La decisione del Presidente Donald J. Trump di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria (e parzialmente dall’Afghanistan) può essere interpretata sotto differenti chiavi di lettura, non tutte necessariamente inserite nel consolidato schema propagandistico che tende a presentare l’attuale amministrazione come “anti-sistema” ed ostile ai gruppi di potere del cosiddetto “deep state”.

 

“Eurasia”, con il numero 1/2017 dall’emblematico titolo “L’America non si isolerà”, è stata la prima rivista di studi geopolitici ad intuire che la nuova amministrazione statunitense, nonostante l’ostentata retorica “rivoluzionaria” utile a scopi propagandistici, in politica estera avrebbe agito in sostanziale continuità con la linea espressa dai suoi predecessori.

E, di fatto, nonostante l’evidenza empirica possa trarre in inganno, il sensazionalistico annuncio del Presidente Donald J. Trump di ritirare le truppe dalla Siria (e di dimezzare il contingente in Afghanistan) è in perfetta linea con il progressivo piano di sganciamento tattico dall’area del Levante (iniziato già nell’era Obama) e di re-indirizzo degli sforzi geopolitici statunitensi nel contenimento dell’ascesa della Cina a potenza globale. Un’eventualità che rappresenta un vero e proprio incubo geopolitico per una nazione il cui deficit commerciale nei confronti della Cina ammonta ad oltre 344 miliardi di dollari.

Oltre al fatto che da anni gli USA annunciano un mai avvenuto ritiro sia dall’Afghanistan sia dall’Iraq (come ha acutamente fatto notare il Presidente russo Vladimir Putin nell’annuale incontro con la stampa estera) e che ad un proclama trumpista raramente fa seguito una sua effettiva e completa realizzazione, nel caso specifico della Siria non si può non constatare che l’illegale presenza di 2000 soldati statunitensi (i dati ufficiali parlano di 2000 unità, ma tra militari e contractors il numero sale ad oltre 4000 uomini) è diventata (per ragioni che si cercherà di analizzare in seguito) strategicamente inutile se non addirittura dannosa per gli interessi nordamericani.

In primo luogo, nonostante la precisa volontà sionista e dell’ala oltranzista del Pentagono rappresentata dal dimissionario Segretario di Stato alla Difesa James Mattis, la creazione ed il mantenimento di uno Stato curdo fantoccio nel nord-est della Siria non vale assolutamente l’eventualità del riposizionamento eurasiatico della Turchia.

Abbandonare l’alleato curdo significa ridare vigore alle aspirazioni subimperialiste della Turchia (strategia già utilizzata all’inizio dell’aggressione alla Siria da parte dell’amministrazione Obama-Clinton) e riconquistare un alleato di fondamentale importanza per gli USA all’interno dell’Alleanza Atlantica.

L’idea della creazione di uno Stato curdo aveva portato ad uno scontro aperto tra il Comando europeo degli Stati Uniti (EUCOM), sotto il quale ricade la “giurisdizione” su Turchia ed Israele, ed il Comando centrale di Washington. Il generale Curtis Scaparrotti, a capo del Comando europeo, già a marzo aveva esposto a Mattis le sue perplessità circa le cattive relazioni tra USA e Turchia[1].

Relazioni che proprio nelle recenti settimane hanno conosciuto un quasi inaspettato miglioramento (come ha affermato lo stesso Ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu) anche grazie a lunghi ed amichevoli colloqui telefonici tra Donald J. Trump ed il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

Restituire alla Turchia un ruolo di primo piano all’interno della NATO significa poter sfruttare la sua proiezione geopolitica in profondità all’interno di quella fascia turanica che dall’Ungheria arriva fino alla Cina e che dalle elaborazioni teoriche di Halford J. Mackinder in poi continua a rappresentare una dimensione geografico-spaziale di fondamentale importanza per la geopolitica globale. Una area attraverso la quale proprio la Cina sta cercando, lungo vie terrestri, di sfuggire al controllo talassocratico statunitense sul Rimland eurasiatico e sui flussi energetici.

Allo stesso tempo, liberare l’enclave siriana dello Stato islamico (teoricamente causa della presenza nordamericana in Siria ma mai del tutto combattuta) dall’accerchiamento significa dare il via libera al ritorno di migliaia di foreign fighters nei rispettivi paesi di origine. E considerato il fatto che in larga parte si tratta di combattenti arruolati in Asia centrale, non è da escludersi un loro riutilizzo per la destabilizzazione delle aree destinate ad ospitare il passaggio della nuova Via della Seta nonché della  regione cinese (islamica e turcofona) dello Xinjiang.

A ciò si aggiunga che il ritiro statunitense rappresenta un doppio favore alla Turchia ed alle milizie gihadiste ad essa collegate che occupano la regione nord-occidentale della Siria. Infatti l’Esercito arabo siriano, che mirava con i suoi alleati a liberare l’area di Idlib in primavera dalle rimanenti sacche di resistenza qaidista, vedendosi costretto a dislocare truppe nel nord-est del paese, recuperare il controllo sulle aree ricche di gas e petrolio e ad impegnarsi lungo l’Eufrate, non potrà concentrare i suoi sforzi nell’operazione di riconquista dell’importante centro in prossimità dei confini turchi.

Questo potenziale rinnovato idillio tra Ankara e Washington potrebbe, nel lungo periodo, riportare la Turchia a svolgere il ruolo che storicamente le è stato assegnato dal suo ingresso nella NATO in poi: il ruolo di pivot geopolitico per il controllo nordamericano sulle aree del Levante, del Mediterraneo orientale, dei Balcani e del Mar Nero. E non è un caso che una simile apertura alla Turchia avvenga nel momento in cui ingenti quantità di armi statunitensi stanno arrivando al governo golpista ucraino dopo la crisi scoppiata con la Russia in Crimea nelle prossimità dello Stretto di Kerc’, e nel momento in cui gli stessi USA stanno armando le entità statuali da loro create nell’area balcanica: ancora una volta, non a caso, area di importante valore strategico come terminale europeo per il trasferimento delle ricchezze dell’Asia centrale.

Gli sforzi nordamericani si stanno dunque concentrando nel “contenimento” e nel sabotaggio dei progetti di cooperazione economica dell’Eurasia a guida sino-russa e nel tentativo di rinchiudere l’Europa all’interno di una sorta di “gabbia d’acciaio” di weberiana memoria, in modo da impedirle ogni potenziale relazione che leda gli interessi geostrategici di Washington. Si veda a tal proposito l’imposizione delle sanzioni unilaterali all’Iran e la minaccia di pesanti ritorsioni a chiunque volesse mantenere inalterati i legami commerciali con la Repubblica Islamica. Un atteggiamento aggressivo che ha già prodotto la cancellazione di Teheran dall’elenco delle destinazioni delle linee aeree europee e il rifiuto dei rifornimenti agli aerei di linea iraniani in diversi aeroporti del Vecchio Continente.

E non è da escludere che la Turchia, come parziale contropartita per il “favore” nordamericano in Siria, e magari per una ormai non più impossibile estradizione di Fethullah Gülen, inizi ad allentare i suoi legami economici con l’Iran. Una Turchia reinserita completamente all’interno dello schieramento occidentale rappresenterebbe infatti anche un punto d’appoggio privilegiato per una eventuale aggressione futura all’Iran.

In secondo luogo, la minaccia turca di attaccare i gruppi curdi in Siria aveva reso la situazione assolutamente insostenibile per i militari nordamericani[2]. La possibilità di uno scontro aperto con la Turchia (comunque remoto) o con l’Esercito arabo siriano avrebbe potuto produrre degli esiti disastrosi, tali da mettere in pericolo la ricandidatura e la rielezione di Donald J. Trump nel 2020.

Paradossalmente, le continue provocazioni sioniste, che hanno raggiunto il culmine con l’abbattimento dell’aereo russo II-20 e la morte del suo intero equipaggio, lungi dal produrre l’inasprimento del conflitto desiderato da Tel Aviv, hanno ottenuto l’effetto contrario, mettendo a rischio la presenza del contingente nordamericano in Siria.

Già da diverse settimane sono state dispiegate nell’area vicino a Deir ez-Zor le batterie di missili S-300. Dal momento in cui la Russia ha fornito alla Siria questo avanzato sistema di difesa missilistico (nel dettaglio 8 batterie di S-300/PMU2 con un raggio d’azione di 250 km l’una) la Coalizione a guida nordamericana ha ridotto le proprie operazioni aeree dell’80% ed ormai da settembre i caccia sionisti non riescono più a penetrare nelle zone di esclusione aerea sul territorio siriano[3].

Inoltre, la gestione della difesa antiaerea è stata organizzata attraverso il sistema automatizzato Polyana D4M1, che riceve informazioni dai satelliti russi e consente l’impiego coordinato e simultaneo di unità aeree ed antiaeree.

Questo, come ha affermato l’analista ed esperto di tecnica militare Valentin Vasilescu, ha sancito l’inferiorità tattica del contingente statunitense in Siria, costituito in larga parte di truppe di fanteria leggera prive di artiglieria pesante[4]. Ed in caso di scontro aperto l’aviazione nordamericana non sarebbe in grado di penetrare nello spazio aereo siriano senza il rischio di dover subire perdite considerevoli.

Non è comunque da escludere che al disimpegno ufficiale facciano da contraltare un maggiore impegno di mercenari al soldo della CIA ed un ruolo esclusivamente logistico esterno (come avviene già nello Yemen) per il personale militare nordamericano. Infatti, se è vero che il contingente USA abbandonerà la Siria, dove la sua presenza oltre che illegale è diventata inutile e rischiosa, è altrettanto vero che gli statunitensi sono praticamente ovunque attorno alla Siria e che lo stesso Mediterraneo è un mare nordamericano in cui la Sesta Flotta spadroneggia indisturbata. E con tutta probabilità, nonostante la vittoria sul terrorismo sponsorizzato dall’Occidente, un presente ed un futuro di sanzioni (in stile Iran) aspetta al popolo siriano. 

Tuttavia, al di là dei proclami trumpisti e dalle reazioni isteriche delle élites imperialiste e filoatlantiste nordamericane ed europee, il comportamento statunitense nei confronti dell’ormai quasi ex alleato curdo, a più riprese sedotto e tradito tanto in Siria quanto in Iraq, dovrebbe fungere da lezione per quei partiti “sovranisti” europei che mirano a legarsi indissolubilmente ad una potenza declinante, che calpesta da oltre cent’anni la sovranità dell’Europa e delle sue nazioni, pur di ottenere qualche concessione dall’altrettanto declinante e sclerotizzata Unione tecnocratica.


NOTE 

[1]Perché Trump ha deciso di rimuovere le truppe statunitensi dalla Siria, su www.aurorasito.altervista.org.

[2]M. K. Bhadramakur, Trump’s Syrian pull out is a game changer, su www.indianpunchline.com.

[3]V. Vasilescu, Perché gli Stati Uniti all’improvviso sloggiano dalla Siria, su www.voltairenet.org.

[4]Ibidem.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).