Non si può pervenire in cima alla montagna senza passare per vie difficili e scoscese; non giungere alla virtù senza che costi assai sforzi e fatiche. Ignorare la strada che si deve prendere, mettersi in cammino senza guida, è come volersi smarrire, volersi mettere in pericolo della vita”.

(Confucio)

 

Il 24 ottobre 2017 il pensiero di Xi Jinping è stato inserito all’interno della Costituzione del Partito Comunista Cinese (PCC). Sintesi di maoismo e confucianesimo perfettamente adattabile alla realtà cinese, il pensiero di Xi è divenuto parte integrante della dottrina del Partito insieme al pensiero dello stesso Mao, all’elaborazione teorica di Deng Xiaoping, alla cosiddetta “teoria delle tre rappresentanze” di Jiang Zemin ed all’approccio sullo “sviluppo scientifico” di Hu Jintao. Alla dottrina di Xi, inoltre, è stato attribuito lo status di “pensiero”; fattore che lo pone allo stesso livello del corpus teorico di Mao ed in una condizione di superiorità rispetto alle dottrine di Jiang Zemin e di Hu Jintao[1].

Ora, una postura prettamente materialista imporrebbe un’analisi del pensiero di Xi Jinping che esulasse da spiegazioni ed aspetti legati al “genio individuale”. Dunque, la figura storica ed il pensiero dello stesso Xi non possono prescindere dall’essere considerate come parte integrante di una ben determinata tradizione di pensiero e dall’essere contestualizzate in un preciso momento storico e con una determinata cultura. Così, il pensiero di Xi non risulta essere la sola emanazione intellettuale della conoscenza e delle capacità dell’uomo, ma anche la confluenza di diverse forme di pensiero. In particolare, si potrebbe affermare che esso sia espressione (e risultato) delle principali sfide alle quali è sottoposta la Repubblica Popolare nel XXI secolo.

A questo proposito, il “geopolitico militante”[2] Jean Thiriart fu in grado di prevedere già negli anni ‘60 del secolo scorso che la Cina del XXI secolo non avrebbe più tollerato la presenza nordamericana sui propri confini; dall’Asia centrale al Mare cinese meridionale. Sulla stessa lunghezza d’onda furono le previsioni sulla sfida del nuovo secolo tra Cina e Stati Uniti riportate dal pakistano Zulfiqar Ali Bhutto nel suo manifesto politico dall’emblematico titolo Il mito dell’indipendenza (1967).

Di conseguenza, il pensiero di Xi appare come il prodotto delle condizioni materiali e geopolitiche della specifica realtà cinese in uno specifico momento storico. Tuttavia, il pensiero e la politica non sono riducibili al mero linguaggio, ma il linguaggio è uno degli strumenti attraverso i quali si esprimono il discorso e l’azione politica. Ed essendo la guerra (in tutte le sue forme, economica, culturale e militare) una continuazione della politica con altri mezzi, il linguaggio ed il pensiero assumono un ruolo determinante. Un’azione politica priva di pensiero e scollegata da un determinato linguaggio (o da una lingua definita), oltre a mancare di efficacia in termini pratici, ha l’effetto di produrre spaesamento (o “sradicamento” volendo utilizzare una terminologia heideggeriana). Un esempio pratico di quanto qui affermato lo si può riscontrare negli evidenti limiti comunicativi e nella mancanza di chiarezza (in molti casi anche scientemente ricercata) mostrati dall’“Occidente” sottoposto all’egemonia nordamericana nel corso della crisi pandemica. In questo caso, al preciso scopo di ricompattare “geopoliticamente” questo spazio ideologico, si è scelto di utilizzare una retorica militare (pregna di termini anglofoni) per affrontare l’epidemia e la conseguente campagna vaccinale. Così, le morti da covid sono diventate le vittime nella “guerra contro il virus”, mentre le reazioni avverse al vaccino hanno assunto le sembianze di inevitabili “danni collaterali”.

Già Iosif Stalin, grande esperto di linguistica, riconobbe il ruolo fondamentale del linguaggio come supporto all’azione politico-militare e come strumento utile per la difesa della coscienza nazionale. Secondo il Vožd’ la materia più importante da studiare nelle accademie dell’esercito erano la lingua e la letteratura russe. Esse, infatti, forniscono la capacità di esprimersi brevemente e chiaramente in condizioni (anche di battaglia) estreme. L’esercizio costante nella lettura dei classici, inoltre, permette di avere in mente già un suggerimento su come esprimersi al meglio e come agire[3].

Tale discorso si può ben applicare anche alla realtà cinese, dove pensiero, parola e azione sono legati da un nesso indissolubile. Tuttavia nella realtà cinese, contrariamente a quanto sostenuto dall’interpretazione ortodossa della teoria marxista, la sovrastruttura ideologica non è il riflesso esclusivo del sistema economico, ma viene oggettivata in tutti gli ambiti dell’essere sociale.

Quando nel 1978 la sconfitta delle “banda dei quattro” coincise con l’ascesa al potere di Deng Xiaoping, il PCC, attraverso una perfetta applicazione del suddetto schema di ortoprassi confuciana pensiero-parola-azione, affermò che il Paese, nello stadio primario del socialismo, doveva porsi come obiettivo immediato lo sviluppo delle forze produttive ed il miglioramento della qualità della vita per la popolazione. Da questo approccio derivò quella “teoria delle quattro modernizzazioni” (agricola, industriale, tecnologico-scientifica e militare) che, di fatto, implicava soluzioni eterodosse per garantire lo sviluppo economico della Nazione attraverso programmi mirati di liberalizzazione eseguiti sotto la vigile supervisione del Partito. Ciò comporta due domande ben precise: che posto ha la teoria marxista oggi in Cina? Il socialismo con caratteristiche cinesi è una deviazione nazionalista?

La risposta a queste domande non può prescindere da un’analisi dello scenario accademico della Cina contemporanea. Questo è composto da alcune tendenze che si sviluppano soprattutto a partire dagli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso: un momento storico estremamente complesso in cui le politiche di apertura economica si sono scontrate con i pesanti riflessi (sul piano della politica interna) del “tumulto” di Tian’anmen[4]. Le più importanti sono indubbiamente la corrente “liberale” e quelle della “Nuova Sinistra”, dei “neoconfuciani” e dei “neoautoritari”. Tutte, seppure con approcci diversi, hanno cercato di porsi come alternative alla linea teorica egemonica nel PCC nel corso dei primi quarant’anni di vita della Repubblica Popolare.

Se la corrente liberale si risolve nel desiderio di evoluzione verso un sistema di tipo democratico-parlamentare, diverso è il discorso per ciò che concerne neoconfuciani, Nuova Sinistra, e neoautoritari. I primi, che possono essere a loro volta divisi in neoconfuciani liberali (il cui nucleo iniziale nasce a Hong Kong, Taiwan e negli Stati Uniti) e neoconfuciani “continentali” (nati nella Madre Patria), sviluppano il loro approccio teorico da un punto di partenza condiviso: la tradizione confuciana è stata in qualche modo viziata dalla Modernità. Lo stesso termine “confucianesimo” sarebbe un’invenzione dei missionari cristiani che hanno latinizzato il termine “Kǒng Fūzǐ” aggiungendovi il suffisso “ismo”. Al contrario, il termine corretto per definire la tradizione confuciana sarebbe “Rújiā” (scuola di studi). Una scuola che include all’interno del suo sistema di pensiero non solo lo studio delle opere attribuite a Confucio ma anche quelle dei suoi discepoli Mencio e Xunzi.

Tra i più importanti rappresentanti della corrente neoconfuciana “continentale” si possono annoverare in primo luogo Chen Ming e Jiang Qing. Secondo Chen Ming, il PCC da un lato ha rappresentato la “salvezza della Nazione cinese”, dall’altro, avrebbe anche esaurito questo compito storico. Esso deve essere rinnovato sulla base della tradizione confuciana. Questa, nello specifico, dovrebbe dare forma ad un modello politico-ideologico-religioso simile a quello prodotto dai valori protestanti e dal mito del “destino manifesto” negli Stati Uniti. Jiang Qing, a sua volta, pensa ad una costituzione puramente confuciana e sotto molti aspetti nega il valore dell’esperimento modernizzatore attuato dal PCC.

Più o meno nello stesso periodo, la corrente neoautoritaria, fa riemergere il pensiero del grande giurista tedesco Carl Schmitt dall’oblio nel quale era finito per diversi decenni. Il primo a citare nuovamente Schmitt nel 1987 fu Dong Fanyu: professore di diritto costituzionale che ha ispirato non poco le teorie di Jiang Shigong e Chen Duanhong (già analizzate in alcuni contributi apparsi sul sito informatico di “Eurasia”). Nella corrente neoautoritaria si possono inscrivere anche Xiao Gongqin (fautore di un realismo politico puramente schmittiano da opporre alla virtualità dei principi democratici di stampo occidentale) e Wang Huning, la cui critica dell’universalismo liberal-capitalistico ha profondamente ispirato l’azione politica di Jiang Zemin, Hu Jiantao e Xi Jinping.

Una menzione introduttiva la merita il pensiero di Jiang Shigong. Secondo questo attento interprete della Cina contemporanea, la peculiarità della via cinese al socialismo deriva dalla necessità di risolvere la tensione tra la verità filosofica e la pratica storica, in modo da unire la verità filosofica universale del marxismo-leninismo con la realtà storica concreta della vita politica cinese. Ciò, sul piano della prassi, si è tradotto in un’azione volta a valutare i problemi della realtà cinese e favorire la partecipazione popolare nella trasformazione della società (la transizione verso il comunismo, il rafforzamento della posizione internazionale della Cina, l’unificazione finale della Nazione). La base della legittimità del PCC, infatti, è lo stesso popolo cinese. Questa legittimità risiede nella capacità del Partito di essere un’istituzione efficace e capace di risolvere i problemi immediati del popolo.

Di fatto, la salita al potere di Xi Jinping è coincisa con una nuova fase nello studio del marxismo sia in campo teorico che nell’ambito della pratica. L’esame del pensiero del Presidente cinese, dunque, non può prescindere da un’analisi dettagliata delle principali influenze intellettuali che hanno agito su di esso.

Il comunismo, in questo modello teorico, rappresenta maggiormente un’“idea forza”: un sentimento etico che si differenzia completamente dal modello sovietico post-staliniano. Il pensiero di Xi, rigettando in toto l’imitazione dei modelli politici del pensiero occidentale proposta da alcuni esponenti della corrente neoconfuciana, intende rappresentare una sintesi innovativa fra tradizione (confucianesimo) e modernità (marxismo-leninismo). Il confucianesimo, in questo contesto teorico, ritrova il suo ruolo tradizionale di “guardiano del rito” (il pensiero confuciano è pura “metafisica del rito”), laddove l’atto rituale è indispensabile al mantenimento dell’ordine sia sul piano fisico che su quello metafisico, mentre il comunismo, adottato attraverso la cultura tradizionale cinese, diventa lo strumento che può realizzare al meglio i valori positivi di quest’ultima.

Due sono le parole chiave di questo modello teorico: comunismo e Nazione. Secondo questa interpretazione dell’idea comunista, il concetto di “lotta di classe” viene inteso in senso metaforico ed assume i connotati di lotta per il rinnovamento ed il miglioramento etico della Nazione, di lotta contro la corruzione o, più recentemente, di lotta per il rispetto dell’ambiente. Il concetto di “Nazione” invece non deve essere inteso in senso etnico (di maggioranza etnica Han), ma come universo comunitario delle etnie che hanno storicamente rappresentato il nucleo umano dell’Impero di mezzo (Zhongguo).

L’idea di “Nazione” è racchiusa nella stessa bandiera della Repubblica Popolare. La stella più grande sullo sfondo rosso rappresenta il Partito: l’organo di governo della società. Le quattro stelle più piccole che orbitano attorno alla stella-Partito rappresentano le quattro classi sociali che partecipano allo sviluppo della società: la classe operaia, quella contadina, la piccola borghesia e la borghesia nazionale. La frazione della borghesia che si è mostrata pronta a cooperare con il Partito, nella prospettiva cinese, deve essere naturalmente integrata all’interno dell’alleanza nazionale. Dopo l’era Mao, con le riforme di Deng Xiaoping e la costruzione di un’economia mista, questo patto sociale originario ha trovato nuova linfa vitale trasformandosi, con Hu Jintato e Xi Jinping, in un vero e proprio blocco egemonico (per utilizzare una terminologia prettamente gramsciana).

Così, il settore privato può e deve essere promosso purché contribuisca in modo determinante al benessere collettivo: ovvero, a quello che Mao chiamava Gongtong Fuyu (la prosperità comune). Secondo questo approccio, l’intera popolazione deve beneficiare del progresso collettivo, ma ogni parte del corpo sociale deve fornire il proprio contributo nella misura dei suoi mezzi e delle sue possibilità[5].

L’attuale politica antimonopolistica di Pechino non deve trarre eccessivamente in inganno. Il Partito non mira a sopprimere definitivamente il settore capitalista e privato. Semplicemente, sta cercando di piegarlo alle esigenze di uno sviluppo societario armonioso in cui la disuguaglianza sia ridotta al minimo.

Le differenze con il marxismo tradizionale si percepiscono anche sul piano della teoria delle relazioni internazionali. La Cina non ha aspirazioni “universalistiche” (anche in questo è simile all’URSS di Stalin, concentrata nel preservare le conquiste “nazionali” della Rivoluzione evitando fin dove possibile i conflitti diretti con altre potenze). Non vuole imporre il proprio sistema ad altri tramite la forza e ricerca uno sviluppo pacifico fondato sul rispetto delle diversità culturali e politiche. Tuttavia, allo stesso tempo, non è più disposta a tollerare abusi di qualsiasi natura perpetrati da potenze con aspirazioni egemoniche globali.

Proprio in questa enfasi verso lo sviluppo di un ordine internazionale multipolare si ritrovano nuovamente dei rimandi allo schmittiano “pluriversum di grandi spazi”.


NOTE

[1]Si veda Una introducción al pensamiento. Xi Jinping: tradición y modernidad, www.larazoncomunista.com.

[2] Yannick Sauveur, Jean Thiriart, il geopolitico militante, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2021.

[3]Si veda I. Stalin, Il marxismo e la linguistica, Edizioni Rinascita, Roma 1952. Non bisogna dimenticare che Stalin fu anche uno strenuo difensore della lingua russa e dell’alfabeto cirillico di fronte ai tentativi di “latinizzazione” che la sinistra bolscevica cercò di imporre dopo l’Ottobre 1917 per diffondere i documenti rivoluzionari a tutti i proletari del mondo. Il 13 marzo 1938 la linea di Stalin ottenne la vittoria definitiva. In quella data, il Comitato Centrale del PCUS produsse una delibera “sullo studio obbligatorio della lingua russa nelle scuole delle repubbliche sovietiche e degli oblast nazionali”.

[4]“Tumulto” è l’espressione utilizzata da Deng Xiaoping nel discorso che tenne il 9 giugno 1989 agli ufficiali di rango superiore in applicazione della legge marziale a Pechino. In quell’occasione, constatando che un manipolo di malintenzionati si era infiltrato tra la folla della piazza, affermò: “non avevamo di fronte le masse popolari ma facinorosi che hanno tentato di sovvertire il nostro Stato […] Il loro obiettivo era quello di instaurare una repubblica borghese, un vassallo dell’Occidente in tutto e per tutto”. Oltre a piangere i propri “martiri” ed a congratularsi con le forze di sicurezza e con l’Esercito per essere riusciti a sedare il “tumulto”, nel medesimo discorso la Guida cinese constatò la necessità di imparare dagli errori del passato e di guardare verso il futuro. “Lo scoppio dell’incidente – affermò Deng Xiaoping – ci dà molto a cui pensare e ci costringe a riflettere a mente lucida sul passato e sul futuro. Forse questo terribile avvenimento ci permetterà di portare a termine le politiche di riforma e apertura al mondo esterno in modo costante e perfino più in fretta, di correggere i nostri errori più rapidamente e di sfruttare meglio i nostri vantaggi […] La cosa importante è non riportare mai la Cina a essere un paese con le porte chiuse”. D. Xiaoping, Il tumulto di Piazza Tian’anmen, contenuto in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” 3/2019. A questo proposito, sembra doveroso citare un altro passaggio di Deng Xiaoping in cui l’enfasi sull’apertura economica si accompagna al decisionismo etico caratteristico del PCC (basti pensare alle recenti scelte di limitare la produzione di programmi televisivi diseducativi o l’utilizzo smisurato dei videogiochi tra i ragazzi): “Seguiremo un’irremovibile politica di apertura al mondo esterno e aumenteremo i nostri scambi con i Paesi stranieri sulla base dell’eguaglianza e del rispetto reciproco. Allo stesso tempo, manterremo la mente lucida, resisteremo con fermezza alla corruzione delle idee decadenti venute dall’estero e non permetteremo mai che il modo di vita borghese si diffonda nel nostro Paese” (Opere Scelte, Vol. III. Edizioni in lingue estere, Pechino 1994, p. 15).

[5]Si veda l’interessante intervista al filosofo ed analista politico francese Bruno Guigue Quando la linea di Xi Jinping va a velocità superiore, www.cese-m.eu.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).