«Cercare di restaurare o di copiare ciò che è confinato nel passato è da ingenui, ma una stretta integrazione su basi economiche e su nuovi valori è un imperativo dei tempi»: così Vladimir Putin approccia il tema dell’Unione Eurasiatica, uno dei pilastri della sua campagna elettorale e del suo eventuale prossimo mandato presidenziale. L’intento dell’attuale Primo ministro appare sempre più quello di costruire un grande progetto, attraverso il quale la Federazione possa ritrovare il suo ruolo nelle relazioni internazionali, conformemente a quello spirito che da sempre contraddistingue i leader e la storia russi. Se questa volontà di essere protagonisti della storia ha segnato il passo all’indomani del crollo dell’Urss, Putin ha saputo recuperarla attraverso un’attitudine ambiziosa e realista al tempo stesso.
Quello dell’Unione Eurasiatica rappresenta l’ultimo degli strumenti di cooperazione internazionale che la Russia intende creare per non essere messa al margine tanto dalla preponderanza politica statunitense, che tenta di arginare il suo potenziale di attrazione sul resto della regione eurasiatica, quanto dalla potenza economica di Pechino, con la quale, non a caso, già è legata attraverso la Shangai Cooperation Organization.
Appare tuttavia fuorviante etichettare quello di Putin come il tentativo di ripristinare l’Unione Sovietica: nata come un’unione doganale tra Russia, Kazakistan e Bielorussia, che il prossimo gennaio si trasformerà in un unico spazio commerciale, l’Unione Eurasiatica è un progetto sottoscritto da stati indipendenti e sul quale ognuno proietta aspettative e strategie in parte differenti. Ciascuno dei soggetti coinvolti, tanto i paesi membri quanto quelli che ne stanno valutando l’adesione, ha interesse affinché si crei un sistema di cooperazione efficace ma “leggero”, ossia scevro da quei vincoli ideologici che sembrano ormai far parte di una visione geopolitica superata. Lo stesso Putin, inoltre, ha sempre votato la sua azione ad un estremo pragmatismo e lo strumento teorico-dottrinario si rivelerebbe certo meno efficiente di quello economico; d’altro canto, nonostante la consapevolezza della necessità di relazionarsi con Mosca, non si vede perché gli stati nati dal crollo dell’Urss dovrebbero rinunciare ad interpretare il ruolo di interlocutore attivo, che fino a poco più di venti anni fa gli era negato.
Tra i tre stati firmatari, la Bielorussia appare forse come l’anello debole, data la sua dipendenza economica da Mosca, tanto dal punto di vista dei flussi commerciali quanto da quello dell’approvvigionamento energetico: tuttavia, questa condivisione di vincoli culturali, economici e politici potrebbe rendere la cooperazione ancor più proficua. La presenza di Minsk, inoltre, “aggancia” il gruppo all’Occidente e può fungere da ponte per attrarre i paesi dell’Europa Orientale, Ucraina in primis.
Astana, dal canto suo, rappresenta pienamente lo spirito delle ex repubbliche sovietiche: forte delle proprie risorse e della stabilità interna raggiunta, la classe dirigente kazaka guidata da Nazarbayev da tempo promuove il raggiungimento di forme di cooperazione nell’area eurasiatica attraverso le quali interloquire con Mosca senza cadere nella subalternità. Il presidente kazako è il primo sostenitore della creazione di uno spazio economico comune nel quale non solo emarginare il ruolo del dollaro nelle transazioni, ma anche unificare le reti energetiche.
Già l’unione doganale aveva segnato una modifica quantitativa e qualitativa degli scambi: gli oltre cinquanta trattati che ne costituiscono l’ossatura prevedono l’adozione di tariffe esterne comuni, l’uniformazione delle regole in merito ai controlli e ai procedimenti doganali, ma, soprattutto, la creazione di organi esecutivi come la Commissione, al fine di prendere decisioni, verificarne il rispetto e dirimere le controversie che dovessero sorgere dalla loro applicazione.
Partendo da questa struttura, la volontà è quella di creare uno spazio nel quale merci, capitali, lavoratori e studenti possano muoversi liberamente, al fine di attrarre investimenti e innovazione; quest’area è ormai oggetto di sempre maggiore interesse da parte degli investitori occidentali e non è un segreto che il sogno di Mosca sarebbe poter estendere la cooperazione economica fino all’Unione Europea. D’altro canto, è proprio all’UE che l’Unione Eurasiatica sembra ispirarsi nel delineare le sue tappe evolutive. E dinanzi ai fallimenti di Bruxelles, le élites eurasiatiche, come dichiarato dallo stesso ministro dell’economia e del commercio russo Viktor Khristenko, dispongono anche della possibilità di integrare le loro politiche economiche e finanziarie in modo tale da evitare l’empasse in cui oggi l’Europa sembra intrappolata.
Con la creazione dello Spazio economico comune (1 gennaio 2012) si arricchisce ulteriormente la struttura cooperativa: i tre Stati, con un PIL complessivo di 2000 miliardi di dollari e un settore industriale valutato circa 600 miliardi di dollari, si assoceranno sulla base del rispetto dei principi di uguaglianza, non ingerenza negli affari interni, della sovranità e dell’inviolabilità delle frontiere nazionali. La progressiva integrazione si estrinsecherà anche attraverso la creazione di organismi sovranazionali operanti per consensus, ma soprattutto per mezzo di iniziative da parte degli imprenditori, per i quali questo processo rappresenta una grande sfida in termini di adattamento e competitività, della società civile e del mondo scientifico e culturale.
Ma l’attenzione degli analisti è centrata non tanto sullo status quo attuale, quanto piuttosto su ciò che l’Unione Eurasiatica, una volta istituzionalizzatasi (nel 2015, secondo le intenzioni russe), sarà in grado di esprimere nel contesto internazionale, soprattutto per quanto concerne le sue prospettive di allargamento.
Se l’adesione di Kirghizistan e Tagikistan sembra già vicina, uno degli snodi fondamentali sarà verificare la capacità di sottrarre l’Ucraina alla sfera di Bruxelles. Uno dei pilastri dell’Unione sarà il mercato del gas e per Kiev è di fondamentale importanza trovare accordi in merito, come hanno insegnato gli eventi degli ultimi anni. Tuttavia un suo avvicinamento al fronte orientale potrebbe essere dettato anche da altri motivi: nel popolo ucraino, e non solo nella minoranza russa, sta crescendo il malcontento nei confronti dell’Unione Europea, la quale ha appoggiato il suo distacco da Mosca per poi lasciarla sola ad affrontarne le conseguenze: basti pensare agli accordi energetici bilaterali con la Russia patrocinati da Berlino, proprio negli anni in cui le crisi del gas si inasprivano sempre di più.
Kiev, in definitiva, si troverà a dover scegliere l’opzione che meglio risponda alle sue esigenze nazionali, posto che, da un lato, il paese è guidato dal presidente filorusso Yanukovich e che, dall’altro, l’Unione Eurasiatica non intende porsi in contrasto con Bruxelles, quanto piuttosto offrire un’alternativa che non precluda il dialogo e la cooperazione con l’Europa. Non a caso, infatti, qualche mese fa il governo russo ha auspicato la creazione di una macroarea di cooperazione economica che vada da Lisbona a Vladivostok: un’idea che al momento appare prematura, ma che tuttavia evidenzia come i soggetti cui Mosca vuole contrapporsi non siano da cercare nel Vecchio Continente, quanto piuttosto nel Nuovo.
Da non sottovalutare, inoltre, il potenziale di attrazione di un paese come il Kazakistan, che negli ultimi anni ha saputo intessere una ricca tela di rapporti, tanto in Oriente quanto in Occidente. Esso, ad esempio, intrattiene ottime relazioni con la Turchia, con la quale condivide l’appartenenza al Parlamento dei paesi turcofoni, che rappresenta una delle tante questioni irrisolte dell’Unione Europea e che potrebbe per questo orientarsi verso nuove partnership.
Astana rappresenta anche un punto di riferimento per gli “Stan Countries” centroasiatici, desiderosi di confrontarsi con le potenze regionali in modo attivo, ossia cercando di massimizzare le potenzialità delle proprie risorse (idrocarburi, posizione geografica strategica, forza lavoro) senza cadere nei vecchi schemi di egemonizzazione. Sul fronte orientale, invece, si intensificano sempre più i rapporti economici con la Cina, verso la quale esporta quantità via via maggiori di idrocarburi, soprattutto attraverso il Turkestan occidentale e lo Xingjiang, aree di fondamentale importanza geopolitica.
A questo proposito, il filosofo e politologo Aleksandr Dugin ritiene fondamentale, per il successo dell’Unione Eurasiatica, la possibilità di creare due assi di cooperazione, quello UE-Eurasia e quello Cina-Eurasia. Queste tre realtà, infatti, rappresentano tre sistemi politici e valoriali profondamente diversi, che tuttavia potrebbero proficuamente interagire: per l’Unione Eurasiatica, ad esempio, significherebbe accedere più agevolmente all’alta tecnologia, al know how industriale, al processo di sviluppo tecnologico e ad un mercato di dimensioni importanti.
Dugin, inoltre, colloca l’Unione Eurasiatica all’interno di uno schema multipolare delle relazioni internazionali, differente tanto dal mondo globale, caratterizzato dall’assenza di poli, quanto dal mondo unipolare, guidato dall’egemonia statunitense. In questo nuovo scenario geopolitico, il ruolo del polo eurasiatico sarà appunto quello di interagire con Europa e Cina, al fine di limitare l’intromissione di Washington, così come la costituzione di partnership strategiche in detrimento degli interessi degli attori regionali.

* Francesca Malizia, laureata in Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.


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