Il popolo egiziano è ancora traumatizzato dall’annuncio dei risultati del primo turno delle elezioni presidenziali. Si rifiuta di accettare il risultato che vede Ahmad Shafiq, l’ultimo Premier del deposto Hosni Mubarak, sfidare al ballottaggio il candidato della Fratellanza Musulmana, Mohamed Mursi. Non è per questo risultato che molti egiziani si erano battuti. Il Paese è invaso dall’amarezza e Piazza Tahrir si riempie di nuovo di migliaia di manifestanti per impedire il ritorno alla linea politica del passato.

 

L’Egitto deve attendere ancora per conoscere il nome del nuovo presidente: il primo turno delle elezioni infatti si è concluso con il 24,8% dei voti per Mohamed Mursi, il 23,7% per Ahmed Shafiq e il 20% per il nasseriano Hamdin Sabbahi. Delusione, invece, per il riformista islamico Abdel Moneim Abul Fotouh e l’ex segretario della Lega Araba Amr Moussa, i favoriti della vigilia, arrivati rispettivamente quarto e quinto. In modo altrettanto sorprendente la partecipazione ad una consultazione considerata storica è stata piuttosto bassa. Alle urne si sono recati meno del 50% degli aventi diritto. Ora si teme che per il secondo turno ci sia un ulteriore crollo. Tra gli egiziani è sempre piú diffuso il sentimento di essere stati privati della propria “rivoluzione”. Certamente Ahmed Shafiq e Mohammed Mursi sembrano rappresentare alla perfezione ciò che proprio le frange giovanili protagonisti della rivolta non avrebbero ipotizzato, e soprattutto desiderato, come nuovo leader del paese.

 

Sul fronte islamico, Mohammed Mursi intende portare i Fratelli Musulmani, che controllano già Parlamento e Costituente, anche alla guida della Presidenza della Repubblica. Ingegnere, per molto tempo negli Stati Uniti, ha conosciuto due volte il carcere, si è trovato quasi per caso a rappresentare i Fratelli Musulmani dopo l’eliminazione di Khaiter al-Shater da cui ha ereditato l’intera campagna elettorale: dal “brand” – il Rinascimento islamico – alla piattaforma programmatica che prevede risanamento della Pubblica Amministrazione, investimenti sui servizi sociali e maggiore sicurezza. Agli elettori ripete che il Paese si libererà finalmente dal giogo militare, che non c’è niente al di sopra della Costituzione e che il budget dell’esercito sarà rimesso nelle mani del Parlamento.

 

Dall’altra parte, Ahmed Shafiq rappresenta una brutta copia di Mubarak. Entrambi erano infatti comandanti dell’Aviazione e una sua vittoria servirebbe a prolungare la tradizione che vede un militare alla guida del Paese. Da sempre legato al potere, nel 2002 Mubarak inventò per lui un ministero ad hoc: il dicastero per l’Aviazione civile, alla cui guida Shafiq dimostrò tutta la sua efficienza. Avviò la ristrutturazione della compagnia di bandiera Egypt Air e fece piazza pulita dei vertici. Scommise, poi, sulla vocazione turistica dell’Egitto e nel 1998 trasformò l’aeroporto del Cairo in uno scalo internazionale. In pochi anni, insomma, da militare Shafiq divenne il businessman che aveva aperto agli investimenti della Banca mondiale, un ministro gradito al libero mercato e alla classe dirigente internazionale. Nominato Primo ministro negli ultimi giorni del regime di Mubarak e dimessosi un mese dopo, Ahmed Shafiq è il prodotto del sistema politico-militare egiziano. Una macchia indelebile per i protagonisti della rivolta che ha portato alla deposizione dell’ex presidente. La famigerata “battaglia del cammello” durante la quale teppisti mandati dal regime invasero Tahrir a dorso di cavalli e cammelli provocando più di dieci morti e decine di feriti avvenne proprio durante il suo mandato. Riammesso al voto all’ultimo momento è stato contestato dai rivoluzionari e preso a scarpate in faccia all’uscita da un seggio dai familiari delle vittime della repressione. A spingerlo verso l’alto sono stati, oltre a quelli dei cristiani, i voti dei felool (i nostalgici del passato regime) e di chi si dichiara stanco dell’instabilità post-rivoluzionaria.

 

Tuttavia molti interrogativi rimangono sull’ammissibilità della candidatura di Shafiq alle elezioni. Il mese scorso, il Parlamento ha approvato una legge per vietare ad ex alti esponenti del regime di candidarsi a qualsivoglia carica istituzionale. La legge inizialmente mirata ad escludere Omar Suleiman, ex capo dei servizi segreti di Mubarak, avrebbe dovuto essere applicata anche a Shafiq. Nonostante ciò, il Presidente della Commissione elettorale ha rinviato la legge alla Corte costituzionale per determinarne la costituzionalità e, nel frattempo, ha permesso a Shafiq di continuare la sua corsa. L’11 giugno, se la Corte dovesse dare il via libera al testo, metterebbe la parola “fine” alle velleità di Shafiq. Tuttavia stanno venendo alla luce alcuni fatti che svelerebbero l’esistenza di un’operazione estremamente sofisticata, che avrebbe assicurato a Shafiq i voti sufficienti per andare al ballottaggio. In primo luogo, l’incredibile aumento del numero complessivo degli aventi diritto al voto in tre mesi. In Egitto, ogni persona viene automaticamente aggiunta alle liste degli elettori dopo aver raggiunto l’età di diciotto anni. Dopo le elezioni legislative il numero totale degli elettori iscritti annunciato pubblicamente era di 46.484.954. Tuttavia, dopo le elezioni presidenziali il capo della Commissione elettorale ha annunciato che il numero totale dei votanti registrati era di 50.996.746, con un aumento incredibile di 4.511.792 (o oltre l’80 per cento del totale dei voti ricevuti da Shafiq).

 

Eppure sono numerose le irregolarità che hanno caratterizzato l’intero processo elettorale. Manipolare la popolazione egiziana, il cui 40% vive sotto la soglia di povertà e quasi la metà è illetterata, non è molto difficile. Basta dare loro cibo e soldi per convincerli a votare per qualcuno. Pratica diffusa e molto usata da tutti i candidati. L’organizzazione che ha monitorato le elezioni presidenziali (“Shayfeen”: in italiano, “Ti stiamo guardando”) ha raccolto e denunciato numerose infrazioni. Ad esempio sono stati fotografati molti autobus ricoperti dalle immagini di Mursi pagati per raccogliere le persone e portarle a votare, e sono stati segnalati ritardi nell’apertura dei seggi che in alcuni casi sono stati chiusi per un paio d’ore durante la giornata. Per concludere, dopo la fine del primo giorno le urne sono state lasciate nei seggi elettorali fino al mattino successivo e l’esercito ha ordinato l’evacuazione forzata di tutti i distretti, nonostante le proteste degli osservatori.

 

Ma una delle maggiori ombre che copre di ambiguità il processo elettorale è il fatto che gli elettori sono andati ad eleggere un presidente senza una chiara idea di quale sarà l’autorità che effettivamente dovrà relazionarsi con i militari, il parlamento e le altre istituzioni dello Stato, e quindi senza sapere se il candidato che vincerà avrà i poteri sufficienti per implementare il portafoglio su cui ha basato la campagna elettorale. I poteri del prossimo capo dello Stato non sono stati definiti, la Costituzione in vigore sotto Mubarak è stata sospesa e la stesura del nuovo testo è ferma. I generali insistono dicendo che si faranno da parte il 1° luglio, ma la maggior parte degli egiziani non si aspetta certo che rinuncino ai privilegi di cui hanno goduto per decenni. A prescindere dai poteri del nuovo capo dello Stato, l’Esercito manterrà il proprio controllo sulla politica estera e tenterà di proteggere l’accordo di pace con Israele che consente di ricevere finanziamenti per il settore militare da parte degli Stati Uniti.

 

Ora il Paese si trova a un bivio. Da una parte l’incognita di Mursi, un politico apparentemente debole che però si fa portavoce di idee chiare: “Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge”, recita lo slogan della Fratellanza. Dall’altra, con Shafiq, c’è l’incubo di un ritorno al passato e di affidare il Paese all’“uomo cerniera” tra militari e vecchio regime che in più di un’occasione ha dichiarato che una volta al potere non esiterà ad usare l’apparato di sicurezza e l’Esercito per ristabilire l’ordine e porre fine alle proteste Il problema, però, è che, a prescindere dal vincitore, e nonostante le promesse fatte dai militari di lasciare il potere, l’Esercito rimarrà comunque l’interlocutore principale nell’amministrazione dell’Egitto. Qualora dovesse essere Mursi a vincere, l’Esercito, infatti, tenendo saldamente in mano la politica estera, lascerebbe mano libera alla Fratellanza in patria. I liberali e gli egiziani “moderati” temono che gli islamisti vogliano mettere il loro marchio al paese, imponendo con la forza i loro ideali religiosi. Mursi nel corso della campagna elettorale non ha definito in maniera concreta cosa vorrebbe dire l’applicazione della sharî‘a qualora dovesse essere lui a portare a casa la vittoria. Di certo, potrebbero essere varate leggi più restrittive e una società impostata in maniera rigida potrebbe avere effetti negativi anche sul turismo, uno dei punti di forza nel Pil del Cairo. Shafiq, invece, si professa per un Egitto più “laico”, ma è considerato il capo della controrivoluzione. Gli attivisti hanno iniziato a prendere in considerazione una terza alternativa: il boicottaggio. Chiedendosi quale sia la validità di tutto il processo così come è stato condotto finora e opponendosi all’imposizione di dover scegliere “il male minore” per la nuova guida del Paese, alcuni segmenti della gioventù rivoluzionaria stanno invitando gli elettori a boicottare il ballottaggio al fine di abbassare l’affluenza e mettere in discussione la legittimazione popolare del presidente eletto.

 

C’è però chi invita a riflettere sui risultati delle elezioni in modo diverso. I candidati vicini al movimento pro-rivoluzione hanno ricevuto quasi due terzi dei voti (24% Mursi, 20% Sabahi, 18% Abol Fotouh, altri candidati il 2%). Dall’altra parte, i resti dell’ ex-regime hanno ricevuto meno di un terzo (23% Shafiq e 10% Moussa). Se i candidati pro-rivoluzione si fossero coalizzati attorno a un unico candidato avrebbero schiacciato l’opposizione al primo turno. Ma la profonda sfiducia generata durante gran parte dello scorso anno ha reso questo scenario impossibile. Inoltre un’altra importante considerazione da fare è l’enorme calo di sostegno che ha subito la Fratellanza in soli quattro mesi. Mentre alle presidenziali i candidati avevano ricevuto quasi 11 milioni di voti, il loro candidato alla presidenza ne ha guadagnati solo 5,7 milioni. Anche se questa perdita è direttamente correlata ai deludenti risultati del Parlamento e all’atteggiamento sprezzante nei confronti dei loro partner della “rivoluzione”, ha inviato un messaggio forte alla leadership del gruppo.

 

Per il secondo turno delle elezioni presidenziali, la maggior parte dei voti di Moussa potrebbe finire nella colonna di Shafiq, mentre la maggioranza dei voti Abol Fotouh potrebbe andare in favore di Mursi. I voti cruciali del nazionalista di sinistra Sabbahi sono probabilmente in palio. Questo candidato molto amato dai giovani si è finora rifiutato di avallare Mursi e molti dei suoi sostenitori sono scesi in strada respingendo entrambi i candidati. Piazza Tahrir è stata di nuovo occupata da migliaia di manifestanti che vedono le loro speranze e aspirazioni in pericolo. Le proteste contro Ahmed Shafiq hanno raggiunto l’apice quando alcuni manifestanti hanno incendiato il suo quartier generale al Cairo e sono poi continuate in seguito alla notizia della sentenza riguardante Mubarak che lo assolveva, assieme ai figli, dall’accusa di corruzione.

 

In questi giorni Mursi ha dato inizio ai negoziati con i giovani della piazza offrendo, in cambio del loro sostegno, l’impegno a governare con un Consiglio presidenziale che comprenda tutte le tendenze ideologiche, a dare garanzie su un governo democratico, sulla libertà di espressione, sui diritti delle donne e della comunità cristiana, e la promessa di non candidarsi per un secondo mandato. In definitiva questo momento critico potrebbe essere una benedizione sotto mentite spoglie, se colta correttamente dai Fratelli Musulmani e dal resto dei gruppi rivoluzionari. È quindi il momento in cui le forze che si oppongono ad un ritorno al passato dovrebbero ritrovare l’unità perduta in nome soprattutto del futuro dell’Egitto, che oggi più che mai ha bisogno di uscire da questo lungo e tormentato periodo di transizione e ricominciare la sua storia.

 
 
* Eliana Favari è dottoressa magistrale in Scienze Internazionali – Global Studies (Università degli Studi di Torino).


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