La guerra civile che in questi mesi sta riguardando e insanguinando la Siria seppur inquadrata nel contesto della primavera araba è una questione geopolitica assolutamente a se stante.  Ovvero mentre nel caso degli altri paesi arabi le rivolte hanno avuto ripercussioni quasi soltanto all’interno dei rispettivi confini nazionali, ed una volta spenti i focolai della rivolta tutto è presto tornato ad una parvenza di normalità anche istituzionale,  nel caso della Siria gli esiti del conflitto porteranno conseguenze a più ampio raggio, tanto da suggerire che sia stato il governo di Bashar Assad e non il cambiamento democratico il vero obiettivo delle ormai tanto discusse manovre occulte di destabilizzazione del Medio Oriente.  Mentre nel caso del nord Africa secondo alcuni rumours provenienti dall’opinione pubblica araba non si tratterebbe d’altro che di un mescolamento delle carte stanche e usurate impersonate dai vecchi leaders per potersi appoggiare a nuove figure di governo e approfittare di un caos nazionale bellicoso e anti democratico al punto da poter giustificare un intervento della NATO, nel caso della Siria un simile intervento delle potenze atlantiste scatenerebbe una terribile e forse insostenibile guerra regionale essendo che il paese è considerato un baluardo strategico e inviolabile in primis dal’Iran e secondariamente dalla Russia, in quanto facente parte, contrariamente ai paesi nord africani, di un sistema di alleanze difensive che ne fanno non una pedina isolata ma il tassello inviolabile di un blocco unico.

In questo contesto o per meglio dire con questa chiave di lettura leggeremo quanto qui di seguito.

Le forze in gioco,  pronte a difendere la Siria e a intervenire per difendersi l’un l’altra (questo preoccupa non poco israeliani e anglo americani) sono principalmente rappresentate dall’ormai arcinota triade del blocco sciita composta da alawiti e forze governative siriane, Hezbollah libanese (nato formalmente nel 1982 da una scissione di Amal, altro partito sciita) e Repubblica Islamica dell’Iran. Tutte e tre diverse tra loro considerando che Hezbollah è soltanto uno dei principali partiti del paese (seppur oggi al governo in Libano), gli alawiti sono il gruppo religioso sciita politicamente egemonico, che ha dato alla Siria il suo presidente e alti funzionari governativi e vertici delle efficientissime forze armate (pressoché una rarità nel mondo arabo), ma rappresenta una netta minoranza religiosa nel paese e soltanto nel caso dell’Iran si può parlare di un sistema sciita che si incardini nelle istituzioni ma che rappresenti al contempo anche la maggioranza religiosa e quindi politica della nazione.

Quest’ultimo è l’unico a risultare davvero inattaccabile (si veda anche lo scarso esito dei moti sovversivi del movimento verde) e ciò per diversi motivi tra i quali: la sua sopraccitata coesione interna, lo sviluppo notevole delle sue forze armate (l’Iran è probabilmente l’unico tra i paesi islamici in grado di mettere in campo forze di terra di mare e d’aria davvero in grado di avere un notevole impatto operativo) e della sua intelligence, il controllo che il governo può esercitare su media e propagandistici flussi di informazione (tentativi di demagogici depistaggi compresi), la sua autonomia energetica, commerciale e di risorse che limita gli effetti del’embargo ad una questione di semplice disturbo, il paese è autosufficiente sia perché ha facilmente adattato e riconvertito le sue rotte commerciali sia perché ha incentivato e potenziato transazioni con altri parteners economici non aderenti all’embargo (l’Italia stessa ad esempio continua a non rinunciare al petrolio iraniano seppur giunga con maggiori difficoltà).

Questo cosa centra con la Siria ci possiamo domandare; semplice: gli alleati dell’Iran potranno sempre contare su un bacino di assistenza e rifornimenti di ogni genere pressoché inesauribile, per altro agevolati negli scambi dalla contiguità territoriale dei loro confini. Per tanto fin che Russia e Cina continueranno a mettere il loro veto a missioni di sedicente intervento umanitario militare da parte della NATO e dell’ONU l’unico modo di influire sulle vicende interne di questi paesi sarà l’arma della guerra civile e del cosiddetto soft power per poter sostituire il governo Assad con uno più vicino alle potenze atlantiste (sempre che uno dei tre attori non commetta l’errore folle di attaccare per primo una delle potenze alleate della NATO). USA e Gran Bretagna hanno dalla loro molti alleati anche nel medio Oriente ma indebolire il blocco sciita è per loro vitale.

Rovesciare un uomo forte come Assad non è cosa da poco, egli gode ancora di un ampio consenso in patria e tra i suoi alleati internazionali (sostegno comunque dovuto visto che con un eventuale ingresso degli americani in Siria Hezbollah si sentirebbe isolato e l’Iran accerchiato) e soprattutto per ora le autorità siriane non contemplano l’ipotesi di altri candidati alla guida del paese. Nonostante le non confermabili notizie di brutalità sui ribelli, di importanti defezioni e tradimenti di alcuni alti esponenti delle forze armate l’esercito siriano non retrocede. USA e Israele hanno un medesimo obiettivo ma tempistiche e pretesti diversi per attuarlo; gli americani cercano di giocare parsimoniosamente la carta umanitaria e del diritto di autodeterminazione dei popoli, Israele quella della minaccia di attacco e di crisi regionale causata ovviamente dai suoi nemici. Da Israele l’Iran si aspetta invece un attacco repentino ed improvviso poiché Tel Aviv ha già dimostrato di essere innervosita e preoccupata da un sempre crescente incremento della potenza militare di Hezbollah e dell’Iran, alla quale vorrebbe porre fine in modo definitivo con una guerra diretta. USA e Israele possono contare come appunto detto su alleati importanti tra i paesi arabi tra i quali principalmente Arabia Saudita e Turchia (quest’ultima già parte della NATO). Esistono infatti due guerre interne al mondo islamico, due “fitna”. La prima e probabilmente più lacerante, tanto antica quanto nota, di carattere religioso è quella tra sciiti e sunniti, un vero e proprio perno incuneato nel mondo islamico che è stato fin troppo facile utilizzare come leva per spaccarne la resistenza. L’altra invece tutta inserita nel contesto meramente politico-egemonico è quella per la conquista del ruolo di leader del mondo islamico o come viene oggi definita la “lotta per il nuovo califfato”. I pretendenti a questa curiosa quanto irrealizzabile competizione sono la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Iran. Per quanto concerne la situazione siriana il più interessante da prendere in analisi è senz’altro la Turchia. Damasco sede del primo califfato, Istanbul dell’ultimo, Siria e Turchia si stanno sfidando a colpi di nevrili provocazioni e dimostrazioni di forza. La Turchia sa di non poter al contrario dell’Iran combattere da sola questa guerra egemonica ed ha per tanto bisogno di alleati esterni.

Inoltre la Siria in caso di aggressione da parte turca ha più volte fatto sapere di poter estemporaneamente scaricare sul complesso di dighe della Turchia meridionale una quantità devastante di missili, tale da sommergere l’intera area e lasciare il paese quasi privo di approvvigionamenti idrici e idroelettrici; per questo motivo Ankara è più propensa ad appoggiare eventuali aggressioni atlantiste o le rivolte interne alla Siria stessa. La questione delle migliaia di profughi per esempio è un’arma che la Turchia sta dimostrando di voler usare. In generale la strategia della tensione sui confini è già di per se un’azione belligerante (si pensi ai casi oramai sempre più frequenti di esplosioni di congegni militari vari) ma purtroppo anche i profughi, la loro sofferenza e il loro disagio possono essere facilmente strumentalizzati. Intanto bisogna ricordare che nel proverbiale balletto delle cifre relativamente a quante persone effettivamente abbiano preso parte da una parte o dall’altra al conflitto, quante siano le vittime e cosa stia realmente accadendo in zone dove la stampa fa difficoltà enormi ad essere presente la massa di migranti terrorizzati è un dato oggettivo e facilmente documentabile e arbitrariamente commentabile. Le migliaia di persone in movimento possono offrire il pretesto per un intervento risolutore in quanto è effettivo il rischio di destabilizzazione di una regione sotto il profilo politico dei rapporti tra minoranze e maggioranze religiose soprattutto la dove i rapporti si possono invertire, nonché sotto il profilo demografico e sanitario (ricorderemo il caso di settembre nero, dei campi profughi di Shabra e Shatila a Beirut e dei kurdi iracheni). Va purtroppo inoltre ricordato che queste masse possono sia essere utilizzate come scudi umani, ovvero come elemento di deterrenza, in caso di improvvisi scontri a fuoco sia come utile bacino di scontenti pronti ad imbracciare il fucile per rivolgersi dopo aver subito la dovuta propaganda contro la causa della loro disperazione. I confini siriani sono però anche strategici in entrata. E’ infatti ormai fatto acclarato che una cospicua parte dei miliziani ribelli non sono di origine siriana ma arabi appartenenti alla dottrina fondamentalista sunnita dei salafiti, provenienti dai paesi del Golfo Persico. Essi penetrano clandestinamente insieme al flusso di armamenti a loro destinati dal confine turco, nord libanese (dove Hezbollah tradizionalmente è poco presente e quindi non può vigilare sul flusso di nemici del loro alleato) e dalla Giordania, paese che ha sempre mantenuto un profilo geopolitico defilato ma che in realtà offre supporto alle forze atlantiche in particolare alla Gran Bretagna (a dimostrazione di ciò, se ce ne fosse ulteriore bisogno, si può ricordare uno di quei fatti di per se poco notevoli ma di grande valore simbolico ovvero che l’attuale Re di Giordania, Abdallah II, si è formato militarmente in una accademia militare inglese).

Infine concludendo, si osservi l’inconsueta mappatura dei siti maggiormente interessati dai fenomeni di rivolta. Quando un paese è in lotta contro un regime dispotico, gli eventi sovversivi armati di norma si verificano con la logica delle macchie di leopardo, con rapidi ed improvvisi atti guerriglia partigiana, a volte semplici atti di sabotaggio, disseminati in tutto il paese, come disseminate in tutto il paese dovrebbero essere le manifestazioni di piazza e atti di disobbedienza. E’ invece dubbio il concentrarsi chirurgico in alcune zone specifiche della nazione, quasi il tentativo non fosse quello di protestare contro un regime o indebolirlo fino a farlo cedere ma fiaccarlo, delegittimarlo, colpendolo nelle sue città nevralgiche, come a voler invece preparare il terreno per una invasione, per una guerra. E’ spiegabile anche in questo modo il concentrarsi delle rivolte sia nella capitale sia nella città più grande e prospera, Aleppo o nel porto del paese, Latakia. Si ha l’impressione che si vogliano riscrivere le coordinate del vecchio accordo Sykes-Picot dove il ruolo di Lawrence questa volta lo giocherebbero i veri o presunti ribelli. Mettere le mani sul Medio Oriente in questa epoca però non significa più organizzare o illudere a proprio vantaggio bande di beduini e cammellieri sperduti ma scatenare un evento bellico di proporzioni globali.

 

Emanuele Bossi è Dottore di ricerca in Geostrategia, ricercatore del Centro Studi Eurasia Mediterraneo e coautore del libro Nel cuore di Hezbollah (Anteo, 2012)



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