Il recente vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (meglio nota con l’acronimo anglofono SCO), cui è seguita la parata per i festeggiamenti della vittoria cinese contro il Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, ha suscitato importanti reazioni in quella che si autodefinisce come “comunità internazionale” ma che, di fatto, rappresenta il solo Occidente a guida nordamericana. Qui si cercherà di analizzare gli esiti della conferenza, il suo impatto sulla potenziale evoluzione dell’ordine globale verso il multipolarismo, la reale capacità dei suoi membri a cooperare attivamente per questo obiettivo, e le eventuali reazioni dell’Occidente .

 

Che cos’è l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai?

Prima di esaminare gli esiti del vertice di Tianjin, sarebbe opportuno soffermarsi su ciò che l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai rappresenta oggi. Questa, di fatto, nacque nel 2001 come erede del gruppo Shanghai 5 e come strumento di contrasto al terrorismo, alle correnti secessioniste ed alle organizzazioni criminali (impegnate nel traffico di droga o di esseri umani) in Asia Centrale, ed includeva inizialmente la Cina, la Russia e le repubbliche centroasiatiche ex sovietiche, con l’esclusione del Turkmenistan. Successivamente, nel 2017, si sono uniti al gruppo India e Pakistan; nel 2023 è stata la volta dell’Iran (come esito di una strategia di totale apertura verso l’Asia già auspicata durante la presidenza Ahmadinejad) e, nel 2024, della Bielorussia. Ai membri effettivi si aggiungono diversi osservatori, soci dialoganti e potenziali candidati, tra i quali spiccano la Turchia, l’Egitto e l’Arabia Saudita.

In altri termini, cercando anche di proiettare nel futuro il senso ultimo dell’Organizzazione, si potrebbe prevedere un suo ruolo come ramo “militare” (con compiti di cooperazione nell’ambito della sicurezza, sebbene questi siano stati allargati notevolmente nel corso degli ultimi vertici) della piattaforma BRICS, alla quale, invece, spetterebbe il compito di dedicarsi alla parte economico-finanziaria dell’evoluzione multipolare.

In questo senso, risultano emblematiche le parole del Presidente cinese Xi Jinping al vertice SCO di Samarcanda del 2022, durante il quale egli ha indicato i “cinque punti che costituiscono lo spirito di Shanghai”:

  • Fiducia politica. Guidati dalla visione di forgiare un’amicizia duratura e la pace tra gli Stati membri della SCO, rispettiamo i reciproci interessi fondamentali e la scelta del percorso di sviluppo di ciascuno, e ci sosteniamo a vicenda per il raggiungimento della pace, della stabilità, dello sviluppo e del rinnovamento.
  • Cooperazione vantaggiosa per tutti. Soddisfiamo gli interessi reciproci, rimaniamo fedeli al principio di consultazione e cooperazione per vantaggi condivisi, rafforziamo la sinergia tra le nostre rispettive strategie di sviluppo e seguiamo il percorso della cooperazione vantaggiosa per tutti verso la prosperità comune.
  • Uguaglianza tra le Nazioni. Ci impegniamo a rispettare il principio di uguaglianza tra tutti i Paesi indipendentemente dalle loro dimensioni, il principio del processo decisionale basato sul consenso e il principio dell’affrontare i problemi attraverso consultazioni amichevoli. Rifiutiamo la pratica della coercizione del grande e forte ai danni del piccolo e debole.
  • Apertura e inclusione. Sosteniamo la convivenza armoniosa e l’apprendimento reciproco tra diversi Paesi, Nazioni e culture, il dialogo tra le civiltà e la ricerca di un terreno comune accantonando le differenze. Siamo pronti a stabilire partenariati e sviluppare una cooperazione vantaggiosa per tutti con altri Paesi e organismi internazionali che condividono la nostra visione.
  • Equità e giustizia. Ci impegniamo a rispettare gli scopi ed i principi della Carta delle Nazioni Unite; affrontiamo le principali questioni internazionali sulla base dei loro meriti e ci opponiamo al perseguimento della propria agenda a discapito dei legittimi diritti e interessi di altri Paesi[1].

Nel corso dell’ultimo vertice, invece, Xi Jinping ha tracciato quelli che dovrebbero essere gli obiettivi del gruppo, legandoli, come anticipato, in modo diretto con il programma dei BRICS: “Dobbiamo favorire la cooperazione su aspetti come l’energia, le infrastrutture, l’industria verde, l’economia digitale, l’innovazione scientifica e tecnologia e l’intelligenza artificiale”[2]. Inoltre, ha proseguito il Presidente cinese, “bisogna opporsi alla mentalità da guerra fredda, del confronto tra i blocchi e le pratiche da bullismo internazionale”[3].

 

Alcuni elementi critici

Detto ciò, gli incontri della SCO devono sempre essere osservati ed analizzati con estrema attenzione e cautela. Questo perché il più delle volte finiscono in accattivanti dichiarazioni di principi che, tuttavia, spesso e volentieri non si traducono nell’atto pratico. Prova ne è il recente conflitto (comunque di durata limitata) tra India e Pakistan, conclusosi con una sostanziale “brutta figura” di Nuova Delhi[4].

È stato storicamente così per svariati motivi: interessi contrastanti, conflittualità latente tra alcuni membri (come nel caso di India e Pakistan, Tagikistan e Kirghizistan, ma anche Cina e India per via di certe dispute di confine derivate da una guerra che risale ai primi anni ’60 del secolo scorso), diffidenza reciproca dovuta a diverse aspirazioni geopolitiche (l’attuale Kazakistan, in particolare, sta cercando di liberarsi dall’influenza russa). Solo per fare l’esempio più evidente, è abbastanza chiaro che l’India mai accetterebbe di partecipare ad un processo di integrazione eurasiatico guidato dalla Cina. Questo perché l’India in un eventuale ordine multipolare futuro aspira ad essere “polo” a sé stante, con i nazionalisti indù (i sostenitori dell’hindutva, termine che potrebbe essere tradotto come “induità”) i quali sognano “la Grande India” che dall’Afghanistan arriva fino al Mekong e include a nord Tibet e Nepal. Questo a loro modo di vedere sarebbe il naturale spazio di influenza indiano. Ancora, tra di loro c’è chi considera apertamente non solo la Cina, ma anche la Russia come un nemico dell’India; e considerano negativamente, ad esempio, il ruolo che ebbe Nehru nella costruzione delle relazioni tra India e Unione Sovietica nel corso della Guerra Fredda. Sono idee sostenute da molti intellettuali che fanno riferimento al Partito di Narendra Modi, il Bharatya Janata Party. E lo stesso Modi, che pure rimane un pragmatico (simile in questo al Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan) pronto a trarre beneficio da qualsiasi situazione, quando ancora era governatore del Gujarat lanciò veri e propri pogrom contro la popolazione musulmana o fece finta di non vederli[5].

Ma cos’è realmente l’hindutva? Questa è l’ideologia, del tutto moderna nei suoi tratti caratteristici, fatta propria dal Rashtriya Swayamsevak Sangh (Società Nazionale Volontaria), gruppo paramilitare del BJP, di cui Narendra Modi è stato a lungo dirigente. Il termine hindutva fu reso popolare negli anni ’20 del XX secolo dall’attivista e politico indiano Vinayak Damodar Savarkar grazie al pamphlet Hindutva: chi è indù?. Nel suo breve scritto, Savarkar identificava tre pilastri portanti dell’ideologia hindutva: a) la nazione comune (rashtra); b) la razza comune (jati); c) una cultura e civiltà comune (sanskriti)[6]. Sebbene si dichiarasse apertamente ateo, Savarkar riteneva che l’hindutva includesse al suo interno tutte le religioni “indiane” (induismo, giainismo, buddismo e sikhismo), intese come religioni nate nel subcontinente indiano, con la più che ovvia esclusione dell’Islam. Egli, infatti, era convinto che il reale nemico dell’India, più ancora del colonialismo britannico (sic!), fosse proprio l’Islam, considerato alla stregua di “fede dell’estraneo”[7]. Questo sostrato ideologico, soprattutto negli ultimi decenni, ha fatto sì che alla comunità islamica dell’India (la terza mondiale in termini di grandezza) sia stato spesso rimproverato di mostrare un “atteggiamento antinazionale”.

A ciò si aggiunga il fatto che l’India opera spesso in termini di scontro fra civiltà e raramente in termini di cooperazione mutuamente vantaggiosa tra loro o di rispetto reciproco delle differenze. Senza considerare l’amicizia “fraterna” che lega l’India odierna ad Israele (l’India è uno dei principali acquirenti dell’industria bellica israeliana)[8]. Proprio Israele, oggi, risulta il principale ostacolo alla creazione effettiva di un ordine multipolare, per il semplice fatto che, una volta venuto meno il predominio USA all’interno delle istituzioni internazionali (al termine del processo di “democratizzazione delle relazioni internazionali” caro a Pechino), lo Stato ebraico finirebbe per essere giudicato per ciò che realmente è: un’entità terroristica. Ragione per cui, nonostante la sostanziale impossibilità di Washington di sostenere un’agenda globale aggressiva, con molteplici impegni su diversi teatri, la lobby sionista al Congresso continua a spingere per l’interventismo USA   soprattutto nel Vicino Oriente, storicamente considerato centrale e preminente a livello globale. All’eccesso interventista, inoltre, si collega il rischio della “sovraestensione imperiale” di cui parlò a suo tempo lo storico britannico Paul Kennedy. Questi, sul finire degli anni ’80 del secolo scorso, ebbe modo di affermare: “Gli Stati Uniti corrono ora il rischio, tanto familiare agli storici dell’ascesa e caduta delle grandi potenze del passato, di quello che si potrebbe chiamare eccessiva estensione imperiale: vale a dire che i governanti di Washington devono affrontare lo spiacevole e assodato fatto che il numero degli interessi e impegni degli Stati Uniti va oggi ben oltre le effettive possibilità che il paese ha di proteggerli e mantenerli”[9].

A questo proposito, si potrebbe affermare che nell’amministrazione trumpista si possono riconoscere due anime: una è quella neocon (evidente in personaggi come il Segretario di Stato Marco Rubio, legato alla lobby sionista tramite il gruppo Christians United for Israel) che aspira a mantenere viva l’idea unipolare; mentre l’altra, più realista, spera ed agisce affinché nel futuro sistema multipolare gli Stati Uniti mantengano comunque una posizione di primato strategico sugli altri poli (motivo per cui è stata messa in sicurezza la colonia europea con l’accordo neofeudale sui dazi ed il programma di riarmo e motivo per cui si ricerca la piena applicazione della dottrina Monroe nel “patio trasero” con gli attacchi al Venezuela). Questa, tra l’altro, sembra essere diventata la posizione anche di Aleksandr Dugin. Il pensatore russo, infatti, spingendo per una sorta di tacita alleanza tra Stati Uniti e Russia (o addirittura per un ingresso USA nei BRICS), sembra incapace sia di comprendere la natura reale dell’attuale potere nordamericano sia il fatto che le aspirazioni trumpiste sulla Groenlandia hanno come obiettivo quello di ridurre il vantaggio sulle rotte artiche di Cina e Russia (il possesso USA dell’isola artica, di fatto, sarebbe orientato in primo luogo in chiave antirussa). È indubbia l’esistenza in Russia di una corrente che mira a raggiungere un accordo con gli Stati Uniti (che pure continuano ad inviare armi in Ucraina, via Europa). Con tale corrente, che ha in Dugin un riferimento ideologico, ma deve la sua reale capacità di influenza ad alcuni oligarchi, Vladimir Putin deve inevitabilmente mediare (senza considerare la presenza di una lobby ebraica di non poco conto anche all’interno dei confini russi).

Tornando all’India, i primi teorici dell’hindutva nutrivano una ammirazione e simpatia nei confronti del sionismo. A ciò si aggiunga il fatto che il Pakistan spesso paragona la causa del Kashmir a quella della Palestina. E proprio sotto Modi è stato cancellato l’articolo 370 della costituzione indiana, che garantiva autonomia al Kashmir, aprendo le porte alla colonizzazione indù della regione.

Allo stesso tempo, è opportuno ricordare che gli interessi geopolitici della Cina, sia nel Vicino Oriente che in Africa (dove la Cina è in aperta competizione con l’India col suo “Modello Mumbai”)[10], sono spesso contraddittori (aziende cinesi, ad esempio, cooperano attivamente con imprese agricole israeliane legate anche al sistema coloniale in vigore nella Cisgiordania occupata). Questo è indubbiamente un aspetto cruciale da tenere in considerazione. Se le forze multipolari non danno l’esempio in questo senso (come ha fatto sia pur tardivamente la Turchia) interrompendo le proprie relazioni commerciali con Israele, la loro pretesa di essere meglio dell’Occidente (si pensi all’idea di “solidarietà tra civiltà a lungo oppresse” che è alla base delle relazioni tra Iran e Cina, ad esempio) rimane priva di fondamento, a prescindere dalle dichiarazioni di condanna di rito del genocidio in corso in Palestina.

 

Verso una cooperazione sino-indiana?

Fatta questa premessa, è possibile una reale cooperazione sino-indiana in chiave antioccidentale? La risposta è piuttosto complessa. A margine dell’evento di Tianjin, Xi ha affermato: “Il mondo si sta trasformando rapidamente. India e Cina sono i due Paesi con le civiltà più ricche e antiche. Siamo i due Paesi più popolosi al mondo ed entrambi parte del Sud globale […] sarebbe vitale essere amici e buoni vicini. È tempo che l’elefante ed il dragone vadano avanti su questa strada insieme”[11]. Sicuramente, proprio l’ultimo vertice SCO sembra aver indicato una strada importante in questo senso: l’India si sta liberando dei titoli di Stato USA e sembra intenzionata a cooperare con Russia e Cina per avviare un processo di dedollarizzazione dell’economia globale che rappresenta a tutti gli effetti una grave minaccia per Washington. In generale, soprattutto Cina e India sembrano volere seguire la strada dell’accompagnamento al declino degli Stati Uniti, consapevoli del fatto che un loro crollo immediato (subitaneo) non gioverebbe realmente a nessuno. Le due potenze asiatiche, di fatto, sembrano voler seguire la traiettoria delineata nel testo del politologo Joshua I. Shifrinson Rising titans, falling giants: how great powers exploit powers shifts. Qui, nello specifico, viene messo in evidenza come due potenze emergenti (USA e URSS), sebbene in contrasto tra loro abbiano accompagnato al declino gli “imperi” coloniali europei (Regno Unito e Francia) al termine della Seconda Guerra Mondiale. A differenza di quanto fatto dagli stessi Stati Uniti con l’Unione Sovietica sul finire del secolo scorso, quando Washington utilizzò una strategia ben più aggressiva per assecondare l’implosione del blocco socialista[12].

Al contempo, è necessario mettere in evidenza come uno dei più influenti intellettuali cinesi legati al PCC, Wang Huning, avesse già ampiamente previsto il declino statunitense a seguito di un lungo viaggio di studio in Nord America intorno alla metà degli anni ’80. Da questa esperienza venne partorito il testo America contro America (1991), in cui Wang sottolineava il fatto che gli Stati Uniti, tra una forma di potere oligarchica che lasciava poco spazio al mito democratico, tensioni etniche e sociali, bolle economico-finanziarie di vario genere ed iperattivismo militare, erano comunque destinati al declino.

A prescindere dalla più o meno imminente esplosione totale delle tensioni interne, la sfida aperta della Cina, che ne sminuisce il potere internazionale facendo lucrosi affari con i Paesi sottoposti a regimi sanzionatori (Russia, Iran e Venezuela, dove le compagnie cinesi di estrazione del petrolio sono particolarmente attive in tempi recenti), rappresenta un segnale fondamentale che ha spinto anche altre Nazioni a sganciarsi progressivamente dall’orbita statunitense. Ovviamente, all’interno di questo processo di decadenza inesorabile bisognerà valutare quella che sarà la reazione USA, la quale, considerati i primi mesi della nuova amministrazione Trump, potrebbe essere scomposta e isterica, pregna di minacce (molte senza capo né coda), accuse alle precedenti amministrazioni, per poi cercare di arrivare ad un accordo di fondo che salvi almeno la faccia dell’America (una sconfitta che Trump possa comunque propagandare per vittoria, almeno sul piano interno).

 

Il declino dell’Occidente

La manifestazione plastica del declino dell’Occidente (e soprattutto della sua periferia europea) può essere ben raffigurata dalla sorpresa dell’Alto Rappresentante UE per la politica estera e la sicurezza Kaja Kallas di fronte alla parata militare per il giorno della vittoria a Pechino. La Kallas, infatti, è sembrata ignara del fatto che la Cina, nel corso del Seconda Guerra Mondiale, ha avuto quasi 20 milioni di caduti nella lotta contro l’occupazione giapponese.

Proprio la parata militare del 3 settembre ha suscitato reazioni scomposte nei mezzi di informazione occidentali, che l’hanno definita come una “sfida aperta all’Occidente” o come la “parata degli autocrati”, vista la presenza del Capo nordcoreano Kim Jong-un. Naturalmente, l’enfasi riposta in questo evento era tutta indirizzata a sostenere il programma di riarmo europeo e gli slanci bellicisti della cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, che, con gli arsenali semivuoti, vagheggia attacchi su Kaliningrad e invio di truppe in Ucraina. Un programma che non ha neanche il merito di garantire una sovranità militare del Continente nel lungo periodo, ma che ne accentua ulteriormente la dipendenza nei confronti degli Stati Uniti.

Proprio per quanto concerne gli USA, chi scrive ha sostenuto anche in altre occasioni la tesi che i primi mesi della seconda amministrazione Trump sono stati disastrosi sul piano geopolitico: dall’Ucraina alla Palestina, dallo Yemen all’Iran fino alla strategia di contenimento della Cina. Non solo sono falliti i tentativi di separare Russia e Cina (progetto impossibile da realizzare nel breve o medio periodo), ma anche le pressioni sull’India affinché non comprasse più gas e petrolio russi, pena sanzioni e dazi, hanno avuto l’effetto di far allineare (magari momentaneamente) l’India e la Cina. Modi, come già messo in evidenza, è sempre stato molto pragmatico. Da un lato egli ha inserito l’India all’interno del Sistema Quad (pseudo-alleanza militare anticinese per l’Indo-Pacifico), e ha dato il benestare al progetto IMEC – India Middle East Economic Corridor (studiato anch’esso in chiave anticinese, in contrasto con la Nuova Via della Seta, e per trasformare Israele in perno geopolitico regionale e garantirgli una profondità strategica che, ad oggi, non ha); dall’altro deve comunque garantire cibo, acqua ed energia elettrica (possibilmente a basso costo) ad 1,5 miliardi di persone e ad un settore industriale in crescita costante. Ragione per cui non può di certo rinunciare alla cooperazione economica con la Russia ed oggi al miglioramento delle relazioni con la Cina. Nonostante ciò, rimane comunque in piedi il Progetto 500, volto all’aumento dell’interscambio India-USA a 500 miliardi di dollari entro il 2030[13].

Ad ogni modo, l’unico reale successo l’amministrazione Trump l’ha ottenuto dove gli Stati Uniti già comandano, cioè in Europa, forzando i suoi vassalli ad accettare il già citato poco generoso accordo sui dazi (anche per mitigare il deficit commerciale con la Germania a spese degli altri membri UE) e ad aumentare la spesa militare. 

Dunque, se realmente si arriverà ad un ordine multipolare, la parte d’Europa rappresentata dalla UE rimarrà in una condizione di cattività geopolitica dalla quale difficilmente potrà liberarsi; e questo grazie a vertici politici disastrosi, che hanno fallito, anche scientemente (vista la loro dipendenza da gruppi di pressione, corporazioni multinazionali e istituti finanziari), su tutta la linea, dal contrasto alla crisi pandemica (con gli accordi segreti con le cause farmaceutiche), fino all’Ucraina e la Palestina.

L’unica speranza che l’Europa può avere per riacquisire una reale soggettività geopolitica dipende dalla totale sconfitta della NATO in Ucraina: ovvero, dal completo fallimento degli obiettivi strategici dell’Alleanza Atlantica nel Paese dell’Europa Orientale, come preludio per la dissoluzione della stessa Alleanza. Inoltre, sarebbe necessaria anche la sconfitta strategica di Israele a Gaza e fare in modo che questo venga reso incapace di nuocere ai propri vicini. La sua presenza nel bacino mediterraneo, di fatto, rende impossibile qualsiasi aspirazione alla sovranità geopolitica dell’Europa. Si pensi, a questo proposito, al drammatico caso italiano. Il ministro israeliano Ben Gvir ha apertamente minacciato l’Europa con lo spauracchio del terrorismo islamista (che Israele ha ampiamente contribuito a creare e nutrire)[14]. Bene, la cybersicurezza italiana, grazie al governo Meloni, dal 2023 è nelle mani di Israele. Ma quello italiano non è un caso isolato in Europa.

Dunque, i vertici attuali UE dovrebbero essere azzerati (nel breve periodo) e, in futuro, la stessa UE dovrebbe essere smantellata e ricostruita sulla base di principi completamente differenti, ispirati a un’idea di unità politica e sovrana.


NOTE

[1]Vertice di Samarcanda. Il discorso di Xi Jinping (trad. di Giulio Chinappi), su www.cese-m.eu.

[2]Key takeways from SCO’s largest ever summit in Tianjin, 3 settembre 2025, www.astanatimes.com.

[3]Ibidem.

[4]Si veda, India-Pakistan: verso un nuovo conflitto?, 9 maggio 2025, www.eurasia-rivista.com.

[5]Si veda S. Majumder, Narendra Modi allowed Gujarat anti-muslim riots, 22 aprile 2011, www.bbc.com.

[6]C. Jaffrelot, Hindu Nationalism. A Reader, Princeton University Press, Princeton 2007, pp. 14-15.

[7]S. Arvid, On Hindu, Hindustan, Hinduism and Hindutva, Numen – International Review for the History of Religions, vol. 49, N. 1/2002.

[8]Si veda, La connessione indo-israeliana, 27 dicembre 2019, www.eurasia-rivista.com.

[9]P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1999, p. 26.

[10]Si veda Atlante Geoeconomico Nr. 11. L’India fra Est ed Ovest, canale YouTube “Il Veritiero”; India e Africa: un’ascesa verso una partnership strategica, 4 giugno 2024, www.africa24.it.

[11]‘Elephant and dragon must come together’: Xi’s outreach to Modi amid Trump tariffs, 31 agosto 2025, www.hindustantimes.com.

[12]Si veda J. I. Shifrinson,  Rising titans, falling giants: how great powers exploit powers shifts, Cornell University Press, Ithaca-Londra 2018.

[13]U.S. and India to double bilateral trade in five years, Prime Minister Modi says, as Trump tariffs loom, 13 febbraio 2025, www.cnbc.com.

[14]Il ministro di estrema destra Ben Gvir contro l’Europa: ‘Proverà il terrorismo in prima persona’, 2 settembre 2025, www.ansa.it.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).