Nel contesto dell’istoriosofia bizantina San Giovanni Damasceno occupa un ruolo di primo piano per il fondamentale contributo che seppe dare all’evoluzione della liturgia ortodossa ed alla difesa della tradizione nella lotta all’iconoclastia. Tuttavia l’elaborazione teorica del filosofo e teologo originario di Damasco, che ad uno sguardo poco attento può sembrare assolutamente in linea con la tradizione patristica cristiana e sostanzialmente priva di originalità, mostra, al contrario, alcune caratteristiche peculiari che fanno di esso l’evidente esito di forme concrete di sincretismo culturale eurasiatico. Caratteristiche che hanno inoltre influenzato in modo determinante tutta la successiva evoluzione teorica e pratica del pensiero religioso e filosofico orientale ed occidentale e marcato in modo definitivo la cristianità ortodossa e la sua arte sacra.  

 

Accettando la classificazione e suddivisione, effettuata dal filosofo russo Aleksandr Dugin nel suo saggio Le radici metafisiche delle ideologie politiche (1) in tre protoideologie principali da cui derivano le ideologie politiche di destra assoluta (il Soggetto domina sull’Oggetto – storia come decadenza e necessità di restaurazione del paradiso perduto), centro assoluto (il Soggetto e l’Oggetto sono uniti – storia come stabilità permanente ed equilibrio tra materia e spirito), sinistra assoluta (il Soggetto è subordinato all’Oggetto – storia come progresso ed evoluzione); si può affermare che il pensiero del Damasceno, seppur non abbia una precipua caratterizzazione politica, rappresenti una sorta di sintesi particolare tra il riconoscimento effettivo della decadenza, la volontà di restaurazione, la necessità di stabilire o ristabilire l’ordine materiale tra materia e spirito, ed un malcelato afflato escatologico abbastanza tipico di tutta la teologia cristiana alto-medievale.

Il particolare contesto storico nel quale il religioso e filosofo trascorse la sua esistenza ha caratterizzato in modo determinante tutta la sua elaborazione teorica. L’aver vissuto tutto il corso della sua vita, non priva tra l’altro di episodi misteriosi dai contorni leggendari, sotto il dominio musulmano del califfato omayyade che fece di Damasco il suo centro politico, ha determinato lo sviluppo intellettuale ed esistenziale del Damasceno lungo due direttive principali: la vita come dhimmi nella Umma islamica che gli consentì una sostanziale libertà di azione nella difesa della tradizione cristiana e nella lotta contro l’iconoclastia, nonché la possibilità del confronto con forme culturali “altre”; l’intrinseca consapevolezza della mancanza e del distacco dall’ecumenismo cristiano che sviluppò l’inconscio desiderio ideale del ricongiungimento col centro “paradisiaco-polare” della cristianità dell’epoca (Costantinopoli e l’Impero Bizantino).

Il Damasceno visse appieno un periodo storico caratterizzato da profondi sconvolgimenti politici e geopolitici. In quegli anni la Umma islamica visse la traumatica esperienza della Fitna: lo scontro fratricida tra il governatore di Damasco Mu’awiya ed il califfo Alì; l’assassinio di quest’ultimo ed il successivo martirio del figlio Husayn. Eventi che determinarono la futura evoluzione dell’Islam su due linee divergenti: il sunnismo con la sua enfasi utopico-retrospettiva sull’idea del “paradiso perduto” (l’età dell’oro del profeta Muhammad e dei califfi rashidun); lo sciismo, che respinge il concetto di utopia retrospettiva e sostituisce ad esso l’attesa escatologico-messianica del ritorno dell’Imam occulto, e dunque rifiuta l’idea del Soggetto-Esule preferendole l’idea del suo occultamento in quanto il Soggetto Divino non può mai essere espulso dal paradiso. 

In quegli stessi anni l’Impero Bizantino visse drammatici eventi dalla forte connotazione simbolica che determinarono, come afferma lo storico Georg Ostrogorsky, la sua evoluzione da Impero Romano universale ad Impero greco medievale. Il primo di essi è la violenta fine della dinastia eraclea, il cui ultimo esponente Giustiniano II (autodefinitosi “Servo di Cristo”), detronizzato, mutilato del naso (gli imperatori bizantini non potevano avere delle menomazioni fisiche) ed esiliato a Cherson, riuscì a restaurare, seppur per un breve periodo, il potere eracleo ed a riappropriarsi della corona imperiale muovendo battaglia dalla periferia dell’Impero e guidando un esercito per larga maggioranza turcofono. Un’impresa che ricorda molto da vicino quella tentata, ma non riuscita, dal Barone Ungern-Stenberg milletrecento anni dopo, quando, dalle steppe della Mongolia, tentò di restaurare l’ordine autocratico nella Russia sconvolta dalla Rivoluzione bolscevica, dando vita, allo stesso tempo, al primo concreto progetto di unificazione politica eurasiatica. A colpire in particolare è l’intrinseca consapevolezza di entrambi di rappresentare in qualche modo gli ultimi difensori di un mondo che si stava dissolvendo e sgretolando. A questo proposito è emblematica la leggendaria affermazione attribuita al Barone: “Io so di essere l’ultimo. Dopo di me le lucertole di Karakorum”.

In questo contesto il pensiero del Damasceno risulta fondamentale in quanto nel momento in cui, sotto Leone III, la controversia teologica iconoclasta raggiunse il suo apice di tensione, da semplice esempio di pensiero ortodosso questo si trasformò in orto-prassi volta alla difesa della religiosità tradizionale e dei simboli del culto. Infatti nella sua opera più originale e stilisticamente più perfetta, Le Tre Orazioni in Difesa del Culto delle Immagini, Giovanni, contro le tesi secondo cui tale culto era da considerarsi un risorgere dell’idolatria pagana, sviluppa una propria caratteristica iconosofia attraverso la quale l’icona stessa assume il significato simbolico di mediazione tra l’uomo e il Divino. Ed allo stesso tempo afferma con forza come il culto dell’immagine del Cristo si basi essenzialmente sul dogma dell’Incarnazione e si colleghi imprescindibilmente con la dottrina cristiana della salvezza. Lo studioso di simbologia sacra René Guenon, ai primi del Novecento, riconobbe l’intrinseco valore dell’incorporazione simbolica della tradizione “non umana” come prefigurazione dell’Incarnazione del Verbo (Logos).

La dissidenza reazionaria ante litteram del Damasceno nella lotta all’iconoclastia imperiale (che può essere interpretata anche come forma archetipica di azione metapolitica) gli costò il taglio della mano destra. La leggenda narra che Leone III Isaurico, irritato per la strenua opposizione del teologo al decreto iconoclastico, non potendo punirlo direttamente in quanto residente nella Dar al-Islam, inviò delle lettere diffamatorie al califfo che facevano trapelare una volontà cospiratoria del Damasceno contro l’Islam e la dinastia omayyade; accuse ovviamente infondate, visto che il teologo ricoprì anche ruoli di rilievo nell’amministrazione pubblica di Damasco. Tuttavia il califfo condannò il teologo all’amputazione della mano destra. Questi pregò incessantemente un’intera nottata di fronte ad un’icona della Vergine Maria, componendo tra l’altro alcuni degli inni sacri più importanti di tutta la cristianità orientale, chiedendole la restituzione della mano mozzata. Al suo risveglio, all’alba, Giovanni ritrovò la mano al suo posto. Da questo momento in poi promise solennemente che la sua mano, restituita per intercessione della Vergine, sarebbe stata lo strumento che avrebbe eliminato gli iconoclasti distruttori delle immagini sacre. Allo stesso tempo fece attaccare una mano d’argento all’icona della Vergine, sulla quale pregò, creando il mito della Vergine a tre mani “Tricherusa”. Icona che oggi si trova nel monastero di Chilandari sul Monte Athos; centro spirituale e luogo simbolico fondamentale nel panorama della geografia sacra della cristianità ortodossa.

Il contributo teorico e filosofico del Damasceno che, come già affermato, ad uno sguardo poco attento può risultare poco originale, nonostante la continua insistenza per la fedeltà alla tradizione, colpisce in primo luogo per le evidenti influenze che su di esso hanno avuto l’ellenismo, alcune dottrine teosofiche orientali ed in particolar modo l’ermetismo.

L’enfasi sul Logos e sulla Trinità Divina dimostrano in primo luogo una quasi naturale preferenza per il Vangelo, non sinottico, dell’evangelista Giovanni; testo che, insieme all’Apocalisse dello stesso Giovanni, indubbiamente rappresenta il migliore prodotto letterario della cristianità. Allo stesso tempo colpisce l’interesse e l’influsso che sul Damasceno ebbe il Corpus Dionysianum; opera mistica attribuita allo Pseudo-Dionigi l’Areopagita che descrive in modo simbolico ed attraverso una raffinata teoria estetica la gerarchia celeste e la dimensione dello Spirito.

Il tema del Logos e della sua Incarnazione è e rimane centrale in tutta la sue elaborazione teorica. Sulla scia del Vangelo di Giovanni, il Damasceno parte dalla constatazione che il Verbo, Intelletto Divino, si manifesta e si esprime per mezzo della Creazione. La Creazione è dunque l’opera del Verbo. Tale concezione risente non poco di influenze neoplatoniche e dell’ermetismo, felice sintesi culturale dell’ellenismo e di quella religiosità egizia che in tutte le sue espressioni tende sempre all’eternità ed all’assoluto. Nel Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto, testo sacro dell’ermetismo, il Logos viene considerato come generato da Dio e dunque figlio di Dio. Ed attraverso il Logos si ha la Creazione. L’uomo, geloso della Creazione divina e desideroso di imitarla, discende dalle sfere celesti, perde il paradiso, si unisce alla natura e dà vita al genere umano. Da qui sorge il problema di come per l’uomo sia possibile ritrovare e recuperare la sua natura divina. L’unica via è la conoscenza: la conoscenza intesa come rivelazione e la filosofia intesa come scienza della rivelazione che si realizza compiutamente nell’esigenza di conoscere Dio,  Verità Assoluta, e di contemplarlo quasi fondendosi con Lui.

Nel capitolo Sulla Filosofia del suo scritto Dialettica, il Damasceno definisce così la filosofia: “La filosofia è la scienza delle cose che sono, per come esse sono, e cioè la conoscenza della natura delle cose che sono. La filosofia è la conoscenza delle cose divine e di quelle umane, e cioè di quelle visibili e invisibili. La filosofia è lo studio della morte volontaria e di quella naturale. Infatti la vita è di due modi, e cioè quella naturale – secondo la quale noi viviamo – e quella volontaria, secondo la quale noi aderiamo alla vita presente con forte attaccamento; e di due modi è anche la morte, e cioè quella naturale – che è separazione dell’anima dal corpo – e quella volontaria secondo la quale tendiamo verso la vita futura disprezzando quella presente. Inoltre la filosofia è somiglianza a Dio. Infatti ci rendiamo simili a Dio per la sapienza e cioè per la vera conoscenza del bene. La filosofia è amore per la sapienza e dunque amore verso Dio, fonte della sapienza”. Questa elaborazione del significato di filosofia, così come l’enfasi riposta nella dimensione dello Spirito propria dell’opera dello Pseudo-Dionigi, rivela in primo luogo una sostanziale continuità di pensiero del Damasceno con il cristianesimo primordiale che, come afferma ancora una volta Aleksandr Dugin, si pose su una posizione paradisiaco-polare rispetto all’ipocrita clericalismo giudaico. Di fatto i primi cristiani erano portatori dell’idea dell’uomo nuovo intrinsecamente connessa all’Incarnazione del Verbo, e solo la successiva istituzionalizzazione del cristianesimo ne affievolì il suo esplicito carattere dissidente e rivoluzionario, dissoltosi nella dicotomia Creatore-Creazione.

L’Incarnazione del Verbo rappresenta il nucleo focale del dogma trinitario cristiano ortodosso Padre – Figlio e Spirito Santo. Le tre ipostasi sono una cosa sola, una unità inscindibile sotto ogni aspetto eccetto la non generazione (Dio – immutabile, invariabile, immateriale e illimitato), la generazione (Figlio), la processione (Spirito Santo).

Il Trisagion, la triplice invocazione a Dio – Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale – introdotto nella liturgia bizantina ed utilizzato tanto nei luoghi di culto quanto sui campi di battaglia, è un altro contributo essenziale che il Damasceno diede alla tradizione ortodossa, mettendone in luce sia la diretta origine divina (l’estasi mistica di un bimbo a seguito di alcuni cataclismi che sconvolsero la capitale dell’Impero) sia la sua ancor più evidente discendenza dal dogma trinitario.

Ma il pensiero del teologo di Damasco è interessante anche per l’enfasi riposta nell’idea del paradiso perduto che si riflette nell’accurata descrizione delle sfere celesti e del paradiso terrestre attuata nella sua opera De Fide Orthodoxa e che in qualche modo deriva dal sentimento di lontananza dall’ecumene cristiana, dalla sua naturale capitale Costantinopoli e dalla constatazione che l’Impero stesse progressivamente perdendo di vista quella tradizione religiosa, culturale e universale che ne aveva costituito il reale punto di forza.

Il pensiero del Damasceno risente inoltre di evidenti influenze orientali nella sua elaborazione del concetto di desiderio (suddiviso in naturale e necessario, naturale e non necessario, non naturale e non necessario) che ricalca quasi nel dettaglio tanto alcuni elementi propri del manicheismo quanto la dottrina buddista. A questo proposito è utile ricordare che proprio a San Giovanni Damasceno è attribuita la trasposizione in lingua greca della leggenda di Barlaam e Iosafat; seppure per alcuni si tratti di un testo apocrifo mentre per altri studiosi la sua diffusione nell’Occidente e nell’Oriente cristiano sia dovuta al monaco del Monte Athos Eutimio vissuto a cavallo del primo millennio dopo Cristo.

La leggenda è una rielaborazione cristiana della storia del Budda; entrambi i nomi infatti derivano da nomi a lui attribuiti: Barlaam da bhagavan, il sublime, mentre Iosafat da bodhisat, l’illuminato. La leggenda narra che il principe Iosafat venne cresciuto da suo padre, il re indiano Abenner, al riparo da ogni male del mondo, nel tentativo di impedire l’avverarsi di una profezia che lo vedeva destinato al rifiuto della vita mondana. Tuttavia tale tentativo fu vano e grazie agli insegnamenti dell’eremita Barlaam, Iosafat si converte al cristianesimo e all’ascetismo.

La leggenda conobbe un notevole successo tanto che i suoi protagonisti vennero inseriti negli stessi sinassari bizantini. Tale successo determinò anche una diffusione iconografica della leggenda come ci dimostrano alcuni temi e simboli rappresentati in particolar modo dallo scultore Benedetto Antelami sul Battistero di Parma (2), ma presenti anche a Venezia (San Marco – cappella di Sant’Isidoro), a Ferrara ed in alcune pitture murali dell’abbazia delle Tre Fontane a Roma. Tutte raffigurazioni che presentano elementi comuni con l’iconografia diffusa su tutto il continente eurasiatico rispetto al medesimo tema.

Ciò che maggiormente colpisce è il fatto che ancora una volta la leggenda rappresenti, attraverso l’iniziazione del giovane Iosafat, la ricerca del Divino e di quel paradiso perduto che ha segnato tutto il percorso intellettuale del Damasceno. Ed è quantomeno emblematico il fatto che lo stesso teologo abbia riconosciuto nelle quattro diramazioni della sorgente paradisiaca il Nilo (Gihon), il Tigri (Hiddekel), l’Eufrate (Phrath) e l’indiano Gange (Pison). Di fatto le quattro direttrici lungo le quali si evolsero le principali civiltà dell’antichità.

La consapevolezza della decadenza e dell’impossibilità del ricongiungimento all’ecumene cristiana portò il Damasceno a trascorrere nella pace del monastero di San Saba, nei pressi di Gerusalemme, la parte più importante e prolifica della sua vita. Un ritiro/esilio spirituale durante il quale la morte lo colse attorno all’anno 750 dopo Cristo.

 

  1. Cfr. A. Dugin, Continente Russia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1991, pp. 77-97.
  2. Cfr. C. Mutti, Il linguaggio segreto dell’Antelami, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2014.

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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).