Nell’ambito della generale ignoranza sull’Islam, i musulmani e il mondo arabo, alcune particolari lacune rivestono una certa gravità per noi italiani, se solo si considera la posizione della nostra penisola nel Mediterraneo. Una di queste riguarda quella regione dell’Africa settentrionale indicata col termine “Màghreb” (si noti che l’accento cade sulla “a”, e a voler essere pignoli andrebbe scritta “Màghrib”, con la “i” anziché con la “e”).

Cominciamo col definire che cosa s’intende per “Màghreb”. La lingua araba conserva il pregio di comunicare direttamente il significato delle parole grazie all’individuazione diretta della loro radice triconsonantica (nella maggior parte dei casi). La radice (non soffermiamoci sul sistema per individuarla, che comunque è semplice anche per un principiante) della parola in questione è ghayn-râ’-bâ’ (gh-r-b), la quale veicola, tra gli altri, significati legati all’idea di “declino” e, più in particolare, di “tramonto”. Ghurùb (ash-shams) è appunto il “declino” del sole (shams), ovvero il “tramonto”. La quarta delle cinque preghiere quotidiane dell’Islam è, infatti, la salàt al-màghrib, con màghrib che indica – col prefisso “ma” caratteristico dei “nomi di luogo”, ovvero dei luoghi in cui si esplica l’azione espressa dal verbo – il tempo della preghiera, oltre che naturalmente il ‘luogo’ in cui il sole tramonta, ma non l’atto del tramontare (ghurùb, si è detto).
Naturalmente, in ogni luogo della Terra il sole “tramonta”… senonché, da un punto d’osservazione qual è grosso modo l’Egitto, viene individuato, nella geografia dell’Islam, un Màghreb, che è tutto ciò che sta ad Occidente di esso (si noti anche che con al-Gharb s’indica il punto cardinale “Ovest”, che in un certo senso è anche il significato di Màghreb geograficamente inteso), mentre con Màshreq s’intende tutto ciò che gli sta ad oriente (regione siro-palestinese, Iraq, penisola araba). E, all’interno del Màghreb, viene indicato con al-Màghreb al-Aqsa (“l’estremo occidente”) il Marocco (denominazione, quest’ultima, che però deriva dalla città di Marràkesh).

Scendendo nei dettagli, il Màghreb si compone dei seguenti Stati (da est a ovest): Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania (col territorio dell’ex Sahara Spagnolo al centro di un contenzioso che vede litigarsi, nell’ordine, Marocco, Mauritania ed Algeria. Esiste una RASD – Repubblica Araba Sahràwi Democratica, ma la sua indipendenza è rimandata sine die).
Va da sé che la suddetta ripartizione politico-amministrativa è il punto d’arrivo di una storia che cercheremo di dipanare nei suoi elementi più significativi. Ad esempio, all’epoca delle conquiste islamiche (metà del VII sec.) la Libia quale noi conosciamo non esisteva affatto: la regione di Bengàsi (di civilizzazione greco-bizantina) gravitava verso l’Egitto, mentre quella di Tripoli (Taràbulus al-Gharb, Tripoli d’Occidente, da distinguere dalla Taràbulus ash-Sharq, nell’attuale Libano) era coinvolta nelle dinamiche dell’odierna Tunisia, dove la città più importante, dopo la conquista, divenne, a scapito di Cartagine, al-Qayrawàn, “piazza d’armi” edificata nel 670 dal conquistatore ‘Uqba ben Nàfi‘ e dalla quale vennero dirette le successive conquiste verso l’Atlantico. Nel mezzo, tra Cirenaica e Tripolitania, sta il Golfo della Sirte, dove la placca africana-sahariana giunge fino al Mediterraneo: prima della formazione della Libia – grazie al colonialismo italiano, che mise insieme Tripolitania, Cirenaica e Fezzàn –, quello era il punto oltre il quale cominciava il Màghreb.
Esiste poi un’altra accezione, più recente, del termine: al-Màghrib al-Kabìr, “Il Grande Maghreb”, è l’Unione (Unione del Maghreb Arabo – UMA) che, per iniziativa soprattutto del Marocco, ha visto la luce il 17 febbraio 1989 a Marràkesh: ne fanno parte i cinque Stati summenzionati. Significativo è il riferimento all’arabismo e l’assenza di quello all’Islàm, che avrebbe avuto certo più senso in considerazione che Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania sono abitati nella quasi totalità da musulmani. Non da “arabi”, invece, se sotto la scorza dell’arabismo si considera, com’è corretto che sia, la notevole e radicata presenza berbera, cioè di quel sostrato autoctono che, in percentuali rilevanti in Marocco, ma anche in Algeria (minori in Tunisia e, in Libia, nel Jèbel Nefùsa), configura un’identità composita che non può dirsi solo “araba”, sebbene l’arabo sia in tutte queste realtà lingua ufficiale (talvolta l’unica). Ma si capisce bene che una “Unione del Maghreb Islamico” avrebbe comportato qualche problema alle classi dirigenti, tutte accomunate dall’esigenza di fronteggiare un islamismo politico (con “islamismo” s’indica una tendenza “politica”, non la religione dell’Islàm) al quale masse di diseredati si rivolgerebbero speranzose se solo gli fosse consentito di presentarsi liberamente alle consultazioni elettorali. Il caso dell’Algeria è, in questo senso, paradigmatico, rivelando – se mai ce ne fosse stato bisogno – che le elezioni sono “regolari” fintantoché producono risultati graditi a chi detiene realmente il potere.
Ma torniamo al Màghreb e ad una sua definizione, analizzando i “fattori dell’unità maghrebina”, quelli cioè che giustificherebbero l’esistenza di un Maghreb integrato secondo quello che era l’intento dell’UMA, la quale, per la verità, attualmente versa in una sorta di limbo… (cfr. il sito dell’UMA: http://www.maghrebarabe.org/fr).

Il primo di questi fattori è senz’altro quello religioso. L’Islàm, come s’è detto, accomuna la quasi totalità dei maghrebini. Il Cristianesimo, attecchito nella versione donatista in quelle regioni che all’epoca dell’Impero Romano erano indicate come “Africa” (di qui la denominazione Ifrìqiya data dai conquistatori arabo-musulmani all’attuale Tunisia) e Mauretania (per non parlare della Numidia, localizzabile nell’odierna Algeria), venne progressivamente cancellato, ma non del tutto repentinamente, tant’è vero che la scomparsa di significativi nuclei cristiani autoctoni viene fatta datare dal periodo almoràvide (XI-XII sec.). Gli ebrei erano presenti un po’ dappertutto, ma dopo il 1948 ne sono rimasti, in misura apprezzabile, solo in Marocco e nell’isola tunisina di Jerba. A tal proposito, è opportuno evitare di cadere nell’errore di credere che si trattasse di “ebrei diasporici”, secondo un luogo comune funzionale ad evidenti obiettivi pratici; scrive infatti il noto studioso Yves Lacoste: “Sotto il dominio romano molti berberi abbracciarono il giudaismo per opporsi al culto pagano dell’imperatore […]” (AA.VV., Maghreb, Il Saggiatore, Milano 1993, p. 15).
Quanto all’Islàm maghrebino, esso aderisce alla “scuola giuridica” sunnita malikìta, che prende il nome da Màlik ibn Anas di Medina (m. 796), la quale, oltre ad insistere particolarmente su valore normativo del Corano e della Sunna (“l’esempio virtuoso” del Profeta Muhàmmad), insiste sulla salvaguardia della màslaha, dell’“interesse (generale)”. Da ciò si rilevano immediatamente due cose: primo, che l’ambiente maghrebino attribuisce un notevole rilievo al momento comunitario, per cui, tra i differenti modi di attingere la norma dalle “fonti del diritto” ne ha fatto proprio uno che valorizza adeguatamente quel momento; secondo, che la provenienza medinese del capofila di questo tipo d’esegesi delle “fonti del diritto” è da mettere in relazione con l’esigenza, di chi si trova alla “periferia” dell’ecumene islamico, di dotarsi di qualche ‘patente di nobiltà’ (lo stesso accadrà con la ricostruzione di una genealogia sceriffiana da parte dell’attuale dinastia al potere), o meglio di un legame con i centri da cui promana più direttamente lo spirito dell’Islàm (com’è noto, Medina è la seconda città santa dell’Islàm, quella che vide il primo “Stato islamico” ed ospita la tomba dell’Inviato di Dio).
Tuttavia, quanto precede non deve far dimenticare che il Màghreb – sempre per l’esigenza di differenziarsi, com’è accaduto ai persiani che hanno aderito allo sciismo duodecimano – ha costituito un rifugio per alcune ‘eresie’ (il concetto va preso con beneficio d’inventario), che lì hanno trovato il modo non solo d’impiantarsi, ma addirittura di costituire dei veri e propri Stati, qual è il caso degli Idrìsidi di Fès (sciiti del ramo hasànide), dal 789 al 974, o dei Rustèmidi kharigìti di Tàhert, dal 777 al 909 (nuclei di kharigìti ibadìti sussistono ancor’oggi nello M’zab algerino, nel Jèbel Nefùsa libico e nell’isola di Jerba). Ma il caso più eclatante fu senz’altro quello dei Fatìmidi (unico caso della storia islamica in cui una dinastia prende il nome da una donna, Fàtima, una delle figlie di Muhàmmad), che all’inizio del X secolo, a seguito dell’unione d’interessi tra fuoriusciti qàrmati (una delle filiazioni estreme dello sciismo ismailita) provenienti dal Vicino Oriente ed alcuni clan berberi, fondarono uno Stato con capitale ad al-Mahdìyya, sulla costa dell’Ifrìqiya. Al-Mahdìyya, ovvero la “città del Màhdi”, di colui che, “atteso”, viene a compiere la “fine dei tempi” instaurando il “regno della giustizia” prima della “fine dei tempi”, debellando il Dajjàl, l’“impostore” per antonomasia che “travierà molti”: sull’esistenza della figura escatologica del Mahdi tutti i musulmani sono d’accordo, senonché le varie posizioni differiscono tra sunniti e sciiti, nonché tra branche dello stesso sciismo. In un certo senso, si può affermare che i Fatìmidi ‘accelerarono’ la “fine dei tempi”, poiché, come molti sanno, lo sciismo maggioritario “attende” ancora il Mahdi.
I Fatìmidi, che si attribuirono (coerentemente col loro sciismo ismailita) il titolo di califfi in concorrenza col Califfato ortodosso di Baghdàd (e quello concorrente di Cordova), si spostarono poi verso il baricentro egiziano, dove fondarono il Cairo (969), lasciando ai loro luogotenenti Zirìdi il controllo dell’Ifrìqiya. Questi ultimi, però, ad un certo punto, si dichiararono fedeli al califfo ‘abbaside di Baghdàd, per cui, per ritorsione, i Fatìmidi scagliarono contro di essi un’autentica “invasione delle cavallette”, quella dei beduini arabi Bànu Hilàl, che dalla metà dell’XI secolo resero arabizzato il Maghreb più di quanto non lo fosse stato sin lì. Ecco perché, quando si parla del “fattore etnico” come uno degli elementi che giustificano la “unità del Maghreb” è necessario ricordare che l’arabizzazione oggi maggioritaria ha rappresentato un fenomeno che non s’è imposto repentinamente, cancellando d’un colpo il sostrato berbero. Di prim’acchito, potrebbe sembrare di discutere di questioni puramente teoriche, ma se solo si pensa a tutte le ragioni pro e contro l’inclusione nel preambolo della “Costituzione dell’UE” di un riferimento alle “radici cristiane dell’Europa” (per non parlare di quelle “giudaico-crisitiane”), ci si rende conto che una discussione su quali possano essere i fattori stanno alla base di una “unità del Maghreb” non è del tutto fuori luogo.
I Berberi – termine, questo, che in pratica significa ben poco, esistendo invece delle “confederazioni” di clan quali gli Zenàta, i Sanhàja, i Lamtùna, i Masmùda ecc. – sono addirittura la maggioranza in alcune aree del Maghreb, in special mondo in quelle montuose, poiché tutte le invasioni si sono sviluppate secondo i corridoi che, paralleli alle coste mediterranea ed atlantica, sono formati dall’alternanza dei principali rilievi (Medio Atlante, Alto Atlante ed Anti Atlante in Marocco, Atlante Telliano, Aurès, Cabilia ecc. in Algeria) e degli adiacenti pianori. Nei primi si arroccavano gli autoctoni, dove hanno conservato la loro specificità, nelle seconde s’è diffusa l’influenza araba, evidente specialmente nelle città.
A rendere ancor più variegato il mosaico etnico maghrebino, inoltre, troviamo altri gruppi come, ad esempio, i Tebu della regione di confine tra Libia e Ciad, i Tuaregh (che comunque hanno delle relazioni col mondo “berbero”), i neri discendenti degli schiavi che affluivano a nord del Sahara (la parola araba sahrà’ significa nient’altro che “deserto”) in cambio di una merce preziosa quale il sale, le minoranze di Wolof (maggioranza in Senegal), Soninke ecc. che abitano parte della Mauritania.
La Mauritania è, forse, tra i Paesi del Grande Maghreb, quello più sconosciuto. Eppure, proprio dalle terre meridionali dell’attuale “Repubblica islamica” (la Mauritania è l’unico Stato maghrebino che nella denominazione ufficiale ha un riferimento all’Islàm) emerse la potenza degli Almoràvidi (al-Muràbitùn), sorta di monaci-guerrieri che dai ribàt (“convento-fortezza”) in cui risiedevano conducevano un incessante jihàd (difensivo e offensivo) contro le popolazioni non musulmane. Ribàt (la capitale del Marocco è, appunto, ar-Ribàt) sorgevano (e costituiscono a tutt’oggi una delle principali attrazioni turistiche) su tutto il versante marittimo del Maghreb, ma anche nell’entroterra questi svolgevano la medesima funzione (all’altro capo del mondo islamico ne esistevano in Asia Centrale, al limite delle terre abitate da turchi non islamizzati). Così, quando le vicende di al-Andalus cominciarono a prendere una piega negativa per la presenza musulmana (dalla caduta del califfato di Cordova, nel 1031, e per tutto il periodo dei “Regni delle fazioni”), gli Almoràvidi, Lamtùna (velati come i Tuaregh) originari delle regioni vicine al fiume Senegal, dopo aver conquistato il Marocco e parte dell’odierna Algeria, entrarono (inizialmente controvoglia) nella Penisola iberica, salvando quel che, dopo la perdita di Toledo (1085), restava dei domini islamici in Europa. Da questo esempio (ma se ne faranno altri) si comprende come le vicende maghrebine siano strettamente collegate a quelle dell’Europa (e non solo), tanto che anche la successiva dinastia degli Almohàdi (la quale, originaria dell’Atlante marocchino, era tuttavia sciita e perciò proclamò un califfato, a differenza degli Almoràvidi che riconobbero, seppur formalmente, l’autorità del califfo di Baghdàd) nel XII-XIII secolo prese il posto degli Almoràvidi non solo nel possesso della parte rimanente di al-Andalus, ma – dato importante in un’ottica che privilegi i “fattori dell’unità maghrebina” – anche nel Màghreb, fino alla Tripolitania, tant’è che è certamente questa dinastia (basata sull’elemento etnico berbero ma sorta grazie ad un impulso proveniente dal Màshreq) che può essere presa a simbolo del primo (ed unico) tentativo di realizzare un Màghreb unificato, integrato ed aperto agl’influssi delle principali correnti di pensiero del Màshreq. L’arte cosiddetta “moresca” conobbe appunto il suo apogeo proprio nel periodo degli Almohàdi (il sui significato, come spesso ricorre nella storia islamica, è “fautori del tawhìd”, ovvero dell’Unità e dell’Unicità divine: “al-Muwahhidùn”), segno che l’unità infonde un impulso anche alle arti e alla cultura.
Se Almoràvidi e Almohàdi rappresentano le due esperienze che riuscirono ad unificare tutto, o in parte, il Màghreb, dalla metà del XIII secolo prese a delinearsi definitivamente quella tripartizione in Marocco, Algeria e Tunisia che poi verrà ereditata dal colonialismo europeo, per cui non è corretto sostenere – com’è invece più opportuno nel caso del Màshreq – che gli attuali Stati maghrebini sono una creazione dovuta ad interessi esterni. Il Marocco, tra questi, è senz’altro quello con un’identità meglio definita, che è databile già dall’epoca in cui la dinastia degli Idrìsidi (789-974) proclamò la propria autonomia dal resto del Dàr al-Islàm (“la Dimora dell’Islàm”) governato da Baghdàd. Nella stessa epoca, invece, l’Ifrìqiya era retta da una dinastia, quella degli Aghlàbidi (800-909), che può considerarsi la prima dinastia “nazionale” tunisina, sebbene non mancasse di riconoscere, dalla capitale al-Qayrawàn, l’autorità del califfo ‘abbàside. Furono proprio gli Aghlàbidi ad intraprendere, dall’827, la conquista della Sicilia bizantina, nel cui dominio poi si succedettero il summenzionati Fatìmidi (che sostituirono nella stessa Ifrìqiya gli stessi Aghlàbidi) e i loro vassalli Bànu Kalb. Marocco e Tunisia consolideranno poi la loro “identità nazionale” con le dinastie dei Merìnidi (1258-1465), dei Bànu Sa‘d (1509-1659) e degli ‘Alawìti (la presente dinastia) per quanto riguarda il primo; con gli Hàsfidi (1229-1574), già governatori degli Almohàdi e poi addirittura alleati di Carlo V (giusto per ricordare che uno “scontro Europa-Islàm” esiste solo nella mente dei ‘lepantisti’) e i bey Husàynidi (1705-1957) per quanto riguarda la seconda. L’Algeria, invece, vede un susseguirsi meno ordinato di dinastie che controllano solo parte della zona settentrionale dell’odierna Repubblica, la quale si estende fin nei territori sahariani solo a causa delle esigenze del colonialismo francese che s’impose anche nelle regioni dell’Africa Occidentale ed Equatoriale.

Ecco che si comincia a comprendere come le vicende del Màghreb siano costantemente correlate con quelle dell’Europa meridionale, non solo a causa delle imprese militari come la conquista della Sicilia o della Penisola iberica (dal 711, ad opera di contingenti perlopiù berberi guidati da quel Tàriq bin Ziyàd che avrebbe dato il nome a Gibilterra: Jèbel Tàriq, “La montagna di Tàriq”), oppure l’‘onda lunga’ della “Riconquista” che portò la Spagna a conquistare alcune piazzeforti che ancora oggi le appartengono (Ceuta, Melilla), o ancora i tentativi espansionistici del Portogallo e della stessa Spagna (Battaglia dei Tre re, in Marocco, nel 1578), ma anche e soprattutto per gli scambi commerciali che, ad esempio, durante la fioritura delle Repubbliche marinare riportarono il Mediterraneo a quella sua funzione di “continente liquido” che gli è stata propria sin dall’epoca dell’Impero Romano, quando però si era verificata una condizione mai più vista in seguito: l’unità di tutte le sue sponde sotto un’unica autorità politica e spirituale. In seguito, tale situazione ottimale sarebbe stata perseguita blandamente dagli Ottomani, che nel XVI secolo avrebbero imposto la loro autorità sulla parte orientale del bacino, mentre in quella occidentale, le pur efficienti Reggenze barbaresche (sulle quali torneremo in seguito) di Algeri, Tunisi e Tripoli dovettero fronteggiare le altrettanto agguerrite marinerie degli Stati di un’Europa che, in piena espansione economica, cominciava a trasformarsi nell’“Occidente”…
Ma la storia del Màghreb è legata a quella europea anche per eventi per così dire imprevisti. Quando nel 1492 l’Emirato di Granada venne acquisito ai domini spagnoli, cominciò un afflusso di “moriscos” nel Màghreb, e furono proprio costoro ad imprimere un’accelerazione alla formazione di quegli Stati corsari che poi, sotto la protezione della Sublime Porta, avrebbero costituito un autentico spauracchio fino a tutto il XVIII secolo. Questi Stati erano delle “Repubbliche” (secondo la definizione che ne dettero alcuni religiosi europei) che fondavano la loro prosperità sulla “guerra di corsa” (che è cosa diversa dalla pirateria) sul mare e sulle coste dell’Europa del sud, ma proprio per questa loro dinamicità garantita dalla compartecipazione d’interessi dei corsari, dei giannizzeri, del Pascià di Istanbul, degli armatori eccetera, non era infrequente il caso di prigionieri d’ogni parte d’Europa che, piuttosto che essere “riscattati”, restavano in “Barberia” e facevano carriera, assurgendo al rango di capi-corsari.

Già da queste note risulta evidente che il Màghreb – oltre a vantare una storia che appassiona anche per le relazioni con realtà a noi più familiari – occupa una posizione “cruciale” nel vero senso del termine, all’incrocio, cioè, di Europa, Africa e Asia. È una regione che mette in comunicazione l’Europa con l’Africa subsahariana, ed è il naturale prolungamento dell’area da cui promana la civiltà arabo-musulmana, ‘mediana’ per definizione, sia in senso geografico che spirituale. Ecco perché l’Egitto – che all’inizio abbiamo indicato come il punto dal quale vengono descritti un Màghreb ed un Màshreq – è il Paese-chiave di tutto il dispositivo sovversivo atlantico all’opera nella massa continentale afro-euro-asiatica. Mantenere quel Paese con un ‘profilo basso’, praticamente inesistente sulla scena dagli “accordi di Camp David” che ne sancirono un lungo isolamento sia a livello arabo che africano, significa inserire un elemento di discontinuità a puntello del vero e proprio perno del suddetto “grande continente”, ovvero la Palestina occupata. Egitto e Giordania – che non a caso sono gli “interlocutori arabi” privilegiati negl’inconcludenti “colloqui di pace” – sono in un certo senso i garanti regionali dello status quo in Palestina. In altre parole, il Màghreb può svolgere la sua funzione euro-afro-asiatica (e non semplicemente “mediterranea”, come si ripete per abitudine negli ambienti della “cooperazione allo sviluppo” che non trovano inconcepibile che il “nostro mare” sia ridotto ad un “lago americano”) se anche il Màshreq viene liberato dall’ipoteca che lo grava e che impedisce al “continente liquido” mediterraneo di svolgere la sua naturale funzione. Alcuni squarci in tale direzione sono ravvisabili nella posizione “africana” di un Gheddafi, oppure nelle manovre, supportate dallo stesso leader libico, per riportare Trieste alla sua funzione di porto mediterraneo della Mitteleuropa. Ma trattasi, appunto, di bagliori in un quadro a tinte fosche: lo stravolgimento dei risultati elettorali in Algeria e la successiva mattanza; la ripresa di attentati nella stessa Algeria mentre la Russia promuove con essa un “cartello del gas” (Algeria e Russia sono i principali fornitori dei Paesi dell’UE); la “tratta” di esseri umani che vengono indotti (tramite politiche congiunte dei loro governi – “moderati”… – e delle istituzioni usurocratiche apolidi) a lasciare la loro patria per emigrare in Europa; l’appoggio incondizionato alla “causa albanese” da parte degli atlantici e dei loro alleati preoccupati di contenere la Russia, alimentando il pregiudizio anti-slavo; la ‘balcanizzazione’ del Vicino Oriente promossa da chi ha tutto l’interesse a mantenere divise, nella realtà e nella mentalità collettiva, Europa e Islàm…

In tutto ciò, il Màghreb esiste come mera potenzialità inespressa, in attesa di un riscatto dei popoli del Mediterraneo. Ed è un vero peccato, perché nell’epoca in cui emerge l’importanza delle “identità multiple” (locali, nazionali, sovranazionali), gli abitanti del Màghreb, con le loro identità islamica, araba (o arabo-berbera, o solo berbera), maghrebina, nazionale e locale (si pensi alle differenze tra i marocchini del Rif e quelli del Sous, oppure a quelle tra i tunisini del Sàhel costiero e quelli del Jarìd delle oasi) possono apportare il loro prezioso contributo ad una battaglia in nome della Concordia tra i popoli che il destino ha posto l’uno vicino all’altro in uno spazio che non è giusto veder ridotto a terra di conquista d’interessi contrari ad ogni significato superiore di Civiltà.

Fonte: Rinascita 27-28 ottobre 2007


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Enrico Galoppini scrive su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” dal 2005. È ricercatore del CeSEM – Centro Studi Eurasia-Mediterraneo. Diplomato in lingua araba a Tunisi e ad Amman, ha lavorato in Yemen ed ha insegnato Storia dei Paesi islamici in alcune università italiane (Torino ed Enna); attualmente insegna Lingua Araba a Torino. Ha pubblicato due libri per le Edizioni all’insegna del Veltro (Il Fascismo e l’Islam, Parma 2001 e Islamofobia, Parma 2008), nonché alcune prefazioni e centinaia di articoli su riviste e quotidiani, tra i quali “LiMes”, “Imperi”, “Levante”, “La Porta d'Oriente”, “Kervàn”, “Africana”, “Rinascita”. Si occupa prevalentemente di geopolitica e di Islam, sia dal punto di vista storico che religioso, ma anche di attualità e critica del costume. È ideatore e curatore del sito "Il Discrimine".