L’evoluzione storico-politica di ciò che oggi è l’Iran è da sempre intrinsecamente collegata a quella dell’ideale imperiale nel senso genuino del termine. Se nella sua dimensione politica tale idea ha conosciuto alterne fortune, momenti di fulgido splendore ed altri di profonda decadenza, la sua dimensione sacrale, almeno fino all’infausta era dello Shah Mohammed Reza Pahlavi, non è mai stata messa in discussione. In questo contesto la Rivoluzione khomeinista può essere letta in primo luogo proprio come restaurazione della dimensione sacrale e dell’ordine metafisico nello spazio politico e geografico dell’Iran. Una rivolta contro l’imposizione della profanità moderna inseparabilmente collegata agli eventi politici e geopolitici che si verificano attualmente nel Levante.

 

Racconta lo Shahnameh che Re Yima (o Jamshid), il Re dei Re, colui che dominò sopra la terra per settecento anni quando la morte non era ancora conosciuta tra gli uomini ed incontrò lo stesso Ahura Mazda nell’Aryanem Vaejo (centro iperboreo di irradiazione della civiltà aria), colmato il suo cuore di orgoglio, nominò se stesso Dio e pretese che la sua immagine fosse oggetto di venerazione. Fu allora che Ahura Mazda ritirò il suo favore dal Re, e gli stessi nobili e guerrieri si rivoltarono contro di lui sancendo, di fatto, la fine del suo regno.

Colto da estatica auto-esaltazione ma ben conscio che la sua autorità non fosse di derivazione divina ma provenisse dalla profana e non disinteressata benevolenza dell’entità capitalistica transatlantica, lo Shah Mohammed Reza Pahlavi, nel corso della sua fallimentare “rivoluzione bianca”, durante la seconda metà del XX secolo, nominò se stesso come Arya Mehr (sole ario)[1], arrogandosi altresì una presunta linea diretta di comunicazione con la divinità.

Fatte le più che ovvie e dovute proporzioni, alla pari di Re Yima, a Reza Pahlavi è venuta meno, o più probabilmente non ha mai posseduto, quella che Julius Evola ha definito la “virtù aria fondamentale”[2] – quella della verità – e di conseguenza la gloria (hvareno – la gloria solare intrinsecamente legata alla regalità nella tradizione iranica) l’ha abbandonato o rigettato scatenando il processo rivoluzionario. Di fatto, sotto lo Shah Mohammed Reza, considerato alla stregua di usurpatore e traditore non solo dell’intrinseco retaggio iranico ma anche e soprattutto della gnosi sciita, vennero meno i legami di fedeltà e di comunione spirituale che avrebbero dovuto saldare i rapporti di potere interni tra la monarchia ed il popolo iraniano. Basti pensare che, onde evitare potenziali coup d’état, ogni comunicazione militare doveva passare attraverso un complesso sistema di controllo diretto la cui sede centrale era nella dimora del sovrano stesso.

La principale colpa dello Shah fu dunque quella di aver anteposto alla comunanza spirituale col suo popolo dei rapporti di potere basati sul solo interesse profano ed utilitaristico; accettando totalmente un ordine di idee in cui il mero profitto diventa l’unico criterio del vero ed il tradimento della tradizione una prassi consolidata.

In questo senso la Rivoluzione, nonostante la sua iniziale natura ibrida derivata dall’eterogeneo ambito sociale e politico che la compose, finì per imporsi come restaurazione dell’ordine sovrannaturale tradito dal sovrano profano e usurpatore; e dunque come riappropriazione del senso metafisico dell’essere e della dimensione sacrale del destino storico del popolo iraniano di fronte alla brutale volgarizzazione economicistica di ogni aspetto della vita umana imposta dal processo di occidentalizzazione e modernizzazione forzata voluto dallo Shah.

Se alla Rivoluzione islamica possono essere collegati direttamente o indirettamente gli eventi politici e geopolitici che hanno contraddistinto la storia recente del Levante, il suo sostrato culturale ha radici profonde ed intrinsecamente legate allo sviluppo storico e politico dell’Iran anche nel millennio che precedette l’espansione dell’Islam all’interno del suo spazio geografico. Di fatto, esiste una stretta connessione tra lo sviluppo della gnosi sciita e la tradizione iranica che ha avuto nel mazdeismo e nella dimensione imperiale, universale e sacra le sue peculiarità intrinseche. Come afferma ancora una volta Evola, studioso attento alle dinamiche inerenti la tradizione ed il suo portato culturale: “Dopo l’islamizzazione dello spazio dell’antica civiltà iranica temi legati alla precedente tradizione ebbero modo di riaffermarsi […] L’imamismo sciita, il quale s’incentra sull’idea di un capo (Imam) invisibile che, dopo un periodo di assenza – ghaiba – riapparirà per vincere l’ingiustizia e riportare l’età dell’oro sulla terra altro non è che l’antico tema ario – iranico del çaoshyanç[3]

La gnosi sciita ha dunque avuto un peculiare sviluppo che la differenzia in modo determinante rispetto all’ideale utopico retrospettivo che contraddistingue il sunnismo. Questo ideale utopico retrospettivo, sviluppatosi a seguito della fitna (lo scontro fratricida che sconvolse la Umma islamica a seguito del brutale assassinio del terzo califfo Uthman), e volto all’assunzione della società costruita a Medina dal Profeta e dai primi quattro califfi “ben guidati” come modello da imitare e ricreare nel presente, si scontra apertamente con l’ideale sciita che in primo luogo riconosce solo alla diretta discendenza del Profeta il diritto supremo alla guida della comunità, ed in secondo luogo pone particolare enfasi nell’attesa messianica futura del ritorno dell’Imam dal suo occultamento. L’Imam della tradizione sciita, Soggetto partecipe del divino in quanto diretto discendente del messaggero di Dio, è infatti portatore di una concezione del mondo paradisiaco – polare non conservatrice o reazionaria, ma bensì escatologica, in quanto l’assenza di una visione metafisica dell’universo è percepita come male assoluto al quale bisogna porre rimedio. Tale soggetto rifiuta l’idea del Paradiso perduto propria del pensiero sunnita; non è un soggetto – esule ma semplicemente si occulta e con esso viene ad occultarsi anche il “Paradiso”.

Se l’eresiografia sunnita tradizionale, non totalmente a torto, percepiva lo sciismo come una forza eversiva volta alla distruzione del califfato (larga parte dei teologi sciiti del tempo esultò al saccheggio di Baghdad ad opera dell’esercito mongolo di Hulagu Khan), è altrettanto vero che questa volontà nasceva da un complesso sistema dottrinale che sin dalle sue fondamenta rigettava la prospettiva sunnita. Prendendo in considerazione la sola ascesa dottrinale dello sciismo duodecimano in quanto quello più strettamente connesso all’evoluzione storica iraniana, due personalità hanno avuto un ruolo preponderante nell’elaborazione teorica che successivamente influenzerà l’impostazione ideologico – religiosa della dinastia imperiale safavide: Nasir al-Din al-Tusi e ‘Allama al-Hilli. Nella prospettiva dei due teologi classici la superiorità dei duodecimani si palesa nella assoluta purezza ideale (tanzih) della loro professione di fede. “La loro teodicea bandisce ogni genere di compromesso con l’antropomorfismo dei teologi letteralisti che attribuiscono a Dio qualità tipiche del mondo creato […] Conferendo l’impeccabilità e l’infallibilità (‘isma) ai profeti ed agli imam, allontana da costoro ogni possibilità di errore nella trasmissione e nell’interpretazione della Legge. Gli hadith utilizzati dai duodecimani sono hadith veri, scrupolosamente trasmessi dai grandi imam e dai loro fedeli sostenitori, e non da uomini dalle intenzioni sospette”[4]. Uno di questi hadith tramanda che il Profeta disse: “Alla fine dei tempi si presenterà un uomo appartenente alla mia discendenza il cui nome sarà uguale al mio e la cui kunya sarà identica alla mia. Quest’uomo colmerà di giustizia la terra che sino a quel momento tracimerà di ingiustizia”[5].

In opposizione alla teodicea sunnita, ed in continuità con il mazdeismo[6], lo sciismo riconosce la libertà dell’uomo nello scegliere tra il bene ed il male. Affermare la negazione di atti liberi nell’uomo e l’onnipotenza assoluta di Dio, come fa il sunnismo, nella prospettiva sciita esplicata da al-Hilli, equivarrebbe a negare la saggezza stessa di Dio, trasformandolo nell’autore della corruzione e del disordine del mondo. “Poiché Dio, secondo i sunniti, non è determinato dal bene, non ricompenserà necessariamente i buoni, né punirà necessariamente i cattivi. É insito nella logica del sunnismo, concludere che Dio, essere sovrano ed arbitrario possa di fatto punire un profeta e ricompensare Iblis o Faraone. Negando l’infallibilità e impeccabilità dei profeti e degli imam, il sunnismo giunge ad ammettere che i profeti possono commettere non solo errori soggettivi nei giudizi ma anche pronunciare menzogne o infrangere la Legge”[7].

Appare evidente che la dottrina imamita, scollegata dalla teologia sunnita, si sviluppa in modo continuativo rispetto alla mistica mazdea. Così come nella tradizione iranica preislamica in cui il Re apparteneva alla casta dei magi e ne era a capo in quanto dotato, in virtù della sua gloria regale, di sovrannaturale intelletto, l’Imam della tradizione sciita è dotato di un altrettanto sovrannaturale conoscenza che rende la sua natura capace della comprensione di ciò che realmente è, e non delle sole illusorie forme sensibili. Ali ibn al-Husayn (primo successero del martire di Kerbala Husayn) era detto “l’orpello dei devoti” mentre il suo erede Muhammad al-Baqir veniva definito come “il ricercatore che giunge all’essenza delle cose”. Gli imam della tradizione sciita appartengono dunque a quell’ordine metafisico il cui centro si trova nella regione superiore dell’essere che per sua natura si contrappone alla regione inferiore del divenire. L’occultamento dell’ultimo Imam, Muhammad, scomparso nel 260 d.E. (874 dopo Cristo), rappresenta non solo un volontario sottrarsi all’oscuro destino degli uomini ma, attraverso l’invisibilità, il passaggio a natura immortale e dunque alla sfera dell’intangibilità che, in quanto sovramondo, è principio e vita vera.

Il tema dell’occultamento è comune anche in altre aree dell’Eurasia. Basti pensare all’ideale imperiale ghibellino ed al “magico sonno” attraverso il quale Federico I ed i suoi cavalieri continuano a vivere nell’attesa di ridiscendere a valle dal simbolico monte Kifhauser per combattere l’ultima decisiva battaglia che determinerà il sorgere di una nuove era. Oppure al magico anello che il leggendario Prete Gianni avrebbe regalato a Federico II (altro esponente della “stirpe divina” degli Hohenstaufen) ed attraverso il quale l’imperatore avrebbe avuto in dote il dono dell’invisibilità.

É evidente che entrambe le concezioni imperiali, sia quella ghibellina ed occidentale che quella iranica ed orientale, siano contraddistinte dall’enfasi sul valore sacrale, sovrannaturale ed universale di tale istituzione. Un’universalità che contraddistinse anche la dimensione imperiale bizantina ma che si dissolse lentamente a causa dell’intrinseco carattere identitario della grecità nell’epoca post-eraclea.

I sovrani safavidi, coloro che imposero lo sciismo come religione di Stato nella Persia del XVI secolo, pur riproponendo un modello politico che aveva il suo diretto antesignano nella mistica imperiale sasanide, consideravano se stessi come dei semplici “facenti-funzione” o “vicari” dell’Imam occulto, e mai si arrogarono titoli o meriti sovrannaturali caratteristici del “facitore di ponti” tra l’ordine naturale e sovrannaturale come fece la nefasta dinastia Pahlavi. Questo permise loro di garantirsi il quietismo e la sottomissione del clero sciita. Sottomissione che venne meno solo nel momento in cui gli ultimi esponenti di tale dinastia, al contrario dei suoi migliori rappresentanti Ismail I e Abbas il Grande, caddero in una spirale di decadenza e corruzione che li avrebbe inevitabilmente portati all’estinzione.

Se l’istituzione monarchica sopravvisse alla fine della dinastia safavide non poté fare altrettanto di fronte alla Rivoluzione islamica. La teoria politica khomeinista basata sul concetto di velayat e-faqih (vicariato del giureconsulto), infatti, rigetta totalmente la monarchia come istituzione pagana (taqut) ed a-islamica in quanto, nell’assenza dell’Imam, solo i mojtahed (giuristi) possono ricoprire il ruolo di guardiani della Legge. Ed il governo islamico è intrinsecamente il governo della Legge resa esplicita dal nobile Corano[8]. L’ingiunzione coranica “obbedite a Dio, al Profeta, ed a coloro i quali hanno tra voi hanno autorità”, nella prospettiva khomeinista, andrebbe dunque intesa come precisa indicazione volta a garantire l’obbedienza ai mojtahed.

Pur rigettando il valore sacro dell’istituzione monarchia, la prospettiva khomeinista si impone come restaurazione del principio della sovranità divina che si pone in aperto contrasto non solo con le istituzione politiche ultra-laiche della modernità occidentale ma anche e soprattutto con le monarchie assolute del Levante che nascondono sotto un velo falsamente islamico origini ed obiettivi assolutamente profani. Primi fra tutti il Regno dell’Arabia Saudita ed i suoi epigoni; creazioni imperialistiche britanniche, e sotto attuale protettorato nordamericano, in cui l’eterodossia wahhabita si è trasformata in ideologia di Stato presentando se stessa come Islam autentico.

Appare dunque evidente che l’odierno scontro geopolitico nel Levante non è solo il risultato del confronto tra modelli islamici differenti, ma anche tra un’idea imperiale genuina ed universale (plasmata attraverso i millenni e dalla contemporanea reimpostazione khomeinista della dottrina politica sciita) e forme completamente profane di imperialismo che hanno nel sionismo e nel wahhabismo i loro diretti alleati nell’area. E dunque tra una visione del mondo che ha profondi echi tradizionali, incentrata sulla restaurazione dell’ordine metafisico dell’essere, ed una visione del mondo ipocrita e profana in cui l’utile diviene verità assoluta. 


NOTE


[1]    E. Abrahamian, A history of modern Iran, Cambridge University Press, Cambridge 2008, p. 123.

[2]    J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1998, p. 29.

[3]    Ibidem, p. 308.

[4]    H. Laoust, Gli scismi nell’Islam, ECIG – Edizioni Culturali Internazionali Genova, Genova 1990, p. 275.

[5]    Ibidem, p. 146.

[6]    M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, BUR – Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2006, p. 336.

[7]    H. Laoust, Gli scismi nell’Islam, ivi cit., p. 277

[8]    R. Khomeini, Il governo islamico, Il Cerchio, Rimini, p. 41.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).