Nel provare a costruire un’alternativa all’attuale ordine di sicurezza globale guidato dagli Stati Uniti, anche nel conflitto tra Hamas e Israele la Cina insegue un posizionamento da grande potenza ‘neutrale’. Sostenitrice della pace e pronta a offrire un’alternativa alle più radicali posizioni statunitensi pro-Israele, Pechino ha deciso di ‘non-schierarsi’ apertamente con l’Occidente nel condannare le azioni dell’organizzazione palestinese come atti terroristici. Con questa scelta il Dragone punta a rafforzare ulteriormente la propria leadership nei confronti dei paesi del Sud globale, la cui maggioranza resta solidale con la causa palestinese.

Negli ultimi anni la Cina ha lavorato intensamente sul palcoscenico internazionale per creare un’alternativa all’attuale ordine di sicurezza globale guidato dagli Stati Uniti. In un tale contesto, l’esigenza di bilanciare i tanti interessi in gioco ha portato Pechino a non schierarsi apertamente su questioni fortemente polarizzanti come la guerra in Ucraina. Dinamica, questa, che si è ripetuta anche in occasione del conflitto tra Israele e il movimento di resistenza palestinese a Gaza. Mentre tutto l’Occidente ha condannato come atti terroristici gli attacchi dell’organizzazione palestinese, la Cina è rimasta in silenzio per giorni; il presidente Xi Jinping ha aspettato la fine del Terzo Forum della Belt and Road Initiative (BRI) per commentare la crisi, ribadendo la posizione cinese che da lunga data vede come unica soluzione la possibilità dei due Stati e chiedendo un corridoio umanitario per consentire agli aiuti di entrare nella Striscia assediata.

Nel conflitto tra lo Stato ebraico e la resistenza palestinese, Pechino punta chiaramente a mantenere una posizione di neutralità strategica in chiave antioccidentale vestendo i panni del mediatore, se non altro per provare a bilanciare agli occhi di una certa parte di mondo la radicalità delle posizioni filoisraeliane degli Stati Uniti. A dar conto di questo atteggiamento, in primo luogo, ci hanno pensato le parole dell’inviato cinese per le questioni mediorientali, Zhai Jun, che hanno evidenziato come la ragione fondamentale dell’attuale situazione del conflitto israelo-palestinese sia stato il mancato riconoscimento di legittimi diritti nazionali del popolo palestinese. In secondo luogo, a rincarare la dose, è intervenuto anche il Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, che ha descritto il bombardamento israeliano dei civili a Gaza come un’azione che ha superato anche l’ambito di applicazione dell’autodifesa riconosciuta allo Stato ebraico dopo gli attacchi del 7 ottobre. Contestualmente, Pechino ha evitato di condannare apertamente le azioni di Hamas come atto terroristico, ma si è limitata a esprimere “preoccupazione” per le violenze verso la popolazione.

Tuttavia, dietro i toni apparentemente concilianti e distensivi sulla guerra a Gaza e il mantenimento di una posizione non interventista, vi è anche il tentativo da parte cinese di provare a mascherare diplomaticamente le difficoltà nell’influenzare in modo consistente gli eventi in quella parte del mondo che è notoriamente sotto l’influenza russa e statunitense. D’altronde, a Pechino sanno bene che un allargamento dell’attuale conflitto su scala regionale potrebbe compromettere in maniera piuttosto seria il ruolo di mediatore super partes che la Cina cerca di ritagliarsi da anni.

L’approccio cinese alla questione palestinese

Gli interessi cinesi in gioco in Palestina e nel mondo arabo sono tanti e trasversali; sul piano economico, la Repubblica Popolare ha bisogno di stabilità in quella zona del mondo che essa ritiene cruciale per la riuscita del suo progetto cardine, la BRI, a cui si è unita nel 2022 anche l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Inoltre, Pechino è il maggior partner commerciale di molti Paesi arabi e uno dei più importanti acquirenti di petrolio iraniano e saudita. Dal punto di vista politico, Pechino sostiene pubblicamente da decenni la causa palestinese. La Cina è stata tra i primi paesi a riconoscere lo Stato di Palestina, nel 1988, con l’avvio delle relazioni diplomatiche a partire dall’anno successivo. Sebbene la distanza temporale che separa l’avvio delle normali relazioni diplomatiche tra la Cina e lo Stato d’Israele sia di appena tre anni (1992), il sostegno del Dragone rosso nei confronti dei paesi arabi e della popolazione palestinese inizia già a cavallo tra gli anni ’50 e ’60.

Sin dai primi contatti, la posizione cinese di neutralità si è spostata però su posizioni sempre più filopalestinesi. Per motivare la propria vicinanza politica verso il mondo arabo, Pechino ha iniziato a investire sempre più sul piano economico e commerciale, rafforzando la sua influenza nella regione in vista di un migliore posizionamento geostrategico. Recentemente, lo slancio politico cinese sullo scenario mediorientale ha portato alla firma di uno storico accordo tra Arabia Saudita e Iran grazie alla mediazione di Pechino. Inoltre, alla decima conferenza d’affari arabo-cinese, che si è svolta lo scorso giugno, la Cina ha stipulato oltre 30 accordi di investimento per un valore di circa dieci miliardi di dollari, compreso un accordo da 5,6 miliardi di dollari con i sauditi per un’impresa comune di veicoli elettrici. 

In questo scenario, pur rappresentando un pezzo piuttosto piccolo nel più ampio sistema di interessi e alleanze cinesi nella regione, i Palestinesi rivestono un ruolo strategicamente rilevante per Pechino, che nel sostenerli si contrappone direttamente all’asse israeliano-statunitense. Durante la visita in Cina di Mahmud Abbas, presidente dell’Anp, lo scorso giugno, i due partner hanno anche annunciato la formazione di un comitato congiunto finalizzato a sollecitare i negoziati sull’accordo di libero scambio Cina-Palestina. E sebbene non si tratti di un accordo che smuove cifre astronomiche, i motivi di tale interesse di una tale mossa rispondono alla necessità cinese di penetrare nell’economia palestinese per infastidire Israele e di riflesso Washington. Gradualmente, Pechino è riuscita a ricavarsi uno spazio nel delicato e ridotto mercato palestinese, controllato a vista da Tel Aviv, attraverso piccoli investimenti. Negli ultimi venti anni, le esportazioni cinesi verso la Palestina sono aumentate da 6,15 milioni di dollari, nel 2000, a 248 milioni di dollari, nel 2021.

Degradare la leadership globale degli Stati Uniti

La ponderata ambiguità nei fatti palestinesi rientra in una strategia già adottata da Pechino con il piano di pace proposto per il conflitto tra Russia e Ucraina.La neutralità antioccidentalemanifestata dal Dragone rosso segue pedissequamente la volontà del presidente cinese di accrescere il suo prestigio come statista globale, al fine di costruire una visione della Cina quale attore in grado di portare pace e stabilità nelle aree più calde del pianeta, togliendo terreno da sotto i piedi agli Stati Uniti.Al contempo, l’altro obiettivo di Pechino resta quello di provare a smorzare i toni riguardo alla questione della minoranza uigura musulmana in Cina, nei confronti del mondo islamico. Il Partito comunista cinese ha sempre difeso le sue politiche nello Xinjiang come un tentativo di contrastare l’estremismo interno; perciò mostrare solidarietà e sostegno alla causa palestinese potrebbe aiutare Pechino a distrarre l’opinione pubblica internazionale dalla sua politicadi rieducazione forzata.

Il conflitto tra Hamas e Israele nella Striscia di Gaza è destinato a introdurre una nuova dimensione nella già forte rivalità tra i due attori globali, dal momento che l’attuale scenario di crisi potrebbe produrre una crescente presenza cinese nell’area della Mezzaluna sciita. Difatti, Pechino intende sfidare sempre più apertamente l’egemonia degli Stati Uniti nella regione, forte dei buoni rapporti costruiti negli ultimi anni con Riad (alleata di Washington), ma soprattutto con Teheran, nemica naturale dello Stato ebraico.

Il fatto stesso, poi, che Pechino e Mosca condividano la stessa posizione su quanto sta accadendo a Gaza e stiano lavorando congiuntamente al fine di raffreddare la situazione per mettere d’accordo le parti attraverso la soluzione dei due Stati, rischia di aggiungere ulteriore concretezza al disegno geopolitico cinese. Infatti, per quanto permangano ancora dubbi circa le reali intenzioni della Cina nell’aumentare i propri sforzi per raggiungere una soluzione nel minor tempo possibile a Gaza, la sfida lanciata da Pechino alla leadership statunitense sta diventando sempre più trasversale e pervasiva. Attualmente, il Dragone rosso non vanta una forte influenza su Israele, cosa che gli permetterebbe di giocare un ruolo veramente decisivo nella crisi in atto; per questa ragione, difficilmente Pechino riuscirà a portare al tavolo delle trattative israeliani e palestinesi. Inoltre, la soluzione dei due stati, appoggiata dalla Cina, non è mai piaciuta allo Stato ebraico.

Tuttavia, lavorare a una de-escalation transizionale nella regione, in competizione con Washington, rappresenta per Pechino un’occasione importante per misurarsi con il ruolo di pacificatore su scala globale. Il grande problema resta la parvenza di neutralità, che impedisce alla Cina di esporsi in maniera decisa su quanto sta avvenendo a Gaza, lasciando l’ultima parola sempre al rivale strategico numero uno, gli Stati Uniti, che invece ha dimostrato ancora una volta di essere una potenza a tutto tondo, muovendo uomini e mezzi verso Israele per lanciare un chiaro avvertimento a Hezbollah e Iran.

Possedere grandi capacità di potere è una cosa. Comportarsi come una grande potenza è un’altra. Dopo gli attacchi di Hamas, pur essendo impegnata sul fronte ucraino, Washington non si è tirata indietro e ha fornito supporto militare e diplomatico allo Stato ebraico. Al contrario, Pechino si è limitata ad esprimere obiezioni e a chiedere la pace. Questo dimostra che c’è ancora molta strada da fare prima che il Dragone rosso incalzi definitivamente gli Stati Uniti sul piano della mediazione in scenari di crisi su scala globale. In Cina devono ancora capire che nelle fasi di escalation estremamente complesse, come quella in corso nell’exclave palestinese, una grande potenza non può fare professione di ambiguità, ma deve riflettere sempre una posizione chiara e inequivocabile.


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