Le imminenti elezioni politiche possono segnare un punto di svolta nel processo di ridefinizione della politica estera di Ankara. Dalle questioni interne al Vicino Oriente, dall’Asia centrale al rapporto con Russia e Cina, come mutano gli scenari per la Turchia e quali prospettive si aprono per il Paese nel prossimo futuro.

Le elezioni politiche che si terranno in Turchia il prossimo 7 giugno si inseriranno in un contesto regionale e internazionale caratterizzato da profondi cambiamenti. Mentre la quarta affermazione consecutiva dell’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, “Partito della Giustizia e dello Sviluppo”) non è in dubbio, stante anche l’ormai perenne crisi di leadership e programmi del CHP (Cumhuriyet Halk Partisi, “Partito Repubblicano del Popolo”), resta da vedere se esso riuscirà a formare una maggioranza parlamentare senza ricorrere ad una coalizione di governo, la quale verrebbe verosimilmente formata con il partito ultra-nazionalista MHP (Milliyetçi Hareket Partisi, “Partito del Movimento Nazionalista”). Guardando ai sondaggi delle ultime settimane [1], la sostanziale tenuta dell’AKP sembra infatti accompagnarsi alla crescita dell’HDP (Halkların Demokratik Partisi, “Partito Democratico Popolare”), formazione filo-curda di sinistra che potrebbe superare la fatidica soglia del 10% delle preferenze ed entrare così in Parlamento, sottraendo seggi all’attuale maggioranza. Per l’AKP appare perciò più difficile, allo stato attuale, il raggiungimento della maggioranza dei 3/5 dei seggi che consentirebbe all’esecutivo attualmente guidato da Ahmet Davutoğlu di modificare la Costituzione in senso presidenziale, come da tempo auspicato dal Presidente e già Primo ministro Recep Tayyip Erdoğan.
In generale, l’imperativo della prossima legislatura consisterà, per Ankara, nel riuscire a proporsi nuovamente e con efficacia come promotrice dello sviluppo e della stabilità a livello regionale, abbandonando la politica estera spesso ondivaga, e sostanzialmente infruttuosa, implementata dopo il radicale riassetto di potere verificatosi in gran parte del mondo arabo a partire dal 2010/11.

Guardando alla politica interna, due sono i più pressanti temi che potrebbero condizionare, nel prossimo futuro, alcune mosse di Ankara anche sul piano internazionale: il primo è rappresentato dalla questione curda, il secondo è relativo all’attuale situazione economica del Paese.
Per quel che riguarda il primo aspetto, il processo di pace avviato nel 2012 tra il governo turco e il PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, “Partito dei lavoratori del Kurdistan”) ha prodotto, allo stato attuale, il “cessate il fuoco” proclamato in occasione del Nawrūz nel marzo 2013 dal leader curdo Abdullah Öcalan, detenuto dal 1999. Sebbene caratterizzata da numerose difficoltà e battute d’arresto, una tale iniziativa non ha precedenti nella storia della Turchia repubblicana, apparendo come l’unica soluzione atta a pacificare il Sud-est e a garantire lo sviluppo della regione economicamente più arretrata del Paese, rendendone contestualmente più sicuro l’esteso confine meridionale. Ciò nonostante, la possibile coalizione tra AKP ed MHP potrebbe minare pesantemente i progressi compiuti sino ad ora dal governo, aprendo una nuova fase di ostilità e sfiducia. Le elezioni ci diranno se i cittadini turchi di origine curda preferiranno premiare l’attuale compagine governativa, nella speranza di ottenere una maggiore autonomia sul piano della governance locale o, al contrario, dare fiducia all’HDP con l’obiettivo di superare l’elevata soglia di sbarramento e renderlo la quarta forza politica all’interno della Grande Assemblea Nazionale.
Quanto alla seconda questione, il sistema economico turco, da tempo in affanno, necessita di recuperare lo slancio che ha consentito in pochi anni di triplicare il PIL (da 230 a 820 miliardi di dollari tra il 2002 e il 2013 [2]), determinando la stabile presenza della Turchia tra le prime venti economie mondiali. Perché il Paese sperimenti una nuova fase di crescita è essenziale, in primo luogo, che esso ritrovi la forza di proporsi come attore promotore della pace, della stabilità e della cooperazione nella regione, dove il suo peso geopolitico è decisivo. Come è semplice arguire, infatti, periferie stabili e rapporti positivi con i propri vicini rappresentano precondizioni essenziali per lo sviluppo economico, tanto più nel caso di un Paese posto geograficamente e culturalmente al crocevia di aree vitali, dal punto di vista geopolitico, come Mediterraneo, Vicino Oriente, Nord Africa, Caucaso, Asia centrale e Balcani. In secondo luogo, è necessario che il governo prenda misure atte ad attenuare uno dei più evidenti squilibri macroeconomici del Paese, cioè il massiccio deficit commerciale [3], con l’elevata spesa energetica a rappresentare una delle voci più rilevanti a livello di importazioni. E’ auspicabile, infine, che Ankara cerchi di aumentare, nei prossimi anni, la quota di spesa in ricerca e sviluppo sul totale del PIL, e di rendere il sistema industriale turco – già molto sviluppato nei settori tessile, metallurgico, elettronico e dei macchinari – più competitivo anche nell’ambito della produzione ed esportazione di beni ad alta tecnologia, sulla scia di quanto fatto da altri Paesi emergenti.

Per quanto riguarda le questioni mediorientali, non c’è alcun dubbio sul fatto che la cosiddetta strategia “neo-ottomana” della Turchia sia entrata in crisi manifesta proprio nell’area di suo interesse prioritario, quella del Vicino Oriente. I tumulti politici che hanno interessato il mondo arabo dalla fine del 2010 hanno infatti sconvolto l’efficace sistema di alleanze costruito nel corso degli anni precedenti da Erdoğan e Davutoğlu, fondato tanto sull’interdipendenza economica tra i Paesi coinvolti, quanto sulla valorizzazione dell’influenza culturale della Turchia sui territori un tempo parte dell’Impero ottomano.
La fallimentare politica estera di Ankara riguardo alla crisi siriana è esemplificativa delle difficoltà incontrate dalla leadership turca nel decifrare le dinamiche regionali. L’ostinazione nel perseguire l’obiettivo della rimozione dell’ex alleato Baššar al-Assad, non più alle prese con una ribellione popolare ma con una vera e propria guerra per procura, ha contribuito all’ulteriore destabilizzazione della regione, rendendo vani gli sforzi fatti tra il 2004 e il 2010 nello storico riavvicinamento alla Siria e incrinando al contempo il proficuo rapporto instaurato con l’Iran, che nel maggio 2010, con la partecipazione del Brasile, produsse anche un importante accordo sul nucleare. E’ evidente che le politiche settarie e poco flessibili adottate a più riprese dal governo turco non abbiano prodotto risultati positivi, precipitando invece nel caos un’area sulla quale l’influenza di Ankara è adesso molto meno tangibile rispetto a quattro anni fa (a tutto vantaggio del competitor regionale iraniano). L’estensione della minaccia jihadista rappresentata dallo Stato Islamico e il continuo aumento del numero di rifugiati siriani che raggiungono i confini turchi (oltre 1 milione e settecentomila profughi attualmente nel Paese [4]) ben rappresentano il rovinoso esito di una politica estera volta alla creazione di un fronte sunnita del quale la Turchia intendeva porsi a capo in virtù delle proprie ambizioni geopolitiche e capacità di intervento sul campo.
Non è un caso che – almeno a decifrare le ultime mosse diplomatiche di Erdoğan – Ankara stia cautamente cercando di ricalibrare la propria politica estera mediorientale, smussando alcune posizioni fortemente critiche riguardo ai presunti progetti di egemonia regionale di Teheran e tentando inoltre, secondo alcune indiscrezioni, un primo riavvicinamento all’Egitto del Presidente Abd al-Fattāḥ al-Sīsī [5], del cui potere la Turchia non ha finora riconosciuto la legittimità. Proprio riguardo all’Iran, Paese che ospita peraltro una notevole minoranza turcofona, è opportuno ricordare quanto la restaurazione di buone relazioni interstatali avvantaggerebbe Ankara sia dal punto di vista economico-commerciale (specialmente con il possibile alleggerimento delle sanzioni [6]), sia da quello strategico, costituendo l’altopiano iraniano una vera e propria via d’accesso all’Asia centrale, area nella quale gli interessi turchi sono molteplici e rilevanti. I rapporti turco-iraniani rimangono tuttavia condizionati dalla diversità di vedute dei due Paesi in un certo numero di questioni regionali di primaria importanza, come quella irachena, quella yemenita e, soprattutto, quella siriana.

Altro aspetto passibile di sviluppi rilevanti, nel prossimo futuro, è quello della politica estera asiatica di Ankara. Durante il primo governo a guida AKP (2002-2007) l’inedito attivismo della Turchia nell’ex spazio ottomano nel Vicino Oriente pose in secondo piano le relazioni con gli Stati turcofoni dell’Asia centrale. In realtà, se si eccettua il periodo che seguì alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando (per breve tempo) parte dell’establishment politico credette di poter estendere l’influenza di Ankara agli antichi luoghi d’elezione della turcofonia, il rapporto tra la Turchia e le repubbliche post-sovietiche centroasiatiche non ha mai costituito una priorità strategica. Tuttavia, i cospicui legami etnici, linguistici e culturali con l’Asia centrale costituiscono un asset cui Ankara non sembra disposta a rinunciare, anche in virtù dell’importanza rivestita da alcuni Paesi della regione dal punto di vista delle forniture energetiche. In particolare, rapporti privilegiati si confermano quelli con il Kazakhstan di Nursultan Nazarbayev, con il quale sono stati recentemente firmati accordi commerciali nell’ambito del Consiglio di Cooperazione Strategica turco-kazako. I due Paesi, entrambi alle prese con il rallentamento dei rispettivi tassi di crescita, hanno intenzione di portare l’interscambio commerciale a 10 miliardi di dollari e di creare zone industriali congiunte, ponendo le basi per divenire le reciproche porte di ingresso per l’Asia e per l’Europa [7].
Più in generale, sembra che il totale stallo dei negoziati tra Turchia e Unione Europea stia incoraggiando Ankara a perseguire in Asia una politica estera più attiva e propositiva rispetto al passato. Dall’aprile 2013 Ankara è partner di dialogo dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Shanghai Cooperation Organisation), la più importante piattaforma di cooperazione politica, economica, commerciale, scientifica e tecnologica dell’Asia. Fondata nel 2001 da Cina, Russia, Kazakhstan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, alla SCO partecipano inoltre cinque membri osservatori (India, Pakistan, Iran, Mongolia e Afghanistan) e tre dialogue partner (Bielorussia, Sri Lanka e, appunto, Turchia). Con il graduale spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale verso Est, Ankara appare quindi voler privilegiare e approfondire le relazioni con Mosca e Pechino piuttosto che quelle con Bruxelles. La questione non è del resto pacifica, dal momento che l’appartenenza della Turchia alla NATO potrebbe costituire un ostacolo insormontabile ad una sua futura, completa integrazione nell’Organizzazione di Shanghai: data la natura dei due trattati, infatti, la partecipazione all’uno escluderebbe l’ingresso nell’altro [8].
Non è inoltre da sottovalutare l’impatto futuro del cosiddetto “Turk Stream”, il gasdotto che dovrebbe rimpiazzare il “South Stream”, naufragato a causa delle pressioni dell’Unione Europea sulla Bulgaria, punto d’approdo previsto del gas russo in Europa. Mosca e Ankara, i cui rapporti bilaterali rimangono di altissimo livello a dispetto delle vedute opposte sulla questione siriana, prevedono perciò la costruzione di un gasdotto che, transitando attraverso il Mar Nero, porti il gas – a prezzo di favore – direttamente sulla costa turca settentrionale, per poi proseguire verso l’Europa via Grecia. Il carattere davvero innovativo dell’accordo starebbe comunque nella possibilità data alla Turchia di ri-esportare in Europa il gas, inaugurando quello che è stato definito un vero e proprio “mutamento di paradigma” rispetto al passato [9].

In conclusione è lecito affermare che, tanto a livello interno che internazionale, la prossima legislatura rappresenterà un periodo cruciale per la Turchia. Molto dipenderà, ovviamente, dall’esito delle prossime elezioni, che definiranno i nuovi rapporti di forza in un Parlamento comunque destinato ad una nuova maggioranza AKP.
Sul piano interno, decisiva sarà la capacità delle autorità politiche di Ankara di intervenire con efficacia sull’economia e di gestire la complessa questione curda, suscettibile, come detto, di avere rilevanti riflessi esterni. Sul piano internazionale, il problema più pressante deriva al momento attuale dalla situazione di instabilità generalizzata caratterizzante una vastissima area estesa dal Maghreb al Mashrek, e nella quale Turchia, Iran e Israele rappresentano di fatto le uniche entità statuali dotate di stabilità istituzionale e capaci di un effettivo controllo del territorio. In tale contesto, la priorità della Turchia deve essere quella di recuperare la funzione di polo di stabilità continentale che essa aveva ricoperto con successo sino al 2011. Solo così facendo essa potrà ambire a riguadagnare influenza su scala regionale e globale.

Andrea Puzone, dottore in Relazioni Internazionali

NOTE:
1) http://www.jamesinturkey.com/elections/turkeys-general-election-2015/rolling-average/
2) Paolo Magri, Introduction, The Uncertain Path of the “New Turkey”, ISPI, 2015
3) Mustafa Kutlay, Turkish Political Economy in the Post-2011: A Turbulent Period, in The Uncertain Path of the “New Turkey”, ISPI, 2015
4) http://data.unhcr.org/syrianrefugees/country.php?id=224
5) http://www.limesonline.com/nello-scontro-tra-iran-e-arabia-saudita-la-turchia-rimane-ambigua/76730
6) http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2015/04/turkey-iran-how-will-benefit-from-lifting.html
7) http://www.dailysabah.com/economy/2015/04/16/turkey-and-kazakhstan-to-cooperate-in-boosting-trade-throughout-eurasia
8) http://english.pravda.ru/world/asia/04-02-2013/123669-turkey_shanghai_cooperation_organization-0/
9) http://www.naturalgaseurope.com/turk-stream-paradigm-between-russia-and-turkey


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