Nelle civiltà tradizionali, le forme devozionali si fondavano sulla realtà di una rotazione ciclica: quella della vita attorno ad un “polo”, dal quale l’Axis Mundi si innalzava a congiungere il cielo e la terra. Ciò risulta particolarmente evidente in quella civiltà iperborea primordiale che, insediata nelle regioni artiche, era profondamente segnata dalla condivisione del tempo divino per mezzo del Dio-anno (sei mesi di oscurità e sei mesi di luce) e dall’esperienza estatica della generazione della luce; dal primo apparire di un’alba che dura “molti giorni” (“bahulani ahani – come è riportato nel Rig-Veda) fino al levarsi del sole sull’orizzonte[1]. Il nucleo centrale di questa forma devozionale era la manifestazione del sacro in diverse forme e l’alternarsi di nascita, nutrimento, crescita, morte e rigenerazione[2].

L’istante del passaggio dalla Tradizione alla religione ha trasformato in modo radicale la percezione che l’essere umano ha avuto ed ha tuttora del divino. Il filosofo e teologo danese Søren Kierkegaard, esistenzialista ante litteram, a tal proposito affermava che la religione è un fatto eminentemente “moderno”. Secondo Kierkegaard, infatti, il mondo tradizionale era prevalentemente etico (e mitico); pervaso, così come era, dal sacro, esso si fondava sulla partecipazione dell’uomo all’eternità attraverso la costante percezione del divino. Al contrario, la religione, che rappresenta una rottura radicale con il passato, si fonderebbe su una sorta di scommessa sull’impossibile a cui l’uomo è stato costretto una volta che ha perduto il sostegno della Tradizione[3].

Tale passaggio può essere facilmente individuato nel momento in cui l’Uno onninclusivo del platonismo e del monoteismo primordiale cede il passo al Dio personale imperscrutabile dell’amore e dell’odio, capriccioso e vendicativo, tipico di quell’esclusivismo ebraico che ha travisato gli insegnamenti dei patriarchi caldei Abramo, Isacco e Giacobbe.

In questo senso, l’esperienza terrena del Cristo (protagonista di una vicenda simbolica che non poteva in alcun modo compiersi diversamente)[4] e la diffusione stessa del cristianesimo rappresentano una sorta di riscatto (seppur parziale ed inquinato) del Divino dall’attribuzione che ad Esso è stata fatta di sentimenti e passioni umane.

Il poliedrico studioso danese, naturalizzato tedesco, Herman Wirth, sostenne la tesi dell’esistenza di un purissimo monoteismo solare millenni prima dell’affermazione del monoteismo esclusivista ebraico e vide nel cristianesimo il risultato di una riaffermazione di questa Tradizione primordiale conservatasi per mezzo di un gruppo “atlantico” stabilitosi da tempi immemori in Galilea: terra ricca di tracce della civiltà megalitica solare[5].

Wirth, infatti, sosteneva che gli “Amorrei” o “Amorriti” – uno dei cosiddetti “Popoli del mare” – dopo essere fuggiti dall’ormai inabitabile centro sacro primordiale di Mo-uru (isola collocata dalla geografia sacra nel Nord dell’Atlantico) e dopo aver attraversato il Mediterraneo e le coste del Nord Africa, si erano stabiliti nella Palestina storica. A parziale sostegno di questa sua tesi vi sarebbe il fatto che il termine “am-uru”, in ebraico, significa proprio “Popolo dell’Occidente”.

Dunque, tanto il Cristianesimo (erede del platonismo) quanto (in modo ancora più evidente) l’Islam possono venire interpretati come una sorta di ritorno (riaffermazione) della Tradizione dei primordi, sia pure nella forma della “religione a tutti gli effetti”: la suddetta “scommessa sull’impossibile e l’ignoto” che già da tempo aveva scalzato il sacro per antonomasia della Tradizione.

Al contrario, la Riforma protestante, che spalanca le porte alla modernità, può essere interpretata come una re-insorgenza del Dio umanizzato dell’ebraismo. Essa nasce come volontà di ristabilire il primato di Gerusalemme (del testo biblico e della sua esegesi personale) su Atene e sull’interpretazione “platonizzante” che i padri teologi della Chiesa (da Origene e Dionigi l’Areopagita fino ad Agostino di Ippona e Giovanni Damasceno) hanno dato delle Sacre scritture.

È col Protestantesimo che si sviluppa una concezione di Dio propriamente moderna: quella del Dio della predestinazione. Nel Cristianesimo tradizionale (cattolico e ortodosso), la salvezza dipende dai buoni atti terreni; nella logica della predestinazione protestante, gli atti e le fortune terrene (la ricchezza ad esempio) sono al massimo un segno (per quanto ambiguo) del fatto che l’uomo è stato già redento dall’imperscrutabile volere del Dio “onniesclusivo” che agisce sulla base di un abisso irrazionale di volontà.

Le idee della “predestinazione” e della “redenzione terrena”, proprie di certo Protestantesimo, sono state profondamente influenzate dal messianismo neoebraico (da quella religione, del tutto differente rispetto alla precedente, originatasi a seguito del ritiro della presenza divina – Shekinah – dal Tempio di Gerusalemme e dalla diaspora).

Secondo questa particolare visione messianica, ben codificata anche dal pensatore medievale Mosè Maimonide (forse il più grande interprete della Legge ebraica dell’epoca), i giorni del Messia saranno l’epoca in cui verrà ristabilita la sovranità di Israele ed il Re-Messia stabilirà la sua sede in Sion, da lì espandendola su tutte le Nazioni e i popoli della terra.

Qui appare evidente l’aspetto terreno/mondano del messianismo ebraico volto alla realizzazione di una sorta di dominio universale. Il Regno immaginato è un Regno a tutti gli effetti. Come afferma Julius Evola, esso è “un dominio effettivo su questa terra di un popolo eletto da Dio a tale scopo”[6]. Dunque, non sorprende il fatto che il celebre Rabbino Capo di Roma Elio Toaff (1915-2015) affermasse: “L’epoca messianica è il contrario di quella che vuole il cristianesimo. Noi vogliamo riportare Dio in terra e non l’uomo in cielo”.

Questa “giudaizzazione del Protestantesimo” si è resa particolarmente evidente in primo luogo nel mondo anglosassone. Sulla base di un’antica leggenda secondo la quale il popolo inglese sarebbe diretto discendente di una delle dieci tribù perdute di Israele, nell’Inghilterra post-scismatica avvenne una sorta di processo di autoidentificazione con la “Nuova Israele”: un nuovo mondo che si opponeva al vecchio e corrotto mondo europeo[7].

Tale atteggiamento si è perpetuato in quei gruppi puritani estremisti che, partendo proprio dall’Isola britannica e nella profonda convinzione di rivivere l’esperienza biblica dell’Esodo e del Patto con un Dio esclusivo, colonizzarono il Nord America facendo strage della popolazione autoctona.

In questo contesto, il concetto di “predestinazione” raggiunge il suo apice nell’elaborazione dell’idea di “destino manifesto”: una consacrazione “provvidenziale” del neonato popolo americano che, autoidentificandosi in una sorta di “Messia collettivo” (il passaggio dal “Messia individuale” al “Messia collettivo” è un puro prodotto della Modernità: è una forma di “secolarizzazione” del messianismo), impone una trasformazione del mondo a sua immagine e somiglianza. Compiere questa trasformazione significa realizzare il Regno messianico-mondano universale: giungere alla “fine della storia” attraverso l’ascesa di un “Messia collettivo” – in potenza – destinato a dominare su tutta la terra.  

Questa idea è insita nel concetto stesso di Modernità come manifestazione del “gigantesco”. L’America (gli Stati Uniti) non è mai stata “grande” (lo stesso motto elettorale del “Make America Great Again” altro non è che un vuoto simulacro). La “grandezza” appartiene agli Imperi del passato: l’Eurasia alessandrina o quella gengiskhanide, l’Impero romano o l’Impero celeste della Cina, e così via. L’America è gigantesca in quanto la sua essenza filosofica poggia le sue basi sul gigantismo: il mito dell’infinita calcolabilità e della riduzione degli spazi per mezzo della tecnica moderna. L’America non può prescindere dal gigantismo, perché senza la sua dimensione gigantesca essa non è. Il presunto antiglobalismo dell’attuale amministrazione di Washington, in realtà, altro non è che un disperato tentativo di salvare la “globalizzazione americana” e con essa la stessa America.

Il suo messianismo, seppur rivestito di un afflato religioso-spirituale, è un messianismo meccanizzato e desacralizzato. Ed è su questa idea messianica che si fonda il progetto nordamericano (e occidentale) di imposizione su scala globale di quelli che sono identificati come i “valori” propri degli USA: il dominio della tecnica sullo spirito, l’ipocrita riduzione della sfera religiosa alla moralità, l’idea che la stessa “ricchezza” sia un segno della benevolenza divina.

A questo proposito, un fenomeno che merita particolare attenzione è quello dell’evangelicalismo. Un fenomeno che sta conoscendo una rapida diffusione al di fuori dei confini degli Stati Uniti e che, come ogni forma culturale-religiosa (o pseudo tale) da essi proveniente, è suscettibile di venir utilizzato per fini geopolitici.

L’evangelicalismo di origine anglosassone, di fatto, costituisce una delle più gravi minacce all’identità cristiana. Questo, essendo impostato su di una struttura elastica che consente teoricamente a chiunque sia in grado di leggere la Bibbia di diventare un predicatore, si pone in netta contrapposizione con quella tradizionale impostazione gerarchica che sta alla base del Cristianesimo.

Nell’Ispanoamerica il recente successo (si pensi al caso brasiliano) di queste deviate forme religiose si è fondato esclusivamente sulla loro totale consustanzialità col conservatorismo neoliberista di stampo nordamericano. Proprio in Brasile, negli ultimi trent’anni, le conversioni a queste sette si sono più che triplicate. Queste hanno ricoperto il vuoto lasciato dalle sinistre che, facendosi carico di altre questioni sociali (diritti civili in primo luogo), hanno finito con l’ignorare i diritti dei lavoratori e gli strati sociali più poveri. Tuttavia, questi personaggi che interpretano abusivamente alcuni passaggi del testo biblico[8] hanno ampiamente tratto profitto da quelle stesse persone che si prefiggevano di aiutare. E l’hanno fatto sulla base della cosiddetta “teologia della prosperità”: una presunta dottrina religiosa fondata sull’idea che devolvendo denaro, pregando ed aderendo ad un rigido sistema comportamentale ci si assicuri una ricompensa materiale in questo mondo[9]. Una dottrina che, non a caso, ben si presta a paragoni ed alleanze con quella già citata forma di messianismo, assolutamente “anticristico”, improntato alla costruzione di un “Regno” universale “in terra” al quale ogni popolo sarà sottomesso.

Non è dunque un caso se i più popolari pastori evangelici brasiliani sono anche alcuni tra i personaggi più ricchi del Paese. Questi, tra le altre cose, hanno trasformato i poveri brasiliani in un mercato da sfruttare e controllare al momento del voto. Ed è grazie a loro che è stato eletto l’evangelico Jair Bolsonaro, ispirato dall’ideologo neoconservatore Olavo de Carvalho, un autoproclamato filosofo ed agitatore politico residente (guarda caso) negli Stati Uniti, il quale ben conosce le dinamiche dell’utilizzo strumentale di un messaggio religioso per fini politici.

Il sostegno alla diffusione di forme religiose deviate (dal wahhabismo all’evangelicalismo) per puri fini geopolitici è prassi consolidata del pensiero strategico nordamericano. Questo è consustanziale all’America stessa, che sulla rottura con la tradizione religioso-culturale europea ha fondato il suo presupposto filosofico-esistenziale. In questo senso una particolare attenzione la merita anche il fenomeno del sionismo cristiano, che oggi rappresenta il più forte nucleo di potere intorno alla società statunitense.

Al sionismo cristiano è collegata una particolare concezione religiosa, anch’essa in qualche modo sviluppatasi su larga scala nella Modernità, secondo la quale è buono e giusto sacrificare la propria “anima eterna” a Dio. Ovvero, la diffusa convinzione che, tramite una “scientifica” ricerca dell’impurità e del peccato (sacrificando la propria anima), si possa “forzare la mano di Dio”: dunque, fare in modo che le tenebre siano talmente fitte da rendere necessario l’intervento divino.

Un esempio emblematico in questo senso è rappresentato dalle esperienze dei Messia autoproclamati Sabbatai Zevi e Jacob Frank, per i quali l’apostasia non era tradimento ma una sorta di sacro sotterfugio per distruggere i nemici dall’interno. Questa “mistica degenerata e blasfema” si fondava sull’idea che anche l’affermazione di un mondo profano ed empio potesse essere interpretato come un passaggio obbligato verso la “redenzione” (teoria che naturalmente contrasta apertamente con il concetto cristiano di Katechon – identificato nell’Impero – come potere frenante nei confronti della corruzione del mondo).

Tuttavia, è proprio da questa “mistica blasfema” che trae origine il sionismo, nonché l’interpretazione messianico-provvidenziale attribuitagli da alcuni esponenti dell’ebraismo ortodosso (che, almeno teoricamente, ad esso sarebbe dovuto rimanere estraneo), Abraham Kook su tutti. Secondo il padre del sionismo religioso, infatti, questo movimento era un momento del piano divino e “tutti gli eventi della storia sono permessi da Dio e partecipano alla redenzione, anche il male e le tenebre”[10].

Ma il sionismo cristiano si spinge ben oltre ed arriva ad affermare la necessità che tutti gli ebrei ritornino in Terra Santa, in modo da accelerare la nuova venuta di Cristo nel mondo cui seguirà una sorta di doppio Regno messianico: un Regno dei cieli per i “cristiani giusti” ed un Regno mondano destinato agli ebrei.

L’assalto del sionismo cristiano all’ormai debole Vaticano, colpevole di essere portatore di una visione geopolitica differente rispetto a quella del “nucleo” al potere a Washington, in questo senso, rientra nel già citato progetto di tutela/riaffermazione del disegno globale nordamericano.

Non vi è lotta interna alla gerarchia statunitense. L’unica disputa è quella sulle modalità attraverso le quali ridare slancio a quella progettualità geopolitica di egemonico dominio globale che la “Provvidenza” avrebbe garantito agli Stati Uniti. Ma tale “Provvidenza” altro non è che uno degli attributi di quel Dio “esclusivista” che ha occhi e cuore solo per il “popolo” che con Lui ha stretto un patto. Le forme religiose e culturali “altre” meritano la distruzione, in quanto non si conformano ai suoi dettami e voleri e rifiutano di assoggettarsi al (Suo) dominio tramite il popolo che (Lui) ha scelto. Questo è il “Dio” dell’unipolarismo.


NOTE

[1]Bal Gangadhar Tilak, La dimora artica nei Veda, ECIG, Genova 1994, p. 49.

[2]Marija Gimbutas, Le dee viventi, Medusa, Milano 2005, p. 33.

[3]Si veda Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Edizioni SE, Milano 2018.

[4]René Guénon, Il simbolismo della croce, Adelphi Edizioni, Milano 2012, p. 89.

[5]Si veda Arthur Branwen, Ultima Thule. Julius Evola e Herman Wirth, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2007.

[6]J. Evola, Sulla genesi dell’ebraismo come forza distruttrice, in La vita italiana, fascicolo CCCXL, luglio 1941.

[7]Si veda Gianluca Marletta, La guerra del Tempio, Irfan edizioni, Roma 2018.

[8]In particolar modo Giovanni (10,10): “Io sono venuto perché abbiano la vita, e la abbiano in più grande abbondanza”; e Lettera ai Filippesi (4,19): “Il mio Dio provvederà ad ogni vostra necessità, secondo la sua ricchezza, con la gloria in Cristo Gesù”.

[9]Paul Antonopoulos, L’influenza della setta evangelica nella società brasiliana, “Eurasia – Rivista di studi geopolitici” 1/2019.

[10]La guerra del Tempio, ivi cit.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).