinazione di tanti afgani a votare nonostante la minaccia di attacchi da parte dei Taliban. La storia di Lai Mohammed è sintomatica: essendo andato a votare il 20 agosto i Taliban lo hanno punito amputandogli orecchie e naso. Quando intervistato il sig. Mohammed ha detto che in futuro andrà di nuovo a votare in quanto suo dovere di cittadino! Queste storie sono frequenti nell’Afghanistan post 2001: cittadini affamati di democrazia che vanno incontro a grandissimi rischi pur di esercitare quelli che sono i propri diritti, come votare o andare a scuola o semplicemente uscire di casa.  L’Afghanistan è tuttavia la prova che non è possibile esportare la democrazia. Ci vorranno diversi anni perché l’Afghanistan sviluppi quelle istituzioni che garantiscano la vita democratica dei cittadini.

L’Iran è stato formalmente una Monarchia Costituzionale fino alla Rivoluzione Islamica che, nel 1979 ha imposto uno stato teocratico, centralizzato e altamente controllato. Il Paese che vantava istituzioni democratiche come il parlamento (risalente al 1906) ha sviluppato, nonostante la censura di Stato, forme limitate di democrazia come il suffragio universale ed elezioni con candidati multipli. Con queste premesse non ci si poteva aspettare grosse novità dalle elezioni dello scorso giugno. Con i candidati attentamente selezionati dalla Guardia Repubblicana nessun outsider poteva intromettersi in quello che era un discorso limitato a pochi prescelti. Tuttavia, quello che è successo dopo le elezioni è politicamente molto rilevante e ci consente di dare uno sguardo nelle dinamiche interne alla Repubblica Islamica. I brogli in favore di Ahmadinejad hanno scatenato un’ondata di proteste che ha preso il nome di “Rivoluzione verde”. Con una popolazione complessiva di 66 milioni[2], di cui due terzi sotto i 30 anni, un’alfabetizzazione del 77% e 23 milioni di utenti internet, la protesta si è presto divulgata fra i giovani, diventando una vera minaccia per il regime, che ha dovuto mobilitare le milizie paramilitari Basij per riportare l’ordine.

La censura delle autorità ed il loro controllo sulla società non sono riusciti ad evitare che un popolo dominato da giovani istruiti e ben collegati (con l’uso di internet) mostrassero al regime la loro sete di cambiamento e di democrazia. Non è forse questo il valore ultimo della democrazia, il potere alla gente?

E allora per tornare alla domanda iniziale, questa ondata di elezioni può significare che il Medio Oriente si sta democratizzando? Direi di no. Le elezioni hanno dimostrato, una volta di più, come  siano un potente mezzo in mano ai cittadini che possono esternare il loro dissenso determinando reazioni incontrollabili anche la dove i risultati sono influenzati dai regimi.

L’Amministrazione Bush ha inseguito una politica mirata a portare la democrazia in Medio Oriente. A tal fine, i regimi mediorientali sono stati fortemente incoraggiati a tenere elezioni ed aprire i loro sistemi politici allo scrutinio degli elettori. Questo obiettivo lodevole e sacrosanto è stato tuttavia macchiato dalla politica dell’”Asse del Male” che ha portato, nel 2003, al cambio di regime in Iraq. Anche se è indubbio che molti iracheni stiano meglio adesso che sotto il regime di Saddam Hussein, la guerra del 2003 ha evidenziato i costi di questa politica in termini di violenza e destabilizzazione regionale. Costi che sono poi notevolmente aumentati per la mancanza di un impegno di nation building di lungo periodo.

Con l’arrivo di Barack Obama l’approccio USA al Medio Oriente è cambiato, diventando più pragmatico. Durante il suo intervento all’Università del Cairo lo scorso marzo, Obama ha chiarito l’appoggio americano per quei valori fondamentali per cui “ogni persona ambisce alla libertà di parola, la possibilità di scegliere da chi si è governati, lo stato di diritto, un governo che non ruba alla gente e le cui politiche siano trasparenti e la libertà di vivere come uno vuole. Questi non sono solo valori Americani, sono diritti umani ed è per questo che li sosterremo dovunque.”[3]

Questo tipo di pressione può innescare risvolti positivi in quelle società chiuse e governate da regimi dispotici. Tuttavia, questo non significa che la democrazia può essere esportata e applicata alle diverse realtà rappresentate da Iraq, Libano, Israele, Iran, Pakistan e Afghanistan. Quello che l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare possono fare è aiutare questi Paesi a sviluppare quelle istituzioni democratiche che rendono le società aperte, tenendo presente che questi processi sono lunghi e che non possono essere imposti con la forza.

Quando si impongono elezioni e processi democratici i risultati possono essere destabilizzanti. Un esempio è stata la pressione USA su Mahmoud Abbas (Presidente dell’ANP) per far svolgere  le elezioni parlamentari del 2006 nell’Autorità Nazionale Palestinese. Le elezioni tenute in assenza di istituzioni democratiche e in una nazione che non è ancora uno Stato hanno portato alla vittoria di Hamas. La conseguente impossibilità di quest’ultimo di formare un governo in coabitazione con Fatah ha innescato una serie di scontri che sono sfociati nella scissione dell’ANP (nel 2007). Dopo due anni e numerosi negoziati la situazione attuale vede la netta contrapposizione tra Hamas e Fatah con il primo in controllo di Gaza ed il secondo della Cisgiordania. L’aspirazione palestinese a diventare uno stato non ha tratto beneficio da questa scissione.

Le elezioni iraniane evidenziano quanto sia labile il confine fra le politiche di regime change e di engagement. Decidendo di ingaggiare la leadership Iraniana, Obama ha abbandonato il proprio sostegno ai valori che hanno ispirato la protesta dei giovani iraniani contro il proprio regime. Anche se da un punto di vista morale questa scelta risulta incoerente, la nuova politica è la migliore garanzia per i risultati di lungo periodo. Come si è visto con l’Iraq nel 2003, una politica mirata al cambio di regime inevitabilmente porta ad un congelamento delle relazioni, a maggiori tensioni regionali ed in ultima istanza alla guerra. Anche se tutti vorremmo che il Medio Oriente fosse governato in democrazia, la democratizzazione è un processo che richiede tempo e la stabilità nel breve periodo risulta essere più importante.

Giulio Brigante Colonna è analista di geopolitica per l’area del Medio Oriente allargato. Ha conseguito un BA in International Affairs ed un Master in Relazioni Internazionali e Studi Strategico Militari presso il Centro Alti Studi per la Difesa.


[1] http://www.argoriente.it/_modules/download/download/afghanistan/rapporti/afghanistan-10-IT.pdf

[2] Dati dal: CIA World Factbook: https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/ir.html

[3] US President Barack Obama speaking at Cairo University on the 4th of June 2009.


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