Intervista ad Alain de Benoist (a cura di Nicolas Gauthier)

Eletto presidente del Brasile nell’ottobre scorso con oltre il 55% dei suffragi, Jair Bolsonaro ha assunto le sue funzioni. La sinistra, che moltiplica gli anatemi contro di lui (omofobo, sessista, razzista ecc.), parla di una nuova ondata di “populismo” e dice che la sua vittoria fa gioire tutta “la destra e l’estrema destra” mondiale. Lei ne fa parte?

Per nulla. Sicuramente Bolsonaro ha beneficiato dell’attuale ondata di populismo ed ha captato i suffragi delle classi popolari che prima votavano per il Partito dei Lavoratori; ma il populismo, ci tengo a ricordarlo, non ha un contenuto ideologico preciso. È solo uno stile, un modo di far corrispondere l’offerta e la domanda politica; e questo stile si può combinare con ideologie molto diverse (Luiz Inácio Lula, l’ex presidente, era anche lui un “populista”). La destra si agita sempre in maniera pavloviana quando sente dire che saranno ristabiliti “la legge e l’ordine”. Il problema è che la legge può essere ingiusta e che l’ordine è spesso un disordine legale.

Naturalmente mi guarderò bene dal fare un processo alle intenzioni di Bolsonaro. Spero di cuore che egli possa mettere termine alla corruzione e riportare un po’ di calma in un paese in cui si registrano 64.000 omicidi all’anno (oltre mezzo milione in dieci anni). Quello che constato simultaneamente, è che egli era innanzitutto il candidato dei mercati finanziari (la Borsa di San Paolo ha fatto un balzo del 6% il giorno dopo il suo successo), delle multinazionali, a cominciare dalla Monsanto, nonché della lobby dei grandi proprietari terrieri (la bancada ruralista); inoltre sono state le chiese evangeliche, controllate dai tele evangelisti nordamericani e intrise di messianismo sionista, ad avergli apportato il sostegno più decisivo. Ex cattolico, lui stesso si è convertito all’evangelismo, facendosi simbolicamente battezzare nel Giordano, nel 2016.

Ma che cosa gli rimprovera essenzialmente?

Ho ascoltato i diversi interventi di Bolsonaro ed ho letto con attenzione il suo programma, che trovo costernante sotto diversi aspetti. Dopo aver deciso di ritirarsi dall’accordo di Parigi sul clima, egli ha annunciato la costruzione di una nuova autostrada attraverso l’Amazzonia, l’apertura allo sfruttamento petrolifero e minerario di territori da cui verranno espulsi gli abitanti autoctoni, nonché la promozione sistematica dell’agricoltura industriale a danno della protezione dell’ambiente. Perché le cose siano chiare, ha d’altronde freddamente soppresso il Ministero dell’Ambiente, le cui funzioni sono state trasferite a quello dell’Agricoltura, ed ha annunciato la scomparsa del Ministero della Cultura. Sul piano sociale, intende ricorrere alla privatizzazione quasi integrale delle imprese pubbliche, installare un sistema di pensioni basato sulla capitalizzazione dei fondi pensionistici, alleggerire gli oneri fiscali per i gruppi industriali più potenti, moltiplicare le esenzioni d’imposta per le fasce di reddito più alte e realizzare un’ampia deregolamentazione del settore finanziario. Se in Brasile ci sono dei gilets jaunes, vi troveranno difficilmente i loro vantaggi!

In politica internazionale, Bolsonaro ha adottato la medesima linea di Donald Trump per quello che essa ha di più contestabile: trasferimento dell’ambasciata brasiliana da Tel Aviv a Gerusalemme, sostegno incondizionato all’Arabia Saudita e ad Israele, diffidenza nei confronti dell’Europa e ostilità nei riguardi della Cina e della Russia. Si aggiunga a ciò la sua dichiarata nostalgia per la dittatura che ha regnato in Brasile dal 1964 al 1985, la qual cosa non mi piace proprio per niente. In passato ho visto insediarsi un certo numero di dittature militari, dai colonnelli greci ai generali argentini passando per Pinochet e i suoi “Chicago Boys”. Le ho trovate deplorevoli, una più dell’altra.

Tuttavia Bolsonaro viene presentato come un nazionalista…

Più che un nazionalista, questo personaggio, umanamente piuttosto vuoto e privo di scrupoli, è in realtà, come Macron, un liberale. È sufficiente guardare il suo entourage. L’uomo forte del suo governo, che accumula da solo cinque portafogli ministeriali, è Paulo Guedes, cofondatore della banca d’affari BTG Pactual, un ultraliberale formatosi alla scuola di Chicago, ex allievo di Milton Friedman, il quale ha anche fondato l’Istituto Millennium, di orientamento libertarian e favorevoli all’uso dei pesticidi, prima di imperversare con la dittatura militare cilena. Il ministro degli Affari Esteri, Ernesto Araújo, è un diplomatico antiecologista legato agl’interessi dell’agro-business. Il ministro dell’Agricoltura, Tereza Cristina, è la rappresentante della bancada ruralista. Il ministro dell’Educazione, Ricardo Vélez Rodriguez, un colombiano naturalizzato brasiliano, è un discepolo di Antônio Paim, un ex intellettuale comunista diventato ultraliberale. E il loro guru comune, Olavo de Carvalho, è un “pensatore” che risiede negli Stati Uniti, dove offre corsi di filosofia “online”.

Per me questi sono fatti determinanti. Per principio, io non approverei mai una svolta a destra che si accompagnasse ad un ritorno in forze del liberalismo.


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