Le proteste scoppiate in Bahrain dal febbraio 2011 si collocano nella specificità endemica della storia politica e socio-religiosa del regno, legate da un fil rouge alle manifestazioni che dall’indipendenza, avvenuta nel 1971, sono condotte dall’opposizione sciita, in dissenso con la politica settaria del governo, gestita dalla famiglia regnante degli Al-Khalifa.

Il 14 febbraio in alcuni villaggi sciiti poco lontani alla capitale Al-Manamah è esplosa la protesta di carattere spontaneo e non coordinato, mentre la grande manifestazione nazionale organizzata, ha avuto luogo il 17 febbraio, quando migliaia di cittadini si sono radunati nella piazza centrale della capitale, la Piazza della Perla (Midan al-Lulu), avanzando al governo la annosa rivendicazione di riforme socio-politiche, per poi essere repressi brutalmente dalle forze di polizia.

Nello specifico le richieste di apertura politica avanzate dalla popolazione hanno riguardato la formazione di un parlamento maggiormente rappresentativo, una nuova costituzione, il rilascio dei prigionieri politici e maggiori opportunità economiche.

È utile sottolineare, fin da subito, che benché i manifestanti fossero per la maggioranza sciiti, essendo essi il gruppo religioso più numeroso in Bahrain, e anche il più discriminato (sin dal 1971 la comunità sciita viene ripetutamente accusata dal governo di essere la quinta colonna del potere iraniano), le rivendicazioni hanno avuto il carattere nazionalista dell’unità tra sunniti e sciiti, i quali rivendicano i propri diritti in quanto cittadini bahreiniti1.

Le manifestazioni e gli scontri tra popolazione e le forze di polizia bahreinite hanno radici profonde nella storia del piccolo regno, e per comprendere appieno l’importante risvolto che le rivolte popolari del 2011 potrebbero apportare a livello geopolitico regionale e internazionale, è necessario indagare brevemente nella storia politica e socio-economica del Bahrain.

Contesto socio-economico e politico.

Il regno del Bahrain (lett. in arabo “Regno dei Due mari”) è un piccolo arcipelago governato dal 1783 dalla famiglia musulmano sunnita degli Al-Ḫalifa, la quale riuscì a riscattare il potere sul territorio allontanandosi dall’ingerenza persiana e riparandosi sotto l’ala britannica, a seguito di accordi commerciali che hanno trasformato il regno in un protettorato britannico.

Dal 1971, anno del ritiro inglese, il Bahrain è formalmente uno stato indipendente, protetto dall’ombrello militare statunitense.

La popolazione è di un milione e 200mila cittadini, per l’81,2% musulmani (di cui il 65-70% sciiti).

Il Bahrain, data la sua posizione geografica, ha sempre avuto un’importanza strategica primaria per il commercio internazionale, la cui fortuna economica è derivata, prima della scoperta del petrolio, dalla pesca delle perle.

La produzione petrolifera, iniziata nel 1932, è nettamente inferiore rispetto agli altri paesi produttori di petrolio del Golfo, e per questo il Bahrain ha avuto la necessità di diversificare la propria economia più degli altri.

La diversificazione e le riforme economiche si sono rese necessarie per diversi fattori: tra i più importanti si inquadrano l’esaurimento delle risorse petrolifere e la pressione demografica interna ( la popolazione tra i 15 e i 64 anni è il 70%, di cui il 15% disoccupato).

La diversificazione economica ha riguardato l’industria pesante, soprattutto la produzione di alluminio (attraverso la Aluminium Bahrain), il ferro e l’acciaio; l’industria manifatturiera e soprattutto i servizi finanziari (che corrisponde al 27,6% del PIL) e il turismo. Il Bahrain attualmente è il paese del Golfo che possiede l’economia più diversificata, in competizione con la Malesia per assurgere a centro finanziario islamico mondiale. La costruzione di un “porto” finanziario per le maggiori economie, mostra la chiara ambizione di costituirsi come “business friendly” e di essere esso stesso un modello di offshore commerciale.

Le riforme strutturali, invece, hanno interessato la privatizzazione dei settori delle comunicazioni e del trasporto pubblico, nonché l’apertura agli IDE (Investimenti Diretti Esteri) e la costituzione di dieci Free Trade Zones. Imponenti sono stati gli accordi commerciali con altri paesi, come il Qatar, con il quale il Bahrain ha iniziato nel 2009 la costruzione del “Ponte dell’amicizia”, in conclusione entro il 2015. Ancora più importante dal punto di vista degli investimenti strategici è stato, però, l’accordo bilaterale di libero scambio (Free Trade Agreement) con gli Stati Uniti, firmato nel 2006, che ha rassicurato gli statunitensi circa l’alleanza e la lealtà del Bahrain.

A conferma dell’attenzione posta dal Consiglio per lo Sviluppo Economico (Maǧlis al-Tanamiya al-Iqtisadiya), l’istituzione governativa che organizza le strategie di diversificazione economica, nel 2009 il settore petrolifero ha contribuito al PIL per il 10%, mentre quello finanziario del 30%2.

Questo nuovo clima economico è stato inaugurato nel 2001 dall’attuale re Hamad bin Isa Al-Khalifa (salito al trono nel 1999), insieme al programma di riforme istituzionali di apertura politica, in risposta alle rivolte e agli scontri condotti dalla popolazione durante gli anni ’90. Infatti, tra il 1994 e il 1999, si sono verificati scontri la cui causa sottesa principale era il rifiuto della famiglia regnante, rappresentata dalla figura del re Isa bin Salman Al-Khalifa e del Primo Ministro Šaikh Khalifa bin Salman Al-Khalifa in carica dal 1971, di promuovere una effettiva partecipazione politica della popolazione nonché la privazione economica e la discriminazione della popolazione sciita.

La leadership degli oppositori era composta da religiosi sciiti e laici: bahreiniti esiliati a Londra, che avevano formato il Bahrain Freedom Movement e gli esiliati in Iran, raggruppati nel Fronte Islamico di Liberazione del Bahrain.

In realtà, i primi scontri tra l’opposizione sciita e le forze di polizia avevano avuto luogo già nel 1975, quando il governo decise di sopprimere l’Assemblea Nazionale, creata nel 1973, e di bandire i partiti politici, per accentrare il potere nelle mani della famiglia regnante, e condurre la politica nazionale in modo informale. Soprattutto a seguito della rivoluzione iraniana del 1979, il governo della famiglia Al-Khalifa ha tacciato gli oppositori sciiti di essere sostenuti e radicalizzati dall’Iran, accuse ripetute fino ad oggi. Allora, come nel 1994 e nel 2011, infatti, le proteste sono sorte nei villaggi sciiti vicini la capitale, e l’epilogo è stato una repressione violenta da parte delle forze di polizia.

Nel 1995 sono cominciate le espulsioni di alcuni religiosi sciiti, tra cui Šaikh Ali Salman attuale leader di Al-Wefaq, il principale partito di opposizione sciita, nonostante abbiano avuto luogo prove di dialogo con il governo, al quale gli sciiti chiedevano il rilascio dei prigionieri, il ritorno degli esiliati e una trattativa circa le richieste politiche, in cambio dell’interruzione delle violenze.

Nel 1999 è succeduto al trono l’erede Hamad bin Isa Al-Khalifa, il quale ha mostrato la volontà di intavolare un dialogo nazionale con la popolazione, affinché la violenza fosse placata. Come era accaduto con il passaggio di potere tra Hafez e Bashar Al-Assad in Siria, anche in Bahrain i cittadini riponevano grandi speranze di progresso caratterizzato da un’apertura politica in direzione della democrazia, guidata da un giovane regnante attento alle richieste e ai bisogni della popolazione.

D’altra parte, il supporto concesso alla popolazione era necessario per il nuovo re affinché si mostrasse forte e autonomo rispetto al Primo Ministro che controllava effettivamente il potere politico e economico. Egli, infatti, con la morte del re Isa Al-Khalifa, aveva aumentato il proprio peso politico all’interno del circolo di potere familiare, e la competizione per il potere all’interno della famiglia regnante non si è mai sopita. Ciò è stato dimostrato nel 2008, quando per cercare di contenere il potere di Šaikh Khalifa è stato rimosso il ministro della Difesa sostituito dal principe ereditario Salman bin Hamad bin Isa Al-Khalifa, ed è stata introdotta una nuova legge che incrementava i ministri da 6 a 16, senza il parere del Primo Ministro.

La via intrapresa dal nuovo re è stata quella dell’apparente sostegno alle richieste mosse dai suoi sudditi: la riforma democratica del re Hamad è iniziata nel 2001, attraverso l’approvazione referendaria della Carta Nazionale (Al-Dustur), accettata dalla stragrande maggioranza della popolazione con l’89% dei voti favorevoli, che doveva trasformare il Bahrain in una monarchia costituzionale. Al suo interno sono stati stabiliti i ruoli delle due camere del Parlamento: il Consiglio dei Rappresentanti, il Maǧlis Al-Nuwab, con potere legislativo, composto da 40 membri eletti attraverso il suffragio universale, e il Consiglio Consultivo, il Maǧlis al-Šura, composto anch’esso da 40 membri ma nominati dal re. Il supporto per una monarchia costituzionale a legislatura eletta proveniva anche dai leader religiosi sciiti, che guardavano alla riforma come uno sforzo di riconciliazione tra il governo e la comunità sciita.

L’adozione della Carta è stata una vittoria politica strategica per il re Hamad, ma non prevedeva alcun ruolo di potere decisionale delle opposizioni, rappresentate principalmente dal partito sciita Al-Wefaq, tuttora il maggior partito di opposizione, e dal Al-Waʿad di ispirazione socialista. Inoltre nella Costituzione era previsto il potere esercitabile dal re di sciogliere il Parlamento e di porre il veto alle leggi dell’Assemblea Nazionale, il Maǧlis Al-Watani: il disegno della costituzione si presentava come un atto unilaterale senza trasparenza, che salvaguardava il potere tribale tradizionale degli Al-Khalifa e che preveniva, de jure, ogni futuro cambiamento da parte del Parlamento.

Nel 2002, sulla scia delle riforme democratiche, si sono tenute le elezioni municipali, le prime a suffragio universale attivo e passivo, vinte dal partito di opposizione sciita Al-Wefaq, il quale però ha boicottato le successive elezioni parlamentari, a causa delle predisposizioni costituzionali sul ruolo legislativo del Maǧlis Al-Šura e della suddivisione dei distretti elettorali, ripartiti in 12 municipalità nei 5 governatorati.

Queste elezioni, che dovevano essere il test di legittimità politica e sociale del re, hanno in realtà mostrato il fallimento della riforma democratica

Le seconde elezioni parlamentari hanno avuto luogo nel 2006 e, questa volta, Al- Wefaq si è presentato vincendo 18 seggi, nonostante al suo interno si fosse verificata una scissione tra coloro che rifiutavano la legittimità costituzionale, che costituirono il gruppo Al-Haqq, e i moderati, guidati dallo Šaikh Ali Salman.

Il nodo problematico principale è sempre stato il settarismo, in Bahrain: esso infatti è l’unico paese del Consiglio di Cooperazione del Golfo in cui gli sciiti sono la maggioranza della popolazione, ma sono esclusi dalle più importanti cariche pubbliche, come l’impiego nelle forze armate e di polizia e nel lucroso settore bancario. Il governo, per riequilibrare le percentuali socio-religiose, ha invitato e naturalizzato molti musulmani sunniti provenienti da altri paesi islamici (tra cui il Pakistan), affinché lavorassero nelle forze di sicurezza, assicurandosi così la lealtà e l’efficienza dei militari.

Il carattere settario e economico del Bahrain ha influenzato negativamente le condizioni per lo sviluppo di una classe media borghese: non si è verificato lo sviluppo del settore commerciale privato e la classe media stenta ad avere potere per combattere per un cambiamento politico.

Risvolti geopolitici regionali e internazionali della stabilità del Bahrain

Gli scontri tra la popolazione e le forze di polizia bahreinite, iniziate il 17 febbraio sulla scia delle rivolte popolari in Nord Africa, hanno fatto sobbalzare più di un capo di Stato, non solo arabo.

La centralità strategica e la stabilità del “Regno dei due mari” nel Golfo è motivo di interesse per diversi attori internazionali, primi fra tutti Stati Uniti e Arabia Saudita, e le conseguenze geopolitiche dell’instabilità del Bahrain potrebbero riflettersi a livello regionale e internazionale.

Il Bahrain è baluardo della strategia militare statunitense nella regione, avendo gli Stati Uniti posizionato la V flotta della US NAVY, nel 1995, in funzione di copertura e di controllo del Mar Rosso e del Golfo persico-arabico. Attualmente la base navale statunitense, oltre che necessaria per le missioni in Iraq e Afghanistan, si presenta come strumento di deterrenza e di contenimento verso un Iran con ambizioni nucleari. La preoccupazione destata da un aggressivo Iran non riguarda solamente le mire nucleari, ma anche la minaccia del blocco dello Stretto di Hormuz, nel quale transita il 20% del petrolio mondiale. L’imbarazzo americano si è palesato nella cautela delle posizioni adottate nei confronti gli eventi iniziati a metà febbraio: anche in questo caso, come per l’Egitto, hanno rinunciato ad agire da registi delle crisi politiche, districandosi come equilibristi nelle trame della diplomazia.

La retorica della missione di esportazione della democrazia del mondo ha portato gli Stati Uniti a chiedere agli Al-Khalifa di intavolare un dialogo con i manifestanti e di iniziare un processo di riforme politiche ed economiche, avvertendo che l’ingerenza iraniana negli affari interni sarebbe dipesa dalla capacità, o meno, della famiglia regnante di soddisfare le richieste della maggioranza sciita. Infatti, sebbene le manifestazioni non siano state fomentate dagli iraniani (nonostante le accuse dell’Arabia saudita e degli stessi Al-Khalifa), questi potrebbero intervenire in Bahrain attraverso il sostegno agli sciiti, permettendo la realizzazione della più grande paura degli USA e dell’Arabia Saudita stessa.

Il paese che più di tutti si è esposto per la difesa della casa regnante degli Al-Khalifa, è stato l’Arabia Saudita. Il governo saudita è fortemente preoccupato di un dilagare della protesta sciita nel suo territorio, data anche la vicinanza geografica del Bahrain con la costa orientale saudita, regione in cui vive la popolazione sciita che rappresenta una consistente minoranza saudita e in vi cui si trovano le più grandi riserve petrolifere del paese, resa ancor più vicina a seguito della costruzione del Ǧisr al-Malik Fahd.

L’obiettivo primario in politica estera della casa Al-Saud è sempre stato quello di osteggiare e contenere la spinta sciita proveniente dall’Iran, che porterebbe instabilità interna, ma ciò si configura nel progetto più ampio di legittimazione politico-religiosa in tutto il mondo islamico sunnita, di custode dei due luoghi sacri di Mecca e Medina e di difensore del vero Islam.

Alla luce del timore di un contagio micidiale per la stabilità interna, l’Arabia Saudita ha fomentato la repressione dell’opposizione da parte degli Al-Khalifa, fino a prendere in mano la situazione inviando nel piccolo arcipelago (considerato “cortile di casa”) mille soldati, affiancati da altri 500 provenienti dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar. Il contingente militare, inviato il 14 marzo, opera sotto la bandiera della Peninsula Shield Force, le forze militari del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui sono membri Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Oman).

L’intervento, da una parte, ha consentito all’Iran di ergersi a difensore degli sciiti, attraverso la richiesta di immediato ritiro delle forze militari. Dall’altra ha mostrato la volontà e la capacità del Consiglio di Cooperazione del Golfo di agire non più come docile alleato degli Stati Uniti ma di essere riconosciuto come attore autonomo nelle decisioni.

L’organizzazione militare del CCG nasce già nel 1984, quando venne costituita la Peninsula Shield Force come inter-force di difesa collettiva, a seguito dello scoppio del conflitto Iraq-Iran.

L’intervento in Bahrain si pone come dettato dagli interessi geostrategici sauditi, in funzione anti-iraniana, ma è anche uno smacco all’inazione della Lega Araba, grande assente negli eventi. Le prossime misure devono essere gestite meticolosamente, poiché una rapida “exit strategy” potrebbe far pensare ad una vittoria delle forze di opposizione sciite, ma una lunga permanenza potrebbe inasprire le reazioni dell’Iran.

La crisi del Bahrain ha segnato una svolta negativa nelle relazione tra i due grandi alleati, Stati Uniti e Arabia Saudita: già il precedente appoggio americano all’opposizione egiziana e il conseguente abbandono del fedele alleato Mubarak, aveva provocato disappunto agli Al-Saud. Ora, la richiesta agli Al-Khalifa di negoziare e trovare un accordo nazionale con l’opposizione sciita ha portato i sauditi ad agire autonomamente, seppur con il beneplacito assenso degli americani, in Bahrain. D’altra parte gli americani non hanno accolto benevolmente l’intervento armato saudita e lo scarso rispetto dei diritti umani nel paese.

La stabilità interna è il tema preponderante nell’agenda politica saudita, anche alla luce della recente morte dell’erede al trono, Sultan bin Abdullah ʿAzizi Al-Saud. Infatti il prossimo erede al trono, per la prima volta nella storia del regno, sarà scelto dal Consiglio di fedeltà creato nel 2006, benché non ci si possa che aspettare l’elezione dell’attuale Ministro degli Interni e secondo vice premier, il principe Nayef.

Per quanto riguarda il CCG, si potrebbe parlare di una nuova fase dell’organizzazione, che si è evoluta da istituzione con compiti volti esclusivamente al coordinamento economico tra gli stati membri, a organismo che possiede anche un’agenda politico-militare di difesa comune.

Un altro attore si affaccia interessato sulla scena bahreinita, il Pakistan, per il quale si prospetta una nuova stagione politica, essendo stato nominato membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per gli anni 2012-2013, insieme al Marocco.

La visita del Ministro degli Esteri del Bahrain, Šaikh Khalid Al-Khalifa, ha segnato dei risvolti interessanti. Il colloquio, che ha coinvolto il presidente pakistano, Asif ali Zardari, il Primo Ministro Gilani e il Ministro degli Esteri, era incentrato sulla richiesta di cooperazione nel settore della difesa, che il Pakistan ha favorevolmente accolto. Appoggiando l’intervento saudita nel regno, il Pakistan ha mostrato tutto l’interesse per mantenere salda la stabilità del Bahrain: a livello di politica interna, vede favorevole la possibilità di allargare l’intesa con il Bahrain per permettere l’impiego di propri cittadini espatriati, forniture di petrolio agevolate e aiuti finanziari per l’economia in crisi. In realtà il paese sta camminando su un terreno scivoloso, in quanto al suo interno vive una forte minoranza sciita, e la presa di posizione in favore di un governo sunnita, filo-occidentale e discriminatorio nei confronti degli sciiti, potrebbe fomentare delle tensioni intra-religiose.

Tutto fa prospettare una nuova congiuntura politica-religiosa, che si ricollega all’invito formale da parte del CCG a Giordania e Marocco, quasi a voler formare uno scudo musulmano sunnita, una linea di faglia intra-religiosa volta a protezione dalla minaccia esterna iraniana, e un filo conduttore di aiuti e cooperazione contro quella interna.

Intanto in Bahrain il 24 settembre e il 1 ottobre si sono svolte le elezioni a doppio turno per l’attribuzione dei 18 seggi vacanti dell’opposizione di Al-Wefaq al Maǧlis al-Nuwab. I posti furono abbandonanti dai rappresentanti a fine febbraio, per protesta contro gli esigui compiti attribuiti alla Camera dei Rappresentanti e la violenza esercitata sui manifestanti.

Tra il primo e il secondo turno, il governo aveva approvato una raccomandazione per rivedere il sistema delle circoscrizioni elettorali e per trasferire alcuni poteri dal Consiglio Consultivo, il Maǧlis Al-Šura, al Consiglio dei Rappresentanti. Queste riforme, da sempre richieste dall’opposizione, si inquadrano nelle raccomandazioni elaborate in seno al Dialogo Nazionale, intavolato dell’erede al Trono, Salman bin Hamed, sospinto per volontà della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Al-Wefaq ha però abbandonato il tavolo negoziale, dal momento che il governo non ha accettato come base del dialogo le sue richieste: il rilascio dei prigionieri, un parlamento democraticamente eletto con pieni poteri esecutivi e una legge elettorale equa. Le rivendicazioni sono assolutamente legittime da un punto di vista democratico, e se fossero accolte potrebbero evitare un inasprimento della situazione interna e internazionale. Per uscire dalla situazione di impasse, il governo dovrebbe prendere coscienza del fatto che non è possibile adottare la strategia della carota e del bastone (prima regalando denaro, 2650$ a famiglia, per poi reprimere nel sangue le proteste). È necessario un compromesso con le opposizioni, benché la famiglia regnante sia diventata lo spauracchio di sé stessa: la popolazione ha perso fiducia in un governo che ha utilizzato le forze armate, provenienti addirittura da altri paesi, contro il suo stesso popolo, e questo è motivo di preclusione di ogni possibile negoziazione politica.

*Francesca Blasi laureata in Lingua e Civiltà araba presso la facoltà di Studi Orientali dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.

1 Osservatorio di politica internazionale – Mediterraneo e Medio Oriente – n°6 gennaio/marzo 2011 www.parlamento.it

2 U.S. Department of State www.state.gov

 


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