L’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti potrebbe aver dato il colpo di grazia al traballante accordo col quale la cosiddetta comunità internazionale ha, almeno secondo Obama e i suoi stretti collaboratori, messo fine allo sviluppo dell’arma atomica a Teheran, in cambio di un blando, blandissimo ridimensionamento delle sanzioni economiche contro la Repubblica Islamica dell’Iran. Infatti il candidato del Partito repubblicano si è da sempre espresso in modo nettamente contrario a un accordo che secondo il biondo neopresidente degli States non avrebbe fatto altro che potenziare il ruolo regionale dell’Iran, concedendo agli ayatollah l’opportunità di rafforzarsi all’interno grazie alla vendita dell’oro nero, tornato a produzioni considerevoli dopo un periodo di oblio e di assenza del petrolio iraniano dai mercati internazionali, mentre all’estero l’Accordo di Vienna avrebbe, sempre secondo Trump, di fatto consegnato il Medio Oriente alla teocrazia di Teheran, con ormai una presenza capillare degli iraniani a livello militare in paesi come l’Iraq, la Siria e lo Yemen. Se l’elezione di Trump quindi è stata una doccia fredda per chi in Iran sperava nella continuazione delle politiche di Obama, incarnate nella persona della signora Clinton, la scelta del popolo americano di virare verso un candidato populista e anti-casta, è stata una manna dal cielo per l’ala più conservatrice del governo iraniano, ovvero per chi aveva da sempre giudicato l’accordo sul nucleare una resa unilaterale nei confronti del grande satana occidentale. Chi più di altri aveva criticato l’Accordo di Vienna in Iran era stata la Guida della Rivoluzione in persona, l’ayatollah Khamenei, la quale aveva posto come unica condizione per accettare il compromesso con gli occidentali la rimozione immediata e completa di tutte le sanzioni contro l’Iran, cosa che il testo approvato dalle potenze mondiali e dal governo iraniano nel luglio del 2015 non prevedeva, dimostrando in concreto che la volontà di raggiungere costi quel che costi un accordo più che essere una volontà di tutto lo Stato iraniano, era la volontà del governo moderato di Hassan Rohani, il quale sperava in questo modo di rimettere in moto la macchina dell’economia iraniana, che sta attraversando anni difficili di forte depressione, con decine, forse centinaia di grandi aziende pubbliche e private che hanno o ridimensionato o completamente fermato la produzione, come la celebre fabbrica di elettrodomestici “Arj”, con sede a Teheran, azienda storica che la scorsa estate ha alzato bandiera bianca e ha chiuso ufficialmente i battenti, lasciando a casa una moltitudine di operai. Dire che Khamenei sperava nella vittoria del repubblicano apertamente antiraniano Trump per costringere Rohani a rivedere la propria politica estera è forse una esagerazione, però ci sono molti indizi per comprendere come qualcuno a Teheran tifasse per il Berlusconi d’oltre oceano.

Tre indizi fanno una prova. Le aperture della Guida iraniana all’elezione di Trump e la speranza della sconfitta della signora Clinton sono riassumibili in tre indizi.

Il primo indizio risale a circa una settimana prima delle elezioni statunitensi; la Guida della Rivoluzione disse in occasione di un discorso pubblico dinanzi a una platea di studenti, riguardo a Trump e alla Clinton e ai loro scontri televisivi:

“Avete visto i due candidati americani? Avete sentito le relatà alle quali si sono riferiti? Avete sentito bene? Hanno detto delle verità riguardo alla situazione americana. Hanno affermato delle verità, delle cose che in parte anche noi sosteniamo, ma spesso molti non vogliono credere o non credeno a quello che sosteniamo noi. La cosa interessante è che il candidato che ha maggiormente detto la verità, è stato quello che ha raccolto più consensi.”  

Quel La cosa interessante è che il candidato che ha maggiormente detto la verità, è stato quello che ha raccolto più consensi è sembrato a tutti un chiaro riferimento alle istanze di Donald Trump che con le sue esternazioni ha colmato con successo la distanza che i sondaggi sottolineavano prima dell’ultima settimana della campagna elettorale con la signora Clinton. Nella stessa occasione la Guida iraniana ha sottolineato come Trump abbia fatto notare giustamente il problema della povertà negli States e di come l’un percento della popolazione degli USA detenga il 90 percento della ricchezza nazionale.

Il secondo indizio delle aperture indirette di Khamenei a Trump riguarda la situazione postelettorale. Risultato delle elezioni alla mano, la Guida iraniana, dopo aver sottolineato l’indifferenza di Teheran rispetto all’esito del voto, ha voluto comunque ribadire che al momento l’Iran non ha una opinione particolare rispetto a Trump e che le opinioni e i giudizi verranno dati valutando l’operato della nuova amministrazione conservatrice negli USA, il che è già una notizia, visto che normalmente la Guida Suprema non usa toni particolarmente moderati rispetto al governo americano.

Il terzo indizio che indica la soddisfazione di Khamenei per l’esito elettorale americano riguarda le dure accuse rivolte a Obama subito dopo la notizia della vittoria di Trump. In occasione della decisione del parlamento americano di rinnovare per altri 10 anni le sanzioni economiche contro l’Iran (Legge D’Amato), nonostante l’iniziativa di tale decisione, che secondo Khamenei in caso di approvazione definitiva metterebbe la parola fine all’Accordo di Vienna, sia stata presa dai repubblicani egemoni in seno al potere legislativo americano, la Guida iraniana ha colto l’occasione per attaccare duramente l’attuale amministrazione democratica di Obama, accusando il governo in carica degli USA di tradimento e di non serietà nell’attuazione corretta delle promesse fatte più di un anno fa in Austria da Kerry e dai suoi collaboratori.

Se tre indizi fanno una prova, possiamo dire apertamente che la Guida iraniana e i conservatori di Teheran hanno accolto con soddisfazione la vittoria di Trump, sperando in questo modo di mettere in difficoltà Rohani e i moderati, coloro i quali avevano investito politicamente tutto quello che avevano sulla Clinton e sull’Accordo di Vienna del 2015. Questo non vuol dire certo che ora tra il nuovo governo americano e l’Iran ci saranno relazioni diverse rispetto al passato; la simpatia moderata provata dagli ultraconservatori della Repubblica Islamica per Trump è solo in funzione antimoderati all’interno del paese persiano, ma è pur sempre sinonimo dell’attrazione che spesso nella politica internazionale e interna dei vari paesi gli opposti estremismi provano vicendevolmente. In fondo secondo alcuni fu la presa degli ostaggi a Teheran nel 1979 a causare la fine del governo Carter e l’ascesa dei repubblicani di Reagan, grazie anche alle prese di posizione dell’allora Guida iraniana, l’Imam Khomeini. Allora gli ayatollah aprirono la strada ai conservatori e misero fine all’esperienza moderata di Bazargan all’interno; oggi gli stessi ayatollah strizzano l’occhio a Trump, sperando di ridimensionare l’esperienza riformatrice di Rohani.


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Ali Reza Jalali, laureato in giurisprudenza presso l`Università degli Studi di Brescia, ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Verona. Attualmente insegna diritto costituzionale e internazionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza della Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università Islamica di Shahrud (Iran). Presiede il Centro studi internazionale Dimore della Sapienza, di cui è anche responsabile per la sezione dedicata agli studi giuridici e politologici. Ha pubblicato numerosi saggi su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e nel relativo sito informatico. Nelle sue ricerche si occupa prevalentemente dei temi attinenti al diritto pubblico, al diritto internazionale, al rapporto tra Islam e scienza politica ed alle relazioni internazionali, in particolare per quanto riguarda l’area islamica.