Il titolo di questo pezzo può apparire una domanda retorica. C’è però differenza tra avere paura del nemico – per gli USA la Repubblica Popolare Cinese – e una razionale presa di coscienza del proprio declino relativo. Se, passata la tracotanza dell’era Reagan-Bush Sr.-Clinton-Bush Jr., con Obama gli USA hanno riadattato la propria (costante) strategia di dominio globale alla propria perdita di peso relativo[1] rispetto al resto del mondo, l’elezione di Trump sembra aver palesato le paure degli Stati Uniti più profondi e una perdita di fiducia nella capacità americana di influenzare e decidere le sorti del mondo. Per chiunque conosca l’ideologia americana è chiaro che quel paese ha l’assoluta necessità di avere un nemico esterno per tenere compatto un fronte interno quanto mai complesso e sfilacciato[2]: la Cina è il nemico perfetto, poiché unisce all’avversata ideologia comunista e alla temuta “civiltà aliena” la diretta sfida economica e geopolitica, quello che il vecchio nemico islamico non poteva certo fare.

Più che sfilacciato, il fronte interno degli USA sembra ormai a rischio disgregazione[3], e l’avversione alla Cina si sta tramutando in monomania. Non necessariamente i due fenomeni sono scollegati, anzi! La rivista “Eurasia” non si è mai unita al coro di chi prevedeva fantomatiche “ritirate” degli Stati Uniti dalla scena globale e chi scrive non si è mai unito al coro di chi immaginava un declino assoluto, verticale e rapido degli USA; abbiamo sempre sostenuto che la partita è aperta, prima in un mondo multipolare e ora in un mondo che potrebbe essere bipolare o, se non con due veri e propri “poli”, con due potenze principali impegnate a contendersi un mondo caotico.

Questa autoindotta “febbre da declino” è però chiaramente percepibile se si leggono le riviste statunitensi di politica internazionale e gli articoli sulle questioni strategiche e militari; un interessante termometro si ritrova nel dibattito sulla questione russa. Le posizioni dei centri studi e degli autori d’oltreoceano sono molteplici e articolate, ma è rivelatore il semplice fatto che oggi ci sia un dibattito su un possibile riavvicinamento alla Russia. Fino a ieri questa prospettiva era presentata come l’idea balzana di un Trump ricattato dal Cremlino per chissà quali torbide vicende. Non si può non notare che l’esistenza stessa di questo dibattito manda in soffitta anche le articolate ed argute elaborazioni della stampa nostrana sulla guerra fra Trump e Bannon da una parte e democratici e “Stato Profondo” dall’altra. Trump e Bannon, perno dell’asse dei cosiddetti sovranisti, avrebbero voluto impalmare una sposa russa, mentre i liberalprogressisti, saldamente alleati con il Pentagono, avrebbero imposto che tale matrimonio non s’aveva da fare, né domani né mai. Quando si vuole ricostruire la politica estera della prima potenza al mondo guardando dal buco della serratura si rischia – in assoluta ottima fede, senz’altro – di prendere tali abbagli.

L’America, come tutte le grandi potenze della storia, non ha alleati o nemici permanenti, ma solo interessi permanenti, e la sua classe dirigente ne è ben conscia, dato che tali interessi sono i suoi propri (ovvero la sua ricchezza, prosperità ed autopreservazione). Il dibattito sui rapporti con la Russia invece c’è, ed è arduo riassumerlo qui nella sua interezza. Se ad esempio il 13 Maggio “Foreign Policy” pubblica un articolo di Matthew Kroenig intitolato “Gli Stati Uniti non dovrebbero allinearsi alla Russia contro la Cina[4], “National Interest” con Michael Kimmage e Matthew Rojansky il 3 Luglio pubblica un pezzo dal titolo “Il terzo vicino: può l’America vivere con la Russia di Putin?”[5], affermando moderatamente che “Russia will not disappear, and so it is essential to develop a Revised approach to U.S.-Russia relations. Instead of friend or foe, it’s time for Russia to be viewed as the third neighbor of the United States.” (“La Russia non sparirà, ed è quindi essenziale sviluppare un approccio rivisto alle relazioni Stati Uniti – Russia. Invece che come amico o nemico, è tempo di vederla come un terzo vicino”). Ben più articolata l’elaborazione contenuta in un libro del 2018 di Joshua R. Itzkowitz Shifrinson, docente di Relazioni Internazionali alla Boston University, intitolato “Rising Titans, Falling Giants: How Great Powers Exploit Power Shifts”, pubblicato dalla Cornell University Press. L’autore prima esamina i rapporti a tre fra potenza egemone, potenza in ascesa e potenza declinante, guardando al triangolo USA, Gran Bretagna ed URSS dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quindi analizza i rapporti tra gli USA vincenti e l’URSS in declino nei decenni successivi[6], cercando di capire quando e come alla potenza egemone convenga “giocarsi la carta” di quella declinante contro quella in ascesa.

Il dibattito non resta solo sul piano teorico e dottrinale, ma ha risvolti politici. Donald Trump ha provato negli ultimi anni a ripristinare la partecipazione della Russia al G8, ma la Russia ha sempre risposto declinando l’invito perché interessata ad altre forme di dialogo oppure ricordando che un ritorno al tavolo del G8 sarebbe sì gradito, ma ciò avrebbe un senso decisionale solo se vi sedessero anche Cina ed India, trasformando il G8 in G10. Tutto ciò non significa dunque che i Russi vogliano legarsi mani e piedi alla Cina e recidere ogni contatto con USA e UE: ci tengono anzi a mantenere in gioco anche gli Indiani, i quali con la Repubblica Popolare hanno rapporti tutt’altro che facili. Significa invece che i tempi di Gorbacev e El’cin, quando a Mosca si lavorava per il re di Prussia, non solo sono morti e sepolti, ma non accennano nemmeno a ritornare. Lucidi o meno nelle proprie riflessioni, gli Stati Uniti rischiano dunque di rimanere col cerino in mano, corteggiando Russia e India nella speranza di arruolarli in una sorta di “armiamoci e partite”. Il vero problema degli USA non sarà dato dalla scarsa influenza sugli avversari, ma da quale presa eserciteranno sugli alleati. Sino ad oggi, in America Latina e nel blocco anglofono non si vedono crepe significative. Restano da valutare i futuri rapporti con gli europei continentali e gli alleati asiatici, specie una volta chiarito chi sarà il prossimo inquilino del civico 1600 di Pennsylvania Avenue a Washington.


NOTE

[1] Lo ripetiamo: relativo. Una potenza può non perdere ricchezza e influenza in senso assoluto (o può persino accrescerli) ma può contemporaneamente vedere ridotta la propria quota di potere globale a causa della crescita di altri.

[2] Amedeo Maddaluno, Gli Stati Uniti fra terra e mare, eurasia-rivista.com, 13 Dicembre 2018. Per riassumere rapidamente le divisioni interne agli USA elenchiamo senz’altro quelle tra nord industriale e sud agricolo e povero, tra coste globalizzate (costa occidentale tecnologica e costa orientale finanziaria) ed entroterra legato all’economia tradizionale, tra bianchi e neri, tra ricchi e poveri, tra residenti ed immigrati latinos.

[3] È solo per la perversa abilità dell’apparato ideologico e mediatico degli USA che gli scontri seguiti all’assassinio di George Floyd non si sono tramutati in uno scontro di classe tra i pochi ricchi e la massa di diseredati del paese a stelle e strisce. Media, intellettuali e politici hanno “normalizzato” le proteste riconducendole nell’alveo dell’antica e mai risolta frattura razziale, qualcosa di drammatico ma comunque di noto che il potere americano ha imparato a gestire erogando ai neri contentini che li tengono ben lontani da effettive pari opportunità. La borghesia statunitense ha così ancora una volta addomesticato quel malcontento: una lotta di classe autentica sarebbe stata ben più difficilmente gestibile da parte di una società fondata sulla più feroce diseguaglianza.

[4] The United States Should Not Align with Russia to Counter China, foreignpolicy.com

[5] The Third Neighbor: Can America Live With Putin’s Russia? Nationalinterest.org

[6] Il riassunto della tavola rotonda dove il testo viene analizzato da ben quattro studiosi è contenuto qui: Book Review Roundtable: Rising Titans, Falling Giants, tnsr.org, 13 Luglio


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Amedeo Maddaluno collabora stabilmente dal 2013 con “Eurasia” - nella versione sia elettronica sia cartacea - focalizzando i propri contributi e la propria attività di ricerca sulle aree geopolitiche del Vicino Oriente, dello spazio post-sovietico e dello spazio anglosassone (britannico e statunitense), aree del mondo nelle quali ha avuto l'opportunità di lavorare e risiedere o viaggiare. Si interessa di tematiche militari, strategiche e macroeonomiche (si è aureato in economia nel 2011 con una tesi di Storia della Finanza presso l'Università Bocconi di Milano). Ha all'attivo tre libri di argomento geopolitico - l'ultimo dei quali, “Geopolitica. Storia di un'ideologia”, è uscito nel 2019 per i tipi di GoWare - ed è membro della redazione del sito Osservatorio Globalizzazione, centro studi strategici diretto dal professor Aldo Giannuli della Statale di Milano.