Premessa

In questi giorni di diffusione globale del nuovo coronavirus, diversi analisti hanno individuato almeno due differenti strategie perseguite dagli Stati nel loro rapportarsi al contagio. La prima, che richiama il cosiddetto darwinismo sociale, è la linea portata avanti da Stati Uniti, Gran Bretagna, Brasile ed inizialmente Germania. Questa si fonda su una sorta di selezione naturale del popolo che mette in conto l’eventualità della morte di migliaia di persone a fronte di un potenziale rafforzamento generale della massa. Ovviamente, sebbene il nuovo coronavirus abbia dimostrato un tasso di mortalità abbastanza ridotto (e ciò, paradossalmente, è evidente anche nel caso italiano visti i dati forniti dall’Istituto Superiore di Sanità riguardo ai decessi per Covid-19 e quelli con Covid-19 più gravi patologie pregresse), esiste un limite di decessi oltre il quale si rischia comunque il collasso dello Stato. E questo sarebbe il motivo del parziale dietrofront di Donald J. Trump e Boris Johnson.

La seconda strategia viene più o meno ricollegata al ben noto “dispotismo asiatico” del sinologo e sociologo tedesco Karl August Wittfogel. Essa si baserebbe sulla variabile implementazione di diversi gradi di autoritarismo e sulla riqualificazione della sanità pubblica come strumento fondamentale della società. Tale strategia è stata fatta propria dalla Cina, dalla Corea del Sud e, seppur con colpevole ritardo e notevoli contraddizioni (scarsi controlli sul personale sanitario, inutile estensione della “zona rossa” all’intero Paese e non alle sole zone focolaio), dall’Italia.

Chi scrive, sulla scia del pensatore argentino Norberto Ceresole, vorrebbe proporre un differente approccio. Ovvero, identificare le due diverse strategie di contrasto dell’emergenza sulla base delle categorie di “civiltà del profitto/denaro” e “civiltà della fede/spirito”.

Di fatto, se la prima strategia rientra perfettamente all’interno di un mero calcolo di natura economica rivolto alla riduzione della componente inattiva della società (è certificato che l’età media dei decessi con e per Covid-19 è piuttosto elevata), la seconda, soprattutto nel caso asiatico, si fonda sul tradizionale rispetto che queste culture rivolgono agli anziani, alla solidarietà ed alla benevolenza. Infatti, ancora oggi, non si è in grado di comprendere che la società cinese, per quanto ispirata sotto taluni aspetti al marxismo-leninismo, è profondamente intrisa nelle sue istituzioni e nella sua mentalità di spirito confuciano. La Cina rientra nel novero di quei Paesi e di quelle culture che hanno assorbito la modernità per scopi difensivi. Qui si è cercato di stabilire un equilibrio tra principi e valori peculiari della società tradizionale e modelli e sistemi propri della modernità occidentale (appunto il marxismo-leninismo) ma indispensabili per garantire sovranità ed indipendenza. Fu proprio Mao Tse Tung ad affermare la necessità che venissero combinate tecnologia, ideologia e politica, nella precisa consapevolezza che ideologia e politica dovessero rappresentare il posto di comando e l’anima dello Stato[1].

In questo contesto si cercherà di mettere in luce come la risposta cinese all’epidemia sia intrinsecamente legata alla dottrina confuciana.

Pensiero, parola e azione nel confucianesimo

Il primo luglio 1958, dopo che venne a conoscenza del fatto che la schistosomiasi era stata completamente debellata dal distretto di Yujiang, il già citato Mao compose la seguente lirica:

“Verdi acque, azzurre montagne
vanamente presuntuose,
Hua To era impotente
contro i minuscoli vermi!
In mille villaggi invasi dall’erbe
gli uomini morivano,
in diecimila case deserte
i demoni cantavano.
Terra che percorri in un giorno
quarantamila chilometri
ed errando lontano dal cielo
incontri mille galassie,
se il Mandriano ti chiede notizie
del Dio della Peste:
è scacciato e svanito nell’onda
come tutte le gioie e dolori.
Nel vento primaverile
infiniti rami di salice,
seicento milioni nel divino paese
sono tutti Yao e Shun.
Rossa pioggia di fiori di pesco
al loro cenno si tramuta in onda,
verdi monti al loro comando
si trasformano in ponti.
Sulle cinque catene che toccano il cielo
s’abbattono zappe d’argento,
braccia di ferro deviano i Tre Fiumi,
scuotono tutta la terra.
Posso chiederti Dio della Peste,
dove hai intenzione di andare?
Barche di carta e candele
rischiarano il cielo bruciando”[2].

Oltre alle evidenti analogie con la situazione attuale, la poesia del “Grande Timoniere” risulta estremamente utile per introdurre la tesi che si intende sostenere in questa sede. Mao Tse Tung, infatti, pur essendo stato guida di un Partito che si richiamava (e si richiama) agli ideali del marxismo-leninismo con il suo intrinseco portato di modernità e progresso, ha scritto tutti i suoi componimenti poetici in “stile antico” ed utilizzando un linguaggio difficilmente accessibile alle masse. Le poesie di Mao, nello specifico, appartengono al genere Shi. Di per sé Shi significa semplicemente ‘poesia’ o ‘ode’ e si divide in due classi distinte: il gushi (poesie antica) ed il lushi (verso regolato). A questo genere appartengono le poesie, ispirate alla saggezza più pura, raccolte nel Che king (Libro dei Versi) da Confucio. Queste liriche rivestivano allo stesso tempo un interesse politico ed un valore rituale, in quanto avevano per scopo quello di indicare ai principi la loro condotta e renderla conforme ai buoni costumi[3].

Ora, è importante sottolineare che il pensiero cinese, sin dall’antichità, è dominato dalle idee congiunte di ordine, di totalità e di ritmo. La categoria di ordine/totalità, in particolare, è la categoria suprema del pensiero cinese. Quando parlano e scrivono, i Cinesi cercano sempre di raffigurare e di suggerire dei modi di condotta. Il sistema tradizionale della scrittura figurativa serve in primo luogo ad orientare l’azione più che a formulare concetti, teorie e dogmi. La metafisica confuciana, come noto, si comprende solo praticandola[4]. E l’arte di esprimersi (wen) rende la parola potente.

Dunque, ogni singola parola ha un carattere speciale. Ed ogni singolo termine implica la necessità dell’atto. Tale convinzione deriva dallo stesso mito fondativo della scrittura attribuito ad Houang-ti, il primo dei sovrani, e ad un suo ministro. Come afferma il sinologo francese Marcel Granet, “Houang-ti acquistò la gloria di un eroe fondatore poiché si prese cura di dare a ogni cosa una denominazione (ming) corretta (tcheng) al fine di illuminare il popolo sulle risorse utilizzabili”[5]. Egli, per primo, è stato capace di adempiere al fondamentale dovere del sovrano: quello di fornire agli uomini i simboli che permettono di addomesticare la natura e, nel suo rispetto, di accordare le azioni alle cose. Ma l’invenzione della scrittura sulla base delle tracce lasciate sul suolo dagli uccelli possiede anche un valore apotropaico. Infatti, leggenda vuole che quando furono inventati i simboli grafici, i demoni fuggirono via gemendo perché gli uomini avevano ormai preso potere su di essi[6].

Alla luce dell’enorme rilievo che la cultura cinese e confuciana attribuisce ad ogni singola parola, si può analizzare in prima istanza la risposta di Pechino alla crisi epidemica nella regione di Wuhan.

Il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping (che ha cercato di presentare la sua figura come quella dello junzi confuciano: uomo colto e retto che vive nel rispetto del principio della misura), ad esempio, ha definito a più riprese il virus come ‘demone’ (guailo in Mandarino, gweilo in Cantonese) volendo sottolinearne al contempo anche la sua natura straniera (ovvero, qualcosa di estraneo alla Cina stessa)[7]. E, consapevole della necessità immediata di una risposta, ha definito la lotta contro questo ‘demone’ nei termini di ‘guerra di popolo’ invitando (confucianamente) all’azione per mezzo della parola.

Il governo di Xi, di fatto, rappresenta la perfetta incarnazione politica del socialismo con caratteri cinesi. Il fondamento non è l’ortodossia marxista-leninista, ma l’ortodossia confuciana. Tale ortodossia si distingue per una pretesa di Saggezza universale che non ha bisogno di professare dogmi o di disporre gli articoli di insegnamento in un sistema compiuto. Essa si forma come una sorta di confederazione dilagante di idee la cui massa aumenta dalla necessità di annettere e conciliare. Al confucianesimo si unisce e si adatta il socialismo; ad esso si uniscono e si adattano le differenti visioni delle guide cinesi: il maoismo, il dengismo, fino al pensiero di Xi Jinping, riferito ad una “Terza Rivoluzione cinese”[8]. Una rivoluzione che è stata impostata come il ritorno alla suddetta tradizione confuciana: alla preminenza del bene collettivo su quello individuale, ai valori dell’ordine, della gerarchia e dell’unità di civiltà.

Nel pensiero confuciano un ruolo di primo piano è ricoperto dal concetto di Tao-to, traducibile come ‘efficacia principesca’. Questa è l’efficacia che consente di “promuovere coloro che già sono buoni e di istruire coloro che non hanno ancora talento, in modo che tutti siano incitati allo sforzo (k’iuan)”[9]: concetto che richiama quello islamico di gihad maggiore (lo sforzo a divenire un essere umano migliore).

Il principe ed i gentiluomini degni di questo nome non devono interessarsi affatto ai benefici materiali. Essi non devono ricercare il vantaggio (li), poiché il confucianesimo non solo condanna la ricerca dell’interesse ma anche ogni forma di competizione volgare. Lo sforzo è rivolto proprio a sviluppare, ciascuno per sé e dentro di sé, quei sentimenti naturali di benevolenza e compassione che sfuggono da ogni attività interessata. Gli uomini, a seconda che nutrano in sé ciò che è grande e nobile o ciò che è piccolo e vile, sono Uomini grandi (‘Uomini veri’ direbbe l’Imam Khomeini) o gente dappoco. “È soltanto negli uomini grandi che le qualità divengono eccellenti (leang). L’eccellenza del cuore dipende dall’educazione, questa dalle regole di vita”[10].

Dunque, il principio del governo, come affermava Mencio (il primo ad aver considerato la dottrina di Confucio in termini di ortodossia), deve essere la benevolenza, il suo scopo la nobilitazione del cuore della gente dappoco, mentre la cultura ha la funzione di rafforzare in ogni uomo l’intenzione di nobilitarsi.

Il Tao-to, così, si confonde con un ideale di perfezione ottenuto mediante la pratica attiva e costante delle virtù. Queste virtù sono il jen e lo yi: entrambe virtù che si possono coltivare solo in contatto con altri uomini ed all’interno di una società civile. Lo yi indica l’equità, mentre il concetto di jen risulta essere più complesso. Esso non indica solo la ‘solidarietà di gruppo’ (idea che richiama quello di asabiyya elaborato da Ibn Khaldun). Il jen è anche il rispetto degli altri ed il rispetto di sé. È un ordine degno di Uomini degni che si sono legati proprio in virtù della loro capacità di coltivare in comune il jen e lo yi.

Ma l’approccio cinese all’epidemia ha dei fondamenti anche in aspetti più propriamente religiosi; dal culto degli antenati al rispetto dovuto verso gli anziani[11]. A questo proposito è bene ricordare che nella lingua cinese non esiste una parola che significhi semplicemente “vecchio”. Tuttavia, esistono diversi termini che illustrano in modo quasi poetico differenti aspetti della vecchiaia: l’aspetto di coloro che necessitano di un’alimentazione più ricca (k’i); l’aspetto di coloro che hanno il respiro affannoso (k’ao); coloro che hanno il diritto di portare un bastone. Il termine k’i in particolare evoca diverse immagini e corrisponde quasi ad una nozione unitaria a quella di vecchio dai sessanta ai settanta anni. Oltre i settanta anni, si ha il diritto ad essere chiamati lao. Questa parola designa un momento caratteristico della vita e, al contempo, indica l’idea di anzianità e di venerabilità. Il termine lao, a sua volta, abbraccia l’insieme degli aspetti che puntualizzano le differenti categorie di persone per le quali è finito il periodo “attivo” della vita. Esso implica il “mettersi a riposo” ed il gesto rituale di prendere congedo dal proprio capo. Tale termine, dunque, al pari di ogni altra parola cinese, conserva un valore vivente: ovvero, non cessa mai di evocare un’azione.

Questa enfasi sull’azione deriva dall’idea che il bene nasca da un perfezionamento imposto dalla società: la sola capace di ricavare individualità morali dalla gente dappoco. Il principio del governo si fonde e confonde col principio dell’educazione. Si governa per mezzo di riti, poiché è per mezzo di riti che si educa. Ed ogni uomo si migliora per il solo fatto di conoscere i benefici della ripartizione convenzionale a tutti imposta dalla società. Perché vi sia società e non un agglomerato anarchico bisogna che gli uomini acquistino la saggezza, che pratichino l’equità, in quanto il bene non è nella natura, ma è la società (creata dai Saggi) a produrlo.

Questa impostazione confuciana trova evidenti analogie anche nella dottrina politica platonica basata sull’idea che ogni comunità può solo fondarsi sul sapere essenziale della filosofia e della Δίκη (giustizia), intesa heideggerianamente come l’insieme delle leggi che dispongono dell’essere dell’ente.

La lotta cinese (vincente) contro l’epidemia non è solo una lotta di civiltà. È, anche e soprattutto, una questione di Prestigio. Il Prestigio è una virtù: un valore religioso mantenuto dalla pratica dei riti (seppur variamente inquinati dalla modernità). E tale pratica, confucianamente, è il risultato dei buoni consigli[12]. La saggezza dei consiglieri appare come un effetto dell’influenza sovrana. Prestigio e successo sono l’effetto diretto dell’essere circondati da consiglieri stimati. E l’essere circondati da consiglieri stimati, a sua volta, è segno di virtù.


NOTE

[1]Mao Tse Tung, Per la rivoluzione culturale, Einaudi Editore, Torino 1975, p. 79.

[2]Mao Tse Tung, Addio al Dio della Peste, contenuto in Tutte le poesie, Newton Compton, Roma 1972.

[3]M. Granet, Il pensiero cinese, Adelphi Edizioni, Milano 1971, p. 45.

[4]Si veda Confucio, L’asse che non vacilla – Studio integrale, a cura di E. Pound, Ghibli, Milano 2013.

[5]Il pensiero cinese, ivi cit., p. 37.

[6]Ibidem.

[7]Wuhan coronavirus: China will contain ‘demon’ outbreak, Xi Jinping says as death toll mounts, www.scmp.com. È bene ricordare che Zhao Lijan, portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, ha avanzato l’ipotesi che il virus sia giunto in Cina attraverso la delegazione statunitense ai giochi militari di Wuhan dell’ottobre 2019.

[8]Si veda M. Dassu – R. Menotti, La terza rivoluzione cinese, Aspenia n. 82, settembre 2018.

[9]Il pensiero cinese, ivi cit., p. 360.

[10]Ibidem, p. 417.

[11]A questo proposito si veda M. Granet, La religione dei Cinesi, Adelphi Edizioni, Milano 1973.

[12]Ibidem, p. 103.


Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.


 

Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).