La Turchia sta avocando a sé e conquistando il ruolo di potenza regionale, punto di contatto fra oriente e occidente. A tal fine la sua politica estera si sta, nuovamente, spostando ad est verso i vicini paesi mediorientali, pur mantenedo aperta la porta ad occidente, verso gli USA e l’UE. La questione ancora aperta relativa ai curdi e alla lotta trentennale con il gruppo terrorista del partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) pesano, però, sulla crescita geopolitica della Turchia, tanto che gli interessi economici statunitensi ed europei nell’area, da una parte, e la volontà di Ankara di avvicinarsi all’UE, dall’altra, fanno sì che ci siano forti pressioni esterne per la stabilizzazione dell’area. Tale obiettivo non può che passare, però,  attraverso la soluzione della questione curda.

D’altra parte, la capacità  di Ankara di trovare una soluzione efficace in merito, é fortemente condizionata dall’inscindibilità di una questione curda  da una questione PKK. La ricerca di nuovi tentativi di una possibile soluzione si configura, così, come l’avvio di una nuova fase di scontri con il gruppo terrorista, uno scontro che si combatte parallelamente su due fronti, quello della politica interna e quello delle relazioni esterne.

Politica interna: legittimazione politica e ritorno alla violenza

Sul fronte interno i rapporti tra Ankara e il PKK si configurano come  contrapposizione tra la ricerca da parte di quest’ultimo di una legittimazione politica e la chiusura del governo al dialogo con esso o con soggetti ad esso legati.

Un anno fa,  il governo di Recepp Tayyp Erdogan lanciava quella che è stata battezzata come “apertura democratica” o “iniziativa curda”, ovvero l’avvio di un percorso finalizzato alla definizione di una strategia globale per la soluzione del problema curdo.

Come alcuni osservatori hanno messo in evidenza l’apertura del governo è arrivata, non casualmente, in seguito all’annuncio della stesura da parte di Ocalan, leader in arresto del PKK, di una roadmap contenente le condizioni per deposizione delle armi nella trentennale insurrezione etnica-curda nel sud est turco. “La questione [curda] sarà risolta ad Ankara, non a Imrali” ha affermato il ministro degli affari esteri Ahmet Davutoglu facendo riferimento al luogo in cui è detenuto Ocalan. Il governo, rilanciando una propria iniziativa ha dunque voluto evitare di trovarsi nella situazione di dover prendere in considerazione delle raccomandazioni provenienti dal leader del PKK, riaffermando così di non voler accettare Ocalan come negoziatore, e rappresentante del popolo curdo, e di non considerare il PKK come controparte per ricercare una soluzione concordata alla questione curda.

La roadmap, la cui comunicazione era prevista per la metà di agosto dello scorso anno, è stata sequestrata dalla Procura e non ancora resa pubblica. Nonostante ciò, anticipi e indiscrezioni ne hanno reso noto, per grandi linee, il contenuto. Le condizioni delineate da Ocalan sostanzialmente mirano alla reinstaurazione di un assetto costituzionale simile a quello della carta del 1921, nella quale si riconosceva alle province un’ampia autonomia locale, in particolare in materia di educazione, salute, economia, agricoltura, sviluppo e questioni sociali. La legittimità del modello cosidetto della “autonomia democratica” sarebbe inoltre, ad opinione della leadership del PKK e del presidente del Partito per la pace e democrazia (BDP) Bayik, assicurata dalla Carta sull’autonomia dei governi locali, firmata dalla Turchia con l’Unione Europea nel 1988, e da certe condizioni poste dalla legge del 1991.

La roadmap, delineata da Ocalan, ha reso piuttosto scomodo, agli occhi del Partito della giustizia e sviluppo (AKP), al governo, il ruolo del Partito pro-PKK della società democratica sociale (DTP), che ha fatto sua la posizione di Ocalan e ha presentato il proprio documento nell’ambito dell’iniziativa curda, basandolo su un’ottica molto vicina a quella della roadmap.

Il DTP era il principale partito di rappresentanza curda avendo conquistato, nelle politiche del 2007, un sostanzioso numero di seggi. Nelle elezioni amministrative dell’aprile 2009 il DTP ha riscosso un nuovo importante successo, a discapito delle aspettative dell’AKP. Due settimane dopo, il 14 aprile, il PKK ha proclamato un cessate il fuoco, ritenedo che il successo elettorale potesse essere un segnale che i tempi erano maturi per la definizione di una soluzione democratica al conflitto. Il giorno dopo la polizia turca ha avviato una operazione di arresti ai danni dei membri della confederazione democratica curda (KCK) , arrestando molti deputati e sindaci del DTP. L’operazione, portata avanti fino a settembre scorso, si è conclusa con l’arresto di circa 1500 fra intellettuali, giuristi, politici e operatori sociali curdi. L’attacco al DTP si è completato nel dicembre 2009, con la sentenza della corte costituzionale che ne ha sancito lo scioglimento e l’espulsione dalla vita politica per cinque anni di numerosi suoi membri fra cui del presidente Türk, uno dei politici curdi più moderati e rispettati (Osservatorio Balcani-Caucaso, 30 aprile 2009).

É difficile non leggere questi eventi come il tentativo del governo turco, e in particolare dell’AKP di tagliare fuori l’ala politica dell’attivismo curdo. Se è vero che la motivazione ufficiale è quella di non scendere a contrattazioni con il gruppo terrorista criminale, è altresì vero che l’assenza di un interlocutore, con il quale trattare la pace, ha significato e significa la morte dell’iniziativa avviata dal governo per risolvere la questione curda e, conseguentemente, il ritorno alla violenza. Le frange armate del PKK, hanno trovato, infatti, legittimazione per compiere nuovi attacchi terroristici. Il 21 giugno scorso il PKK ha, inoltre, revocato il cessate il fuoco, unilateralmente proclamato nell’aprile 2009. Da quel giorno si contano più di 50 vittime di attacchi terroristi e scontri con l’esercito.

A peggiorare ancora  la situazione di caos è l’ostracismo dei partiti nazionalisti di opposizione, verso l’avvio del dialogo nell’ambito dell’iniziativa curda. Il partito del movimento nazionalista (MHP) ed il partito del popolo republicano (CHP), hanno dimostrato infatti forte ostilità verso l’iniziativa di governo. I rispettivi presidenti di partito, Devlet Bahceli e Deniz Baykal, hanno a più riprese affermato il loro rifiuto di dialogare con il PKK e con i movimenti ad esso legati, accusando Erdogan di voler mettere sullo stesso piano terroristi e martiri (Eurasia Daily Monitor, 21 agosto 2009; Middle East Report, 4 agosto 2010). Rifiutando di prendere parte alla ricerca di una soluzione pacifica alla questione dei curdi, i partiti di opposizione sono fortemente sospettati di avere interessi nel mantenere alte le tensioni e ad aizzare la violenza, come recenti fatti di cronaca hanno messo in evidenza – il JITEM, un comparto di intelligence interno alla gendarmeria e legato al MHP, è sospettato di aver preso parte a un attentato terroristico avvenuto nelle scorse settimane nel distretto di Dortyol, simulandolo come atto del PKK (Today’s zaman, 2 agosto 2010).

Relazioni esterne e controllo regionale

Guardando alle relazioni esterne, i rapporti fra Ankara e il PKK possono essere analizzati come il tentativo di entrambi di mantenere, o conquistare, il controllo della regione dell’Anatolia orientale. L’intento di Ankara è di isolare il PKK tagliando i suoi principali contatti internazionali.

È noto che il PKK ha potuto condurre la sua lotta grazie a un forte sostegno esterno. In particolare, fra gli altri, dai vicini Iraq e Siria ha ricevuto soldi, armi, addestramento, protezione e supporto politico e morale (vedi: Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). La Siria ha ospitato fino alla fine degli anni ’90 campi di addestramento del PKK nella Valle della Bekaa dei territori occupati del Libano; per tutti gli anni ’80 e ’90 Iran e Iraq hanno offerto ospitalità a basi ed a guerriglieri PKK, in cambio di informazioni di intelligence circa le istallazioni militari USA in Turchia. Inoltre il PKK ha tratto forza dai legami con le minoranze curde presenti in questi Stati,  con le quali condivide l’obiettivo della creazione di un Kurdistan indipendente, come previsto nel trattato di Sévres del 1920. Particolarmente importanti sono i legami con il Governo Regionale Curdo (KRG) del nord Iraq, che offre basi e protezione ai guerriglieri del PKK, ed è, soprattutto oggi, il principale alleato del PKK nella regione.

Il forte radicamento sul territorio e i legami con gli Stati nell’area hanno permesso al PKK non solo di avere forti basi per organizzare le sue attività, ma anche di cimentarsi in proficue attività economiche legate a traffici di armi e droga. Soprattutto per quanto riguarda queste ultime, l’area in questione non è solo un crocevia di traffici, ma anche un importante punto di produzione, soprattutto di oppiacei. Secondo quanto riferiscono recenti ricerche, il PKK gestisce circa il 60-70% dei traffici di droga in europa, il che gli permette di ricavare, è stato stimato, circa 40 milioni di dollari l’anno (Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). L’attacco USA in Iraq nel 2003, ha permesso al PKK di avvantagiarsi della situazione di caos politico, creando ulteriori importanti opportunità economiche e politiche legate al terrorismo transfrontaliero e ai traffici illeciti.

Dall’altra parte, a partire dai primi anni 2000 e con maggiore forza negli ultimi anni, la volontà di Ankara di affermarsi come potenza regionale ha fatto sì che essa intavolasse più strette relazioni con i suoi vicini mediorentali e stringesse accordi in chiave anti terroristica, privando sostanzialmente il PKK di importanti risorse logistiche ed economiche.

Nel corso degli ultimi dieci anni la Turchia ha siglato con la Siria nel 2000, con l’Iran nel 2004 e con l’Iraq nel 2007 dei memorandum d’intesa affinchè si sancisse il riconoscimento del PKK come gruppo terrorista e si adottassero misure per combatterlo. Nel memorandum siglato con l’Iraq sono inoltre incluse delle clausole che autorizzano incursioni militari turche nel nord del paese, effettuate nel 2008 e ripresi nei mesi scorsi.

Parallelamente Ankara sta lavorando per un ravvicinamento politico ed economico in particolare con Siria ed Iraq. Con tale obiettivo, a pochi mesi dal lancio dell’iniziativa curda, il 13 ottobre del 2009 è stato inaugurato il primo Consiglio di cooperazione strategica fra la Turchia, la Siria e l’Iraq (Eurasia Daily Monitor, 16 ottobre 2009). Il Consiglio si è svolto all’insegna dello slogan “destino, storia e futuro comune”. Durante gli incontri che hanno coinvolto diversi ministeri, come quello degli esteri, dell’energia, dell’agricoltura, dei trasporti, sono stati siglati più di 50 accordi, in ambito economico politico e commerciale. Fra  questi sono stati firmati anche accordi volti a rafforzare la lotta al terrorismo ed in particolare al PKK. Nell’occasione Erdogan ha inoltre annunciato un cambio di strategia nei confronti del Governo Regionale Curdo, decidendo di aprire un consolato a Arbil la capitale del Kurdistan iracheno, mirando a scoraggiare il governo curdo a dare sostegno politico e  logistico al PKK.

A sciolgliere i rapporti con i suoi vicini, sono state sostanzalmente  ragioni economiche, legate alla trasformazione della regione in uno strategico corridio energetico e ai forti interessi economici e politici degli Stati Uniti. Ne è un esempio la costruzione del gasdotto Nabucco che dovrebbe trasportare gas dalla regione caucasica in Europa tramite l’Iraq e la Turchia.

In ragione dell’evoluzione di tali relazioni, il PKK, ha subito l’arresto di centinaia di guerriglieri in Siria (Zaman, 16 luglio 2010) e la ripresa dei bombardamenti e dei rastrellamenti turco-iraniani delle proprie basi in Nord Iraq. Ha visto venir meno, dunque, il supporto esterno precedentemente assicurato.

La battaglia di rinascita del PKK

La lettura congiunta degli eventi sul piano delle relazioni esterne e della politica interna, permette di delineare un’analisi della strategia di lotta del PKK. La volontà di quest’ultimo di ricercare una legittimazione politica può essere letta, infatti, come consapevolezza circa il ruolo di corto respiro politico e strategico dell’uso dell’azione terroristica e criminale, soprattutto in relazione al cambiamento delle congiunture internazionali, ed in particolare dell’evolversi delle alleanze nella regione mediorientale ed al rafforzamento della lotta al terrorismo.

Tale processo è iniziato già da un decennio: quando Ocalan è stato arrestato, nel 1999, il PKK si è impegnato in quella che alcuni osservatori hanno definito “lotta per la rinascita”, ovvero il tentativo di costituirsi come pseudo partito politico, portando avanti le proprie istanze attraverso l’azione del movimento legale curdo (Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). Tale “lotta” significa, dunque, ottenere che i partiti pro-curdi trovino uno spazio consolidato di legittimazione. L’attivismo politico legale è sempre stato una componente importante dell’azione del movimento curdo. Nel corso degli anni ’90 sono nati una serie di partiti politici, relegati però al margine del gioco democratico proprio in ragione dei loro troppo espliciti legami con il PKK. In considerazione di ciò la stessa leadership del gruppo terrorista tenta di prendere, almeno ufficilmente, le distanze dalle rappresetanze legali del movimento curdo. In tal senso può spiegarsi perchè Ocalan ha raccomandato al partito nato dalle ceneri del DTP, il partito per la pace e democrazia (BDP), di non associarsi con il PKK e di non presentarsi come il suo portavoce, bensì di lottare sull’arena politica.

In termini di strategia, creare questo spazio di legittimità, permette al PKK di ritrovare un terreno di consensi sul quale portare avanti le istanze del movimento curdo. Non è casuale il fatto che la principale battaglia si stia al momento svolgendo nei termini di tutela delle minoranze e autonomia delle amministrazioni locali, tema che porta Ankara a confrontarsi – o scontrarsi- con l’UE circa gli obblighi imposti dal processo di integrazione.

Proprio in considerazione di tali interessi, sarebbe ingenuo pensare di poter effettivamente scollare il PKK dalla rappresentanza legale e politica curda. Una tale visione sottovaluta, inoltre, il grado di radicamento del PKK nella società civile. Tanto più che buona parte del bacino elettorale sul quale i partiti pro-curdi si sostengono sono persone che voterebbero, potendo, il PKK.  A sostegno di questa tesi è significativo notare che, nonostante le raccomandazioni di Ocalan e le dichiarazioni di intenti, il BDP abbia subito fatto propria la lotta per l’ “autonomia democratica” e che non abbia dato sin ora, significativi segnali di distacco dal PKK.

D’altra parte un atteggiamento troppo duro nei confronti dell’ala legale del movimento curdo, pur volta a colpire la sua ala armata, potrebbe rivelarsi un gioco troppo costoso. Infatti, gli atti di repressione e di chiusura del governo nei confronti del movimento curdo vengono utilizzati dal PKK, e dai suoi comparti più estremi, come pretesti per continare le azioni di guerriglia, come dimostra l’escalation di violenza degli ultimi mesi. Significative in tal senso sono le dichiarazioni rilasciate dal comandante in carica del PKK, nonchè presidente del KCK, Murat Karaylan il quale, in una intervista rilasciata al giornale Mylliet ha affermato che il KCK, pur avendo deciso di seguire la roadmap di Ocalan, ha allo stesso tempo deciso di prepararsi a continuare la resistenza armata contro lo Stato turco.

Potrebbe, dunque, essere miope da parte del Governo non riconoscere la sostanziale differenza che separa i politici dai guerriglieri, ovvero sottovalutare e lasciare cadere la volontà dell’attivismo politico curdo che mira al perseguimento dei fini politici attraverso mezzi non violenti. Si precluderebbe così la possibilità, difficile, ma possibile, di trovare un interlocutore con forti credenzialità per avviare a soluzione la “questione curda” e fare assurgere la Turchia a vera potenza regionale.

* Sara Bagnato è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)


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