Il 2013 da poco terminato è stato senza dubbio un anno ricco di successi per la Russia. Malgrado gli indici economici non siano propriamente esaltanti, la Russia può ancora presentarsi come un’isola di sviluppo economico nel mare della stagnazione europea. Dopo quasi due decenni, la popolazione russa torna a crescere anche al netto dell’immigrazione[1]. Ma è in politica estera che il Cremlino ha registrato i maggiori successi, concentrati soprattutto negli ultimi quattro mesi dell’anno. Nel settembre 2013, nei giorni di massima tensione tra Stati Uniti e Siria, Putin ha proposto ad Assad la consegna del suo arsenale di armi chimiche, prevenendo così un attacco americano che molti davano quasi per certo. Nello stesso periodo l’Armenia ha chiesto di aderire all’Unione Doganale Eurasiatica. Alla fine di ottobre, le elezioni presidenziali in Georgia hanno segnato la fine del lungo regno di Mikheil Saakašvili, convinto filoccidentale e fortemente ostile alla Russia, e la sua sostituzione col più conciliante Giorgi Margvelašvili. E, il 21 novembre, è arrivato il rifiuto del Primo Ministro ucraino Nikolaj Azarov di sottoscrivere l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea – la cui stipula, tuttavia, era tutt’altro che certa vista la mancata osservanza da parte di Kiev di alcune delle condizioni poste dall’UE – e di rilanciare i legami con la Russia e la CSI. Vani sono stati i tentativi delle autorità comunitarie e statunitensi di far tornare l’Ucraina sui propri passi.

Nel frattempo, però, a migliaia di chilometri più a est, il Kirghizistan rifiutava di stipulare l’accordo di adesione del suo Paese all’Unione Doganale, dopo aver ambito a quest’obiettivo per oltre due anni. Il Kirghizistan è un Paese povero ma geopoliticamente strategico, e il suo gran rifiuto non può essere preso sotto gamba. Per la Russia, comunque, il bilancio resta nettamente positivo.

La situazione in Ucraina vede attualmente un netto vantaggio della Russia sull’Europa. Sebbene resti improbabile che l’Ucraina aderisca all’Unione Doganale Eurasiatica nel prossimo futuro, non è da escludersi che ciò possa avvenire dopo il 2015, soprattutto in virtù dell’accordo recentemente sottoscritto tra Ucraina e Russia. Malgrado le intense pressioni provenienti tanto dalle potenze occidentali quanto dal massiccio movimento di protesta filoeuropeo divenuto noto come Euromaidan, il Presidente ucraino Janukovič sembra abbastanza determinato a non tornare sulle proprie decisioni. Presidente di un Paese all’orlo della bancarotta e bisognoso tanto di aiuti quanto di gas più economico, dopo aver bussato invano alle porte dell’UE e del Fondo Monetario Internazionale, Janukovič ha guardato verso il Cremlino. Nel corso della crisi ci sono stati intensi contatti informali tra Janukovič e Putin, e il 17 dicembre 2013 il Presidente russo ha decretato la riduzione dei prezzi del gas esportato in Ucraina da 400 a 268,50 dollari per mille metri cubi e acquistato un pacchetto di quindici miliardi di dollari di titoli di Stato ucraini attraverso il fondo sovrano del Paese. Il tutto, almeno ufficialmente, è stato concesso senza alcuna precondizione, men che meno l’adesione all’Unione Doganale[2].

Si tratta indubbiamente di una dimostrazione del pragmatismo di Putin. Durante la crisi ucraina, infatti, il Presidente russo si è generalmente astenuto dal porre ultimatum o dal vincolare ogni aiuto a Kiev all’adesione all’Unione Doganale Eurasiatica, affermando persino che “l’Ucraina potrebbe sottoscrivere l’accordo di libero scambio con l’UE e, nel contempo, mantenere solidi legami commerciali con la Russia”[3]. Anche per questo, a seguito della mancata sottoscrizione dell’Accordo di Associazione con l’UE da parte di Janukovič e delle conseguenti critiche da parte delle autorità comunitarie, Putin ha addirittura potuto presentarsi come un garante dell’indipendenza ucraina, invertendo i ruoli con l’Europa. Durante il recente incontro con Letta, ad esempio, il Presidente russo ha affermato che “è l’Ucraina, in quanto Stato sovrano, a decidere con chi firmare un accordo di libero scambio, e noi rispetteremo ogni sua decisione” e ha invitato l’Europa a “non usare parole dure” contro l’Ucraina[4].

Putin, dopotutto, sa bene che, in queste circostanze, porre l’adesione all’Unione Doganale come precondizione per ogni aiuto sarebbe controproducente, in quanto allontanerebbe l’Ucraina e aizzerebbe le critiche dell’Occidente. Per questo, il recente aiuto russo è stato offerto – almeno ufficialmente – senza precondizioni. Alla fin fine, ciò che adesso è realmente importante per il Presidente russo è che l’economia ucraina si riprenda in qualche modo (e già oggi non mancano i segnali di miglioramento, come la stabilizzazione del tasso di cambio della Hryvnia[5]), che Janukovič venga rieletto alle prossime presidenziali, previste per il 2015, l’Occidente accetti il ruolo della Russia nella regione e le proteste filoeuropee terminino, facendo così scemare l’attenzione internazionale sull’Ucraina.

E, se è vero che non è ancora cessata l’ondata di proteste che nelle ultime settimane ha investito l’Ucraina, in particolare le sue regioni centrali e occidentali, è anche vero che oggi il movimento è molto più debole di quanto non lo fosse alcune settimane fa. Solo poco più di ventimila persone hanno partecipato alle proteste in Piazza Indipendenza il 12 gennaio 2014[6], mentre circa un mese prima erano in mezzo milione, almeno secondo le stime degli organizzatori, a protestare per le strade di Kiev. L’atteggiamento di Janukovič, che fino ad ora si è astenuto dal ricorrere alla repressione in modo massiccio, sta cambiando e diventando più rigido. Il 30 dicembre 2013, ad esempio, il Presidente ucraino ha ratificato un decreto che introduce il reato di “occupazione illegale di edifici pubblici”, e il provvedimento riguarda chiaramente i dimostranti che ancora oggi occupano alcune sedi istituzionali, tra cui il Municipio di Kiev[7]. Ma gli stessi Kieviani, pur essendo tendenzialmente filoeuropei, sembrano essere ormai stanchi dei continui disagi provocati dalle proteste e del comportamento dei manifestanti, come dimostrano anche le crescenti denunce nei confronti di questi ultimi[8].

Mentre l’Ucraina sembrava sull’orlo di una seconda Rivoluzione Arancione, l’Armenia procedeva a passi da gigante lungo cammino dell’integrazione eurasiatica. Il 24 dicembre 2013, a poco più di tre mesi dalla richiesta dell’Armenia di aderire all’Unione Doganale, è stata emessa la versione definitiva dell’accordo di adesione alla stessa. E, durante il suo messaggio di fine anno, il Presidente armeno Serž Sargsyan ha affermato che il suo paese potrebbe aderire all’Unione Doganale già nel 2014. Gli ultimi mesi, poi, hanno visto una decisa intensificazione dei rapporti russo-armeni: agli inizi di dicembre, durante la sua visita a Erevan, Putin ha annunciato la riduzione dei prezzi delle esportazioni del gas da 270 a 189 dollari per mille metri cubi e menzionato la possibilità di applicare i prezzi russi nella vendita di armi all’Armenia[9]. Erevan, in cambio, ha venduto alla Gazprom il 20% delle azioni di Armrosgazprom, la joint venture russo-armena per il gas, che così è diventata russa al 100%. La mossa, tuttavia, ha suscitato alcune proteste da parte dell’opposizione[10].

Più forti sono state le proteste provenienti dall’Azerbaigian, che per bocca di un suo alto rappresentante ha ribadito che “l’adesione dell’Armenia all’Unione Doganale, o a una qualunque organizzazione internazionale di questo tipo, potrà essere possibile solo dopo la liberazione dei territori azeri occupati”[11]. Il timore principale è quello di un riconoscimento informale, o peggio ufficiale, dell’indipendenza della Repubblica del Nagorno-Karabach, fondata nell’omonima provincia autonoma ex-azera col sostegno dall’Armenia. La questione è stata sollevata anche dal Presidente kazaco Nursultan Nazarbaev, il quale, durante le discussioni sull’accordo di adesione dell’Armenia all’Unione Doganale, ha sottolineato la necessità di delineare chiaramente i confini esterni dell’Unione. Il documento, però, è stato emesso senza alcun riferimento alla questione Karabach, e un politico armeno ha persino affermato che il Nagorno-Karabach diventerà uno Stato membro dell’Unione Doganale[12]. In ogni caso, se si escludono la questione Karabach e l’assenza di confini diretti con il resto dell’Unione, non sembrano esserci particolari ostacoli all’adesione armena all’Unione Eurasiatica. Lo stesso Nazarbaev ha dichiarato che l’Armenia è molto più pronta al conseguimento di questo traguardo rispetto al Kirghizistan[13].

Tra i vari candidati all’Unione Doganale, questo piccolo Paese del Centrasia schiacciato tra Kazakistan e Cina sembra essere uno dei meno desiderati. Le ragioni sono molteplici: la forte povertà (il Kirghizistan è il secondo Paese più povero dell’ex Unione Sovietica dopo il Tagikistan), la porosità dei suoi confini, che consentono al Paese di assumere il poco invidiabile ruolo di crocevia per traffici di droga e armi, e l’instabilità delle sue regioni meridionali, soprattutto a causa della diffusione del Wahhabismo e dei periodici ma sanguinosi scontri interetnici tra i Kirghisi e la minoranza uzbeca. Eppure il suo attuale Presidente Almazbek Atambaev è un convinto fautore dell’adesione del suo Paese all’interno dell’Unione Doganale. Per il Paese, dopotutto, i tornaconti non mancano: entrando nell’Unione Doganale, infatti, il Kirghizistan potrebbe contare su un alleato forte e limitare il rischio che il proprio Paese venga inghiottito da una spirale di instabilità o diventi una sorta di satellite della Cina.

Nel 2011 il Paese ha richiesto ufficialmente di entrare nell’Unione Doganale[14], e nell’aprile del 2013 Atambaev ha affermato che il suo Paese potrebbe diventare il quarto membro dell’Unione già alla fine dell’anno[15]. Tutto sembrava andare per il meglio. A giugno il governo kirghiso ha deciso di non rinnovare il contratto con gli Stati Uniti per la concessione della base aerea di Manas, nei pressi della capitale kirghisa Biškek. La base sarà ufficialmente chiusa a partire dall’11 luglio 2014[16]. La Russia, intanto, potenzierà la sua base aerea di Kant, sempre vicino Biškek[17], e costruirà una nuova installazione militare sulle rive del lago Issyk-Kul[18]. Un mese dopo Gazprom ha acquistato la compagnia nazionale del gas Kyrgyzgaz al prezzo simbolico di un dollaro. A dispetto delle apparenze, però, l’affare è tutt’altro che sconveniente per il Kirghizistan: il colosso energetico russo, infatti, si è impegnato a investire 670 milioni di dollari per la modernizzazione delle infrastrutture e a pagare i 38 milioni di dollari di debiti della società kirghisa. Gazprom, inoltre, avrà la proprietà di Kyrgyzgaz per soli venticinque anni, terminati i quali la società tornerà in mano kirghisa qualora l’accordo non venga rinnovato[19].

Restano, però, alcune questioni irrisolte, le quali hanno condotto Atambaev a non firmare l’accordo di adesione con l’Unione Doganale. Una di queste è quella dei dazi compensativi: in qualità di Paese membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), infatti, il Kirghizistan dovrà pagare delle compensazioni a una serie di Paesi dopo aver allineato (solitamente verso l’alto) i propri dazi a quelli dell’Unione Doganale. Il Paese del Centrasia, pertanto, chiedeva che gli fosse temporaneamente consentito di mantenere i propri dazi su circa 2.600 prodotti. Tra le altre condizioni poste dal governo kirghiso ricordiamo la richiesta di un finanziamento di 415 milioni di dollari per il rafforzamento dei confini esterni del Paese e l’avvio di una serie di iniziative per favorirne lo sviluppo economico, una clausola sulla libera circolazione dei migranti kirghisi nel territorio dell’Unione e un rinvio della liberalizzazione del commercio nei bazar di Dordoj, nel cuore di Biškek, e di Kara-Suu. Nessuna di queste condizioni, però, era stata soddisfatta nel documento di adesione emesso a novembre dalla Commissione Economica Eurasiatica. Nazarbaev ha recentemente dichiarato che “non ci sarà alcuna adesione all’Unione Doganale a condizioni speciali”, e Biškek, a sua volta, si è rifiutata di firmare l’accordo. Il vicepremier kirghiso Džoomart Otorbaev ha però declinato l’idea di essere stato vittima di un ultimatum russo-kazaco, sottolineando la sua volontà di avviare nuove consultazioni col trio eurasiatico e di sottoscrivere un nuovo accordo di adesione nel maggio 2014[20].

Il Kirghizistan sembra quasi essere il quarto incomodo nell’Unione Doganale. L’interesse per il Paese, dopotutto, è legato principalmente alla sua posizione geografica e alla volontà di prevenire – o almeno di limitare – un’ulteriore destabilizzazione dell’area, specie dopo l’ormai imminente partenza delle truppe statunitensi dall’Afghanistan e dalla base di Manas. Tra qualche mese l’Asia Centrale sarà completamente libera dalla presenza militare americana, gli interessi occidentali nella regione saranno essenzialmente limitati a quelli delle società europee e statunitensi impegnate nell’estrazione delle materie prime, petrolio e gas naturale in primis, e Russia e Cina resteranno i due maggiori pretendenti all’influenza geopolitica sulla regione. E, tra i due alleati-litiganti, la Russia gode attualmente di un certo vantaggio. Nel contempo, però, aumenteranno i rischi connessi all’espansione del fondamentalismo islamico, in particolare in Tagikistan e nel Kirghizistan meridionale. Ciò è in parte legato al forte tradizionalismo religioso di alcune regioni, come la Valle di Fergana[21], ma molto è dovuto alla forte povertà. In una regione come l’oblast’ kirghiso di Batken, nella Valle di Fergana, dove la disoccupazione si aggira tra il 60 e l’80%, salari come quelli tra i 100 e i 500 dollari mensili che il Movimento Islamico dell’Uzbekistan offriva alla fine degli anni Novanta possono risuonare particolarmente attraenti[22]. Un eventuale proliferazione dei fondamentalismi nel Centrasia avrebbe ripercussioni su quasi tutti i Paesi della CSI; dopotutto, come diceva anche El’cin, “il confine tra Afghanistan e Tagikistan è di fatto un confine russo”[23].

E’indubbio che lo sviluppo economico e sociale può contribuire in maniera determinante a ridurre la presa dell’integralismo islamico, e sono in molti ad affermare che un’eventuale adesione all’Unione Doganale, nel complesso, produrrebbe forti benefici sull’economia kirghisa. L’economista kazaco Sergej Akimov, ad esempio, prevede un forte sviluppo dell’industria manifatturiera kirghisa[24], mentre Atambaev, più specificamente, afferma che l’industria tessile del Paese diventerebbe la prima della CSI[25]. Non tutti, però, condividono il loro ottimismo. Il politologo kazaco Sanat Kuškumbaev ritiene che i benefici complessivi per il Paese derivanti dall’adesione all’Unione Doganale sono alquanto opinabili a causa del forte ruolo del sommerso nell’economia del Paese[26]. Inoltre non pochi, specie in Kazakistan, sono preoccupati dalle ripercussioni tanto sulla sicurezza quanto sulla concorrenza dell’adesione kirghisa all’Unione Doganale. Žomart Aldangarov, Presidente dell’Associazione degli Imprenditori Eurasiatici, ritiene che le piccole e medie imprese (PMI) del Kazakistan avrebbero difficoltà nel competere con i kirghisi, che possono contare su costi di produzione inferiori[27].

E’notevole che molti, tra gli oppositori kazachi all’ingresso del Kirghizistan nell’Unione Doganale, sembrano concordare sul fatto che lo stesso non solo favorirebbe lo sviluppo economico del Paese, ma migliorerebbe la sua sicurezza. Ciò, però, porta a mettere in discussione gli stessi fondamenti dell’Unione Doganale: è solo un mezzo per ottenere guadagni immediati, senza una visione, oppure può realmente diventare uno strumento per garantire pace, stabilità e sviluppo economico alla regione? Una delle basi dell’Unione Doganale Eurasiatica, come peraltro di qualunque organizzazione economica che si propone di realizzare fini a lungo termine, è, o almeno dovrebbe essere, la solidarietà tra gli Stati membri. Ma, se aiutare il Kirghizistan è un dovere sia materiale sia morale per il trio eurasiatico, va anche detto che ciò non solo sta già accadendo – la Russia, ad esempio, sta attualmente finanziando la costruzione di una centrale idroelettrica –, ma, a lungo andare, ciò presenta un rischio morale ben preciso, ossia che il Kirghizistan diventi eccessivamente dipendente da aiuti che magari servono non tanto a stimolare lo sviluppo, quanto a rafforzare gruppi di potere e reti di corruzione. E, secondo un imprenditore kazaco, già oggi la classe dirigente kirghisa, a causa delle rivoluzioni ricorrenti e della mai sopita instabilità, ha sviluppato una certa dipendenza dagli aiuti internazionali[28].



[21] La Valle di Fergana è una regione locata tra Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.

[22] D. Hiro, Inside Central Asia, Overlook Duckworth, New York/Londra 2011, p. 298.

[23] S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 403.


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