Un martire d’Eurasia

Ogni progetto o iniziativa volta all’integrazione e cooperazione all’interno del continente eurasiatico viene percepita dagli Stati Uniti alla stregua di minaccia esistenziale. Non comprendere questa semplice verità significa essere incapaci di intuire le ragioni di fondo che si celano dietro l’attuale scontro geopolitico. Parafrasando Martin Heidegger, si potrebbe quasi affermare che gli attuali analisti geopolitici producono/scrivono molto ma pensano molto poco ciò che è realmente essenziale.

Gli Stati Uniti stanno affrontando una fase di crisi di cui la “sovraestensione imperiale” è al contempo la causa e l’unica via per continuare a nutrire il loro connaturato “gigantismo” (altro concetto prettamente heideggeriano).

In un momento in cui l’intervento militare diretto non è più una soluzione praticabile, la sola alternativa possibile per mantenere più o meno inalterato il loro sistema egemonico, più che nel “tradizionale” cambio di regime, consiste nel determinare il caos, imponendo il divide et impera anche attraverso quelle azioni che già negli anni ’20 del XX secolo Carl Schmitt definiva nei termini di “gangsterismo”.

Tale soluzione è stata applicata alla Libia. Qui, gli USA (veri e propri artefici dell’aggressione anche se spesso si cerca di indicare Francia e Gran Bretagna come principali responsabili) non hanno mai cercato di installarvi un governo a loro favorevole. Sulla base della dottrina della “guerra permanente” attribuibile alla coppia Cebrowski/Rumsfeld si è semplicemente provveduto a creare una situazione di anarchia che in nessun modo potesse trovare una (rapida) soluzione politica. Ecco spiegato il motivo per cui Washington continua, a fasi alterne, a sostenere più o meno velatamente una delle due fazioni in lotta. Ed ecco il motivo per cui il trasferimento di milizie gihadiste dalla Siria, da parte della Turchia, viene visto di buon grado dal Pentagono. Attraverso la Libia, i miliziani possono facilmente raggiungere i Paesi del Sahel rendendo la presenza dell’Africom al loro interno indispensabile per la “sicurezza” in un momento in cui Russia e Cina stanno lavorando allo sviluppo della cooperazione commerciale e militare col continente africano.

Ora, per ciò che concerne i fatti mediorientali, pochi hanno compreso la reale portata dell’atto criminale (non giustificabile in alcun modo dal fatto che Washington avesse dichiarato le Guardie Rivoluzionarie come organizzazione terroristica) con il quale gli Stati Uniti hanno eliminato il Gen. Soleymani. Nessuno, ad esempio, ha tenuto in considerazione che solo pochi giorni prima si era dato inizio alle esercitazioni navali congiunte “Cintura di Sicurezza Marittima” tra Cina, Iran e Russia nel Golfo dell’Oman e nell’Oceano Indiano. Esercitazioni che, per dichiarazione del Vice Comandante dell’Esercito iraniano Habibollah Sayyari, sarebbero solo la prima fase di una cooperazione militare volta a garantire la sicurezza di uno snodo cruciale per il fabbisogno energetico globale.

Dunque, una prima chiave di lettura che possa spiegare la “brutalità” della scelta nordamericana può essere la loro necessità di mandare un segnale chiaro. Gli Stati Uniti sono ancora il Paese egemone della regione (cosa che risulta chiara se si osserva semplicemente la mappatura delle installazioni militari nordamericane nell’area) e da questa non se ne andranno presto, visto che la presunta “shale oil revolution” si sta rapidamente risolvendo in una bolla finanziaria ed ambientale. E non tollereranno l’intromissione di soggetti terzi al suo interno, seppur sotto “invito”.

Ciò porta all’indagine di una seconda chiave di lettura (forse ancora più importante), direttamente collegabile alla prima parte di questa analisi, ed alla quale si è fatto riferimento nel numero 4/2019 di “Eurasia” internamente dedicato all’Iran.

È abbastanza evidente che gli Stati Uniti non possono permettersi in alcun caso uno scontro diretto contro Teheran. Lo sanno bene al Pentagono. Lo sanno meno certi “falchi” imbevuti di messianismo giudaico-evangelico della cerchia immediata di Donald J. Trump. Washington non cerca la guerra aperta. Cerca la destabilizzazione ad infinitum della regione. E l’assassinio di Soleymani si inserisce perfettamente in questa strategia.

Il Primo Ministro iracheno Adil Abdul Mahdi ha rivelato che il comandante del corpo d’élite della Guardie Rivoluzionarie si era recato a Baghdad in cerca di una mediazione con l’Arabia Saudita per ridurre le tensioni nella regione. Nel suddetto numero di “Eurasia” si era proprio fatto riferimento alla notizia secondo cui le diplomazie russa e iraniana stavano lavorando sotto traccia con le monarchie dal Golfo per la realizzazione di un “patto di non aggressione” tra gli attori regionali[1].

Un’eventualità non esattamente gradita da Washington, se si considerano le cospicue commesse d’armamenti che partono dalle suddette monarchie ogniqualvolta cresce la tensione nell’area. E motivo di per sé sufficiente anche a spiegare il sostanziale silenzio radar nel momento in cui gli impianti petroliferi sauditi vennero sottoposti ad attacco da parte dei ribelli yemeniti[2].

Di fatto, Soleymani è stato ucciso perché rappresentava il solo uomo capace di costruire una reale mediazione tra le parti. Washington (e con essa Tel Aviv) con il suo omicidio ha già ottenuto quello che voleva: vanificare la possibilità di un equilibrio regionale che renda la sua presenza nell’area non più indispensabile. Per questo non vi sarà (al momento) alcuna ulteriore azione militare diretta contro l’Iran. Questo processo dovrà ora ripartire dall’inizio, senza uno dei suoi interpreti principali e sotto la costante minaccia di nuove terroristiche ritorsioni nordamericane. Qassem Soleymani, dunque, non è solo un martire iraniano. Come tanti altri, caduti nel tentativo di costruire un’alternativa all’egemonia globale nordamericana, è un martire dell’Eurasia nella sua totalità.

Le accuse all’Iran

Quello che (teoricamente) si sarebbe dovuto rilevare come un momento nel quale ricompattare le file del fronte che si oppone all’unipolarismo nordamericano, si è rivelato l’ennesimo fattore divisivo. Da più parti si è alzato il coro “né con gli USA né con l’Iran” adducendo a sua giustificazione più o meno complessi fattori storici e ideologici.

In questo contesto si sorvolerà sulla quanto meno banale accusa che vorrebbe fare dell’Iran un Paese imperialista alla pari degli Stati Uniti (accusa mossa a più riprese anche a Russia e Cina). A questo tema venne dedicato un intero numero di “Eurasia” (2/2013) dall’emblematico titolo “Imperialismo e Impero”. Qui, basterà ricordare che l’Iran, prima di essere uno Stato nazionale (nell’ovvio senso moderno del termine), è stato un Impero (nel senso connesso a questa idea eterna). Un Impero che, a differenza di quanto fatto dalla Cina, non è riuscito nella modernità a preservare totalmente la sua unità territoriale.

Ora, una prima accusa che viene mossa alla Repubblica Islamica è quella di aver aizzato la componente sciita irachena contro Saddam Hussein. Tale fattore avrebbe determinato sia il lungo conflitto degli anni ’80, sia il flusso (illegale, visto che l’Iran era sottoposto ad embargo) di armi statunitensi a Teheran (scandalo Iran-Contras). Questa idea estremamente riduttiva del suddetto conflitto non tiene in considerazione né alcuni aspetti geopolitici fondamentali né alcune problematiche dinamiche interne all’allora neonata Repubblica Islamica.

In primo luogo si evita scientemente di ricordare che gli Stati Uniti rifornirono ampiamente lo stesso Iraq durante il medesimo conflitto attraverso tecnologia dal doppio uso militare/civile, armi non di produzione nordamericana (strategia utilizzata inizialmente anche nel contesto afghano), aiuto economico diretto, servizi di intelligence e logistica[3].

In secondo luogo non si tiene in considerazione il fatto che l’Iran, nell’istante immediatamente successivo alla Rivoluzione, si trovava ad avere un esercito che, per eredità dell’era Pahlavi, era equipaggiato esclusivamente con tecnologia militare nordamericana e israeliana. Sottoposta ad embargo e costretta ad un conflitto logorante, la Repubblica Islamica avrebbe potuto garantirsi la sopravvivenza solamente cercando canali alternativi, al fine di rifornire un esercito che, in quel momento, non poteva certo permettersi una totale ristrutturazione in termini di armamenti.

Inoltre, non si può dimenticare che per lungo tempo, anche dopo la crisi degli ostaggi, gli Stati Uniti hanno continuato a pensare (anche in virtù della presenza di una cospicua “quinta colonna” all’interno della società iraniana) di poter mantenere l’Iran all’interno della sua orbita geopolitica.

Ciò che Washington fece in quell’occasione fu semplicemente quello che continua a fare oggi: sostenere più o meno a fasi alterne le due parti in conflitto, per prolungarlo il più a lungo possibile indebolendole entrambe.

A ciò si accinga il fatto che il ruolo dell’Iraq baathista nel contesto mediorientale di allora è spesso stato sopravvalutato. È bene ricordare che il baathismo iracheno, se da un lato sviluppò un’idea di presa del potere che mescolava elementi leninisti ad altri più prettamente “populisti” (da non intendersi nel senso che viene attualmente attribuito al termine), dall’altro si distinse subito per il prevalere dell’anima piccolo-nazionalista (qawmi) rispetto a quella panaraba (qutri); la seconda era stata caratteristica del primo Ba’ath siriano di Michel ‘Aflaq, il quale trascorse gli ultimi anni della sua vita proprio in Iraq, ricoperto di onori come “ideologo” ma totalmente ignorato sul piano decisionale[4].

Inutile dire, inoltre, che il piccolo-nazionalismo è sempre stato considerato non solo come il primo e più insidioso nemico per l’unità del mondo arabo, ma anche come la principale insidia per la costruzione di un fronte compatto di liberazione contro l’imperialismo. Questa fu anche la ragione che, durante il Secondo Conflitto Mondiale e dopo la fallimentare rivolta irachena del 1941, portò alla frattura tra il Gran Muftì Hajj Amin Al-Husseini ed il politico nazionalista iracheno Rashid al-Ghaylani[5].

La storia ha insegnato che l’unità (la cooperazione militare e commerciale) è la sola via per affrontare un nemico capace di sfruttare in modo cinico e spietato le altrui debolezze.

Oggi più che mai, dunque, si rende necessario ricompattare il suddetto fronte, affinché il martirio di Qassem Soleymani non divenga l’ennesima occasione offerta al nemico per cavalcarne le tendenze divisive e mistificatrici presenti al suo interno.

 


NOTE

[1]    Hamidreza Azizi, Security Dilemma: are Iran and the US heading toward a war?, Institute for Iran-Eurasia Studies,  www.iras.ir.

[2]    Si veda Alcune considerazioni sugli attacchi all’Arabia Saudita, www.eurasi-rivista.com.

[3]    Si veda K. R. Timmerman, The Death Lobby: How the West Armed Iraq. New York, Houghton Mifflin Company, 1991. Non si può dimenticare, inoltre, il celebre incontro a Baghdad tra Donald Rumsfeld e Saddam Hussein.

[4]    Si veda M. ‘Aflaq, La resurrezione degli Arabi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2011.

[5]    Si veda, S. Fabei, Guerra santa nel Golfo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1990.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).