La consegna di un ex terrorista non più attivo è un’ambizione legittima, ma non prioritaria per l’interesse nazionale. La crisi in corso col Brasile si sarebbe potuta evitare con un diverso atteggiamento da parte italiana: considerazioni di politica interna hanno influito sulla nostra politica estera. L’Italia critica atteggiamenti del Brasile che però non esita ad assumere in prima persona.


1. La politica estera d’uno Stato è guidata innanzi tutto (benché non esclusivamente) da quello che è tradizione chiamare “interesse nazionale”. Tale termine, in tempi recenti, è stato spesso accolto alla stregua d’una bestemmia: ancora oggi, per quanto sempre più persone ritengano lecito perseguirlo, pochi hanno il coraggio di nominarlo e di rivendicarlo. È per questo che solitamente gli uomini di Stato e la stampa “governativa” preferiscono ricorrere ad espressioni ideologiche (come “diritti umani”, “democrazia”, “libertà religiosa”, “emancipazione femminile” e via dicendo) per ammantare le proprie azioni, sotto le quali si nasconde però il famigerato “interesse nazionale”, o ciò che è percepito come tale. L’interesse nazionale informa la politica estera; l’ideologia, quasi sempre, è usata solo per giustificare tale politica agli occhi dell’opinione pubblica e, magari, pure alla coscienza stessa degli uomini di Stato. L’interesse nazionale è precipuamente pratico, non idealistico.

2. Non tutto ciò che rientra nella categoria di “interesse nazionale” ha il medesimo valore: ci sono interessi gerarchicamente più alti ed altri più bassi, interessi prioritari ed altri di scarsa importanza. Ottenere la consegna di un ex manovale del terrorismo, espatriato trent’anni fa e che da allora ha abbandonato l’attività eversiva, non può considerarsi un interesse nazionale prioritario. Lo sarebbe se il soggetto in questione fosse ancora attivo nel terrorismo, ed in posizione altolocata. L’estradizione di Cesare Battisti è una richiesta senza dubbio fondata, che comprensibilmente ha un elevato significato morale soprattutto per le vittime delle sue azioni, ma – a costo di sembrare cinici ed insensibili – bisogna ripetere che, dal punto di vista dell’Italia e dell’interesse nazionale, non costituisce un fatto di grande rilievo.

3. L’enfasi posta sulla consegna di Cesare Battisti, dopo trent’anni di latitanza inoffensiva, non deriva dalla comprensibile e condivisibile sete di giustizia delle vittime dirette o indirette delle sue azioni (si pensi ad Alberto Torreggiani, che ricade in entrambe le categorie avendo perduto il padre e l’uso delle proprie gambe): essa è rimasta viva per tutto questo tempo, ma solo recentemente ha trovato sostegno istituzionale sfociato nel battage mediatico degli ultimi giorni. Secondo un rapporto del Governo, diffuso nel 2007, gli ex terroristi italiani rifugiati all’estero sono 113. Nessuno di loro viene estradato dalle autorità ospiti, eppure solo per Cesare Battisti si è montato il caso, al punto da pregiudicare (apparentemente) i rapporti col Brasile. Non è errato perseguire l’estradizione di tali soggetti, dal momento che in Italia non è mai passata alcuna amnistia relativa agli “anni di piombo”: tuttavia, trattandosi di ex terroristi che non costituiscono più una minaccia all’ordine pubblico ed alla sicurezza nazionale, l’obiettivo dovrebbe avere bassa priorità, sicuramente più bassa che mantenere relazioni cordiali con gli altri paesi. Le richieste d’estradizione degli ex terroristi costituiscono questione che riguarda il sistema giudiziario, non la politica estera. Talvolta concernono persino la politica interna, giacché s’inquadrano nelle residue conflittualità ideologiche: si rispolverano le divisioni degli anni ’70, sopite ma non cancellate nei residui di partigianeria politica, per trarne vantaggi elettorali. Ma gl’interessi di fazione non dovrebbero mai confliggere con una condotta serena e meditata della politica estera.

4. Una volta che si era deciso, per qualsivoglia motivo, di concentrarsi proprio sull’estradizione di Cesare Battisti, era possibile lavorarvi silenziosamente. Al contrario, si è fatto un gran baccano (forse proprio perché l’azione è tesa a rafforzare il consenso interno presso ben precisi settori dell’elettorato), ma la pubblicità si è rivelata un’arma a doppio taglio. Coinvolgere la popolazione in politica estera rafforza le autorità all’interno, e dunque pure nella loro azione all’esterno, ma in una certa misura le subordina alle passioni popolari. La particolare psicologia della massa – o, se vogliamo riprendere Le Bon, delle “folle” – la rende poco incline alla moderazione, ai compromessi, alla mediazione, ed a tutti quegli elementi che invece rappresentano l’armamentario della diplomazia. Se le guerre del ‘900 furono tanto sanguinose, è anche perché furono mobilitate, coinvolte ed eccitate le masse come mai prima d’allora. In un contesto fortunatamente meno drammatico, l’effetto è comunque il medesimo. Il Governo, dopo essersi esposto di fronte agl’italiani sulla questione Battisti, si ritrova a gestire il rifiuto brasiliano all’estradizione, e non può più svicolare silenziosamente. O incassa la sconfitta, o indirizza la rabbia popolare verso l’esterno, ossia verso il Brasile. Ricordiamo ancora una volta, però, che tale rabbia popolare è stata creata dal Governo stesso: fino a pochi anni fa, ben pochi italiani avrebbero sentito il bisogno di rimpatriare Battisti. Infatti, l’Italia numerose volte è stata messa di fronte al rifiuto straniero d’estradare un ex terrorista, eppure mai si è assistito ad un’ondata di sdegno popolare, ed alla conseguente necessità per i governanti di assecondarla. La crisi internazionale, insomma, è stata creata dal Governo italiano tramite una gestione poco oculata della vicenda.

5. Ecco perché urgerebbe un esame di coscienza ai vertici del nostro paese. L’affaire Battisti, tutto sommato una questione minore che si sgonfierà in poche settimane, è solo un sintomo d’un reale malessere della nostra politica estera. Due problematiche maggiori si possono individuare. La prima, è il protagonismo scomposto di taluni ministri. Il ministro dovrebbe occuparsi del proprio dicastero, non interferire in quelli altrui se non nei limiti imposti dalla sua carica stessa (ad esempio, il ministro del Tesoro deve intervenire in tutti i campi che tocca a lui finanziare); dovrebbe astrarsi dalla bassa politica, dalle beghe di partito, perché il suo ruolo istituzionale fa sì che qualsiasi posizione, qualsiasi dichiarazione sia amplificata, in patria come all’estero. Immaginiamoci, per ipotesi, un ministro della Difesa che frequenti abitualmente i salotti televisivi disquisendo del più e del meno e lasciandosi andare a intemperanze; che intervenga con vis polemica in fatti che sono competenza d’altri ministri; che, qualora sorgano incomprensioni coi vertici militari, anziché discuterne con loro tra le quattro mura del Ministero, preferisca criticarli a mezzo stampa cercando d’umiliarli davanti all’opinione pubblica. Non si dovrebbe concludere che un siffatto ministro della Difesa, se esistesse, dovrebbe essere giudicato inadatto a quel ruolo e venire dimissionato quanto prima? La mancanza di disciplina interna al Governo diventa fonte d’imbarazzo ed errori politici. La questione Battisti andrebbe gestita solo ed esclusivamente dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli Esteri, senza interventi destabilizzanti da parte di altri ministri, vocianti ed inopportuni. L’età avanzata del Capo del Governo, il suo indebolimento politico, la sua dichiarata volontà di ritirarsi fra alcuni anni, hanno scatenato una disputa per la successione che esalta il protagonismo di taluni. È anche da questo clima – tutto interno ai partiti di governo – che sortiscono enfasi inopportune, dichiarazioni scomposte, che eccitano gli animi all’interno e creano avversione all’esterno.

6. La seconda problematica riguarda la particolare diplomazia personale del presidente Berlusconi. Sia chiaro: chi scrive non è tra coloro che snobisticamente dileggiano la teatralità insita al suo stile. Intrattenere rapporti interpersonali con altri statisti, ospitarli con le famiglie in una propria residenza, e così via, rafforza la fiducia reciproca e l’affiatamento tra gl’interlocutori. Resta però il fatto che tutto ciò è un contorno, un complemento della diplomazia: non può di certo farsene surrogato. I rapporti con Putin, ad esempio, sono effettivamente eccellenti solo perché Italia e Russia hanno concluso accordi di utilità pratica e portata strategica (alleanza ENI-Gazprom, South Stream ecc.): sorrisi ed amicizia suggellano e rafforzano l’alleanza, ma non ne sono il fondamento. Alla forma vanno aggiunti i contenuti. Dunque non bastano siparietti coi giocatori brasiliani del A.C. Milan per rendere saldo il rapporto tra Brasilia e Roma.

7. I contenuti dei rapporti recenti tra Brasile e Italia non sono tutte rose e fiori, come si è voluto far credere. Al contrario, le posizioni dei due paesi spesso sono risultate essere opposte. In Sudamerica il Brasile fraternizza con le “sinistre”, siano esse “moderate” o bolivariane, mentre Roma non fa mistero di simpatizzare per le destre conservatrici o persino reazionarie. Nel Vicino Oriente, mentre Lula si è impegnato come mediatore in Israele/Palestina e nel dossier nucleare iraniano, Berlusconi ha preferito optare per un appiattimento totale sulle posizioni più oltranziste, bellicose e radicali espresse dallo Stato sionista. Infine, la maggiore pietra della discordia: l’ONU. Il Brasile si è candidato ad un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza, assieme a India, Giappone e Germania (G4). L’Italia si è esposta platealmente per ostacolare l’accoglimento della loro candidatura: è stato infatti il nostro paese a promuovere il gruppo Uniting for Consensus, la formazione internazionale che s’oppone al G4. C’è qualche dubbio sul fatto che tale scelta sia davvero oculata, da parte di una semplice “media potenza” qual è l’Italia. Lo scopo di Roma è sostituire il seggio tedesco con un seggio europeo comune. È vero che in tal modo l’Italia approderebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma condividendo il seggio con altri 27 paesi. Se il seggio fosse assegnato a rotazione, come proposto qualche anno fa da Frattini, l’Italia lo occuperebbe ogni 27 anni. Col sistema attuale, in 55 anni di appartenenza all’ONU l’Italia è stata eletta al Consiglio di Sicurezza per sei volte, ossia una volta ogni 9 anni. Evitiamo però d’entrare nei particolari d’una questione che esula dall’argomento del presente articolo. Il punto è questo, e credo sia stato chiarito: l’Italia ha fatto più d’uno sgarbo al Brasile, e poteva dunque aspettarsi di ricevere la pariglia.

8. Guardando al problema da un’ottica più ampia, ci si rende conto che non riguarda solo il Brasile. Si è già accennato come l’estradizione di ex terroristi sia stata negata da molti paesi stranieri, e non tutti avevano dispute in corso con l’Italia. Come lo si può dunque spiegare? Negli anni ’70, per affrontare il fenomeno nuovo del terrorismo, di destra e di sinistra, le autorità italiane ricorsero a misure straordinarie, talvolta anche draconiane: carcerazione “preventive” che potevano durare anni, condanne basate su prove scarse, a detta d’alcuni testimoni persino torture sui prigionieri (a suo tempo, nel 1982, ne parlò anche Amnesty International, affermando d’aver ricevuto notizie di prima mano non solo dalle vittime, ma pure da poliziotti). Sarà superfluo ricordare, avvicinandosi a tempi più recenti, la vicenda di Bolzaneto o le morti sospette di Stefano Cucchi ed altri carcerati. Lungi da noi scagionare Cesare Battisti: anche ammettendo che sia davvero innocente rispetto ai fatti di sangue che gli sono imputati, resta la partecipazione ai PAC, formazione terrorista che compì azioni odiose. È però lecito ipotizzare che, se molti decidono di non dar seguito alle richieste d’estradizione dall’Italia, forse ci sia davvero stato qualche lato oscuro nel sistema giudiziario e carcerario italiano. E se il nostro Presidente del Consiglio è il primo a non lesinare critiche alla magistratura nazionale, sarà altrettanto lecito sospettare che qualche punto controverso sussista ancora oggi. Non s’avalla l’idea (chiaramente pretestuosa) che i “diritti umani” di Battisti non sarebbero rispettati in Italia, ma si sottolinea che è giusto porsi anche la domanda di come gli altri guardino a noi dall’esterno. Le critiche degli stranieri non sono necessariamente corrette, ma ignorarle a prescindere è un errore.

9. Si è ricordato come il diniego all’estradizione verso l’Italia è talvolta motivata dal “rispetto dei diritti umani”. Si tratta di un’ingerenza negli affari interni del nostro paese, certo. Ma la stessa Italia non ha lesinato tale pratica, richiamandosi anch’essa ai “diritti umani”. Taciamo pure dei continui interventi del ministro degli Esteri Frattini per chiedere la liberazione di Sakineh Ashtiani, donna detenuta in Iràn con l’accusa d’omicidio. Tralasciamo che dal gennaio 2009 il nostro paese non considera più gruppo terrorista i “Mujaheddin del Popolo Iraniano“, banda armata eversiva, d’ispirazione comunista, responsabile di centinaia di morti in Iràn. Resta comunque qualcosa da dire anche in relazione all’America Indiolatina. Il capitano Jorge Fernandez Nestor Troccoli operò nei servizi di sicurezza durante la dittatura militare in Uruguay (1973-1985): malgrado abbia confessato d’aver inflitto torture ai prigionieri politici, e malgrado la magistratura del suo paese l’accusi di averne anche uccisi parecchi, da alcuni anni risiede in Italia, gli è stata concessa la cittadinanza ed è stata negata l’estradizione richiesta dall’Uruguay. Prendiamo un caso che riguarda più da vicino i rapporti Italia-Brasile. Salvatore Cacciola, personaggio completamente sconosciuto in Italia, è un nome ben noto in Brasile. Banchiere milanese attivo in Brasile, fu là condannato a 13 anni di carcere per peculato e frode, dopo aver ridotto sul lastrico molti risparmiatori: ricevette rifugio in Italia, che ne negò l’estradizione, e se oggi Cacciola si trova nelle galere brasiliane lo si deve solo all’Interpol e ad una sua incauta vacanza a Montecarlo. La morale della storia la si sarà già intuita. Se l’Italia è stata la prima a sindacare il rispetto dei “diritti umani” a casa d’altri, se è stata la prima a dar rifugio a criminali e negarne l’estradizione, non può oggi scandalizzarsi di ricevere un pari trattamento. Sarebbe meglio ritornare ad un maggiore rispetto della sovranità nazionale, ma ciò non si può pretendere come privilegio esclusivo: dev’essere reciproco.

10. In ogni caso, è assai probabile che il nostro Governo non andrà oltre le intemperanze verbali. Passare dalle parole ai fatti, prendere misure “di rappresaglia” contro il Brasile, danneggerebbe l’Italia quanto e forse più del paese sudamericano. Semplicemente, Cesare Battisti non vale tanta fatica e tanti sacrifici. Ritornando al tema iniziale: non si possono sacrificare interessi nazionali rilevanti per questioni minori. E in ogni caso, non sarà con le rappresaglie e lo scontro frontale che si potrà mutare la decisione brasiliana. È semmai abbassando i toni, lavorando pazientemente e con diplomazia, che si potrebbe convincere la nuova presidentessa Dilma Roussef a rivedere la decisione del suo predecessore.


* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale (Fuoco, Roma 2010)

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