Fonte: “Megachip”, 02.06.10

Le organizzazioni pacifiste attaccate affermano che al momento dell’assalto la nave Mave Marmara, battente bandiera turca, si trovasse a 75 miglia marine dalla costa della Striscia di Gaza e di Israele e avesse issato bandiera bianca. Israele non ha finora negato che l’assalto compiuto dalla Marina Militare Israeliana nei confronti della flotta si sia compiuto in acque internazionali.

Al Jazeera riporta, anzi, una dichiarazione di Avital Leibovich, portavoce dell’Esercito Israeliano, in cui si afferma «… è accaduto in acque esterne a quelle israeliane ma noi abbiamo il diritto di difenderci.» In questa frase si riassume, sotto il profilo strettamente giuridico, l’illegalità dell’azione militare in oggetto. Per poter comprendere quali diritti Israele potesse esercitare in acque internazionali e di quali crimini possa essersi macchiata, è necessaria una breve disamina di alcuni concetti basilari del Diritto Internazionale Marittimo e del Diritto Internazionale Umanitario.

La prima affermazione del principio per cui ciascuno è libero, per il diritto delle genti, di «viaggiare sul mare in quei luoghi e presso quelle Nazioni che a lui piaccia», si deve a Hugo Grotius, che nella sua Dissertazione «Mare Liberum» del 1601, sostenne la tesi della libertà di navigazione degli Olandesi contro le pretese portoghesi di esercitare diritti sovrani nell’Oceano Indiano.

Il concetto affermato da Grotius, relativo al mare come bene non suscettibile di appropriazione esclusiva e perciò aperto alla libera navigazione, è sopravvissuto a quattro secoli di Storia, trovando collocazione nella nuova Convenzione per la ricodificazione del Diritto Internazionale Marittimo (DIM), o Convenzione del Diritto del Mare, firmata a Montego Bay nel 1982, costituita da 320 articoli, entrata in vigore nel novembre del 1994, integrata da un Accordo applicativo che modifica la sua parte XI e che, secondo il disposto dell’art. 311, sostituisce le 4 precedenti Convenzioni di Ginevra.

Testo vincolante per i 2/3 della comunità internazionale e che molti Stati, che pur non l’hanno ancora ratificato, a cominciare dagli Stati Uniti, hanno riconosciuto come testo guida in materia.

Il principio generale che informa l’intero Diritto Internazionale Marittimo è, secondo la Convenzione, che ogni nave è sottoposta esclusivamente alla sovranità dello Stato di cui ha nazionalità, ovvero il cosiddetto Stato di bandiera o Stato nazionale, al quale è riservato il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo sulla comunità navale, potere esercitato attraverso il comandante, che viene considerato quale organo dello Stato.

Esistono, tuttavia, ovvie limitazioni a detto principio. La prima e più rilevante è costituita dalle acque territoriali.

Queste sono una zona di mare sulla quale si estende la sovranità dello Stato costiero, al di là della terraferma e delle acque (Ginevra, I,1,1, UNCLOS 2,1). L’ampiezza massima delle acque territoriali è attualmente stabilita in 12 miglia marine misurate a partire dalle linee di base (UNCLOS 3). Sulle acque territoriali ogni Paese ha la stessa sovranità di cui gode sulla propria terraferma. E tuttavia il principio della libertà dei mari trova spazio e parziale riconoscimento anche nelle acque territoriali, giacché vi è previsto il diritto di transito inoffensivo persino delle unità militari e mercantili straniere.

In linea generale si può affermare che i Paesi rivieraschi del Mediterraneo hanno adottato il limite delle 12 miglia delle acque territoriali. Anche la Siria ha ridotto a 12 miglia, con la legge n. 28/2003 del 19 novembre 2003, la propria precedente pretesa di 35 miglia di acque territoriali. La Grecia mantiene tuttora il limite di 6 mg dalla costa stabilito con la legge 17 settembre 1936, n. 230 nel 1936. Egualmente di 6 miglia è l’estensione generale delle acque territoriali della Turchia -che pure non ha ratificato la Convenzione del Diritto del Mare del 1982-, secondo l’art. 1 della legge n. 2674 del 26 maggio 1982.

In tema di acque territoriali è da osservarsi, altresì, che nell’ambito dell’Accordo del 4 maggio 1994 sulla Striscia di Gaza tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con cui è stato attuato un primo riconoscimento dell’OLP come entità giuridica rappresentante il popolo palestinese, è stata prevista (Annesso I, art. IX) la creazione di una Maritime Activity Zone, ovvero una zona di attività marittima lungo la costa della Striscia di Gaza, estesa 20 miglia verso il largo, e pertanto sostanzialmente corrispondente alle cosiddette acque territoriali, divisa in tre zone di cui:

le zona «K» e «M» contigue alle acque territoriali di Israele ed Egitto, della larghezza rispettiva di 1,5 ed 1 miglio, che costituiscono «closed areas», ovvero aree interdette alla navigazione palestinese, in cui la navigazione è riservata alle attività della Marina Israeliana;

la zona «L», compresa tra le due zone precedenti», aperta alle attività di pesca e ricreative riservate ai battelli autorizzati dall’Autorità della Palestina.

Di fatto con la suddetta suddivisione si sono create le premesse per l’attribuzione di una fascia di acque territoriali al futuro Stato della Palestina.

Pertanto Israele gode di piena sovranità sulle acque prospicienti la propria costa fino al limite di 12 o 20 miglia marine e in tale tratto ben può esercitare poteri atti a tutelare la propria sicurezza nazionale. In linea meramente teorica, anche la Striscia di Gaza godrebbe di analoga sovranità.

Oltre il limite delle 12 miglia nautiche dalla linea di base, si estende un tratto di ulteriori 12 miglia –e quindi 24 miglia nautiche dalla costa – in cui lo Stato può continuare a fare valere le proprie leggi rispetto – principalmente – al controllo del contrabbando o dell’immigrazione clandestina. Si tratta della cosiddetta zona contigua.

In essa uno Stato può esercitare i controlli necessari a prevenire e reprimere le violazioni alle leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria o d’immigrazione vigenti sul proprio territorio (Ginevra, I, 24, 1.;UNCLOS 33, 1).

E’ oggetto di contestazione e dibattito la possibilità di esercizio della giurisdizione ai fini della sicurezza nazionale anche nella zona contigua. Pertanto, già nel tratto di mare compreso tra le 12 e le 24 miglia marine dalla costa, non è pacifico che lo Stato possa avere poteri atti a tutelare la propria sicurezza nazionale.

E’ inoltre pacifico che all’interno di essa le navi e gli aeromobili di tutte le nazioni, godano delle libertà dell’alto mare in analogia a quanto espressamente stabilito per la zona economica esclusiva (UNCLOS 58).

I battelli stranieri vi possono esercitare la pesca, a meno che lo Stato costiero non abbia proclamato la zona economica esclusiva o la zona riservata di pesca. Le navi da guerra straniere possono, in particolare, svolgere attività operative e di addestramento che prevedano anche l’uso di armi, senza che lo Stato costiero possa pretendere di interferire. La zona contigua, che per poter esistere deve essere formalmente proclamata, costituisce una porzione delle acque internazionali. Algeria, Cipro, Egitto, Francia, Marocco, Malta, Siria e Tunisia hanno dichiarato di avere istituito una propria zona contigua. Israele no. Questo significa che la giurisdizione di Israele passa direttamente dall’essere totale sulle proprie acque territoriali, ovvero dalla costa fino a dodici o venti miglia, ad essere nulla, poiché versa direttamente in acque internazionali. Ovviamente conserva il diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse naturali nella zona economica esclusiva, anche nota con l’acronimo ZEE, ovvero l’area di mare che si estende per 200 miglia nautiche dalla linea di base.

Pertanto, al di là dei diritti di natura prettamente economica e di sfruttamento sulla ZEE e di quelli eventuali su una presunta zona contigua, è possibile affermare che il potere sovrano di Israele si esaurisce al limite delle proprie acque territoriali, ovvero entro e non oltre le dodici o venti miglia marine dalle proprie coste.

Oltre le acque territoriali di ogni Paese che si affacci sul mare, si estendono le cosiddette acque internazionali, categoria generale che comprende la zona contigua e la zona economica esclusiva- esse si estendono fino alle 200 miglia marine della costa e si fondono, per regime e dimensioni, con l’alto mare.

Al di là dei poteri dei singoli Stati sulla zona contigua e sulla zona economica esclusiva, che sono sostanzialmente diritti di natura economica e di sfruttamento delle risorse marine, le acque internazionali sono sottoposte al medesimo regime dell’alto mare, ovvero della zona di mare ulteriore rispetto a alle acque internazionali stesse. Secondo nozione consolidata (Ginevra, I, 1) per alto mare si intendono tutte quelle parti del mare che non appartengono al mare territoriale. Il termine alto mare indica gli spazi marini al di là della zona economica esclusiva e quindi non sottoposti alla sovranità di alcuno Stato. Negli spazi marini situati oltre la zona economica esclusiva cessa ogni tutela degli interessi degli Stati costieri.

L’alto mare è aperto a tutti gli Stati, sia costieri che interni, che possono esercitarvi, con l’unico limite di non intaccare le libertà degli altri Stati, tra le altre, le attività di navigazione.

Ogni Stato, sia costiero che interno, ha diritto di navigare in alto mare con navi battenti la sua bandiera le quali sono soggette alla sua giurisdizione esclusiva. Dal punto di vista giuridico il principio di riferimento è quello della «perfetta eguaglianza e completa indipendenza» di tutti gli Stati in un luogo come l’alto mare in cui non esiste alcuna autorità.

L’alto mare deve essere riservato a scopi pacifici e nessuno Stato può pretendere di assoggettarne alcuna parte alla sua sovranità.

L’alto mare è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il classico principio della “libertà dei mari”, che ha dominato per secoli il DIM, il quale indica che il singolo Stato non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte degli altri Stati né delle comunità che da altri Stati dipendono. L’utilizzazione degli spazi marini incontra l’unico limite della pari libertà altrui. Sulle navi che vi transitano vige la legge di bandiera, cioè quella del Paese di appartenenza.

Anche nei confronti di navi sospettate di attività terroristiche, sono stati confermati i tradizionali principi della libertà dei mari secondo cui nessuno Stato può interferire in alto mare con la navigazione di un mercantile a meno di espressa autorizzazione del Paese di bandiera, ed è pertanto da escludersi l’esercizio di poteri di enforcement.

In linea generale, nessuno Stato può fermare o abbordare navi battenti bandiera straniera in acque internazionali.

I casi in cui uno Stato, in tempo di pace, pretenda di esercitare giurisdizione in acque internazionali nei confronti di mercantili stranieri senza la preventiva autorizzazione dello Stato di bandiera, costituiscono dunque un’eccezione alla regola generale e, come tali, devono essere rigorosamente giustificati.

Il principio è che nessuno Stato ha il diritto di interferire in tempo di pace con una nave di altra bandiera che navighi in alto mare, a meno che non si verta in una delle ipotesi in cui è esercitabile il diritto di visita o il diritto d’inseguimento.

Il diritto di visita è la facoltà attribuita alle navi da guerra di sottoporre a visita in alto mare, in tempo di pace, una nave mercantile straniera nei soli casi (Ginevra II, 22; UNCLOS 110, 1) in cui vi sia fondato sospetto che questa sia dedita alla pirateria o alla tratta degli schiavi, effettui trasmissioni radio o televisive non autorizzate, sia priva di nazionalità ovvero usi più bandiere come bandiere di convenienza.

La più recente prassi internazionale, recepita peraltro in accordi sul contrasto a traffici illeciti in mare (si pensi al terrorismo marittimo, o al traffico e trasporto illegale di migranti in mare), evidenzia comunque, nell’esecuzione in mare di visite ed ispezioni a mercantili, la necessità di operare secondo stringenti misure di salvaguardia per la tutela dell’integrità fisica, dei diritti umani e della dignità delle persone trasportate e della sicurezza dei mezzi e del carico, tenendo anche conto che i pericoli connessi alla messa in atto di abbordaggi in mare possono consigliarne la loro esecuzione in porto.

Qualora, a seguito della visita, i sospetti si rivelassero fondati, la nave mercantile potrebbe essere condotta, per gli opportuni provvedimenti, in un porto nazionale o in un porto estero ove risieda un’autorità consolare, purché si tratti di:

– una nave nazionale che eserciti pirateria o tratta degli schiavi, o che abbia commesso gravi irregolarità occultando la propria nazionalità (CN 200 e 202) o falsificando i documenti di bordo;

– una nave straniera dedita alla pirateria (UNCLOS 105);

– una nave priva di nazionalità (stateless);

Al di fuori di queste ipotesi, alla nave da guerra è solo consentito di raccogliere le prove dell’attività illecita, trasmettendo un dettagliato rapporto alle autorità superiori nazionali per l’inoltro allo Stato di cui la nave batte la bandiera: è questo, per esempio, il caso del danneggiamento di cavi e condotte sottomarine. Se l’esito della visita porti a ritenere infondati i sospetti, la nave fermata deve essere indennizzata per le perdite e i danni subiti.

Non risultando integrati gli elementi della fattispecie, Israele non avrebbe potuto neppure legittimamente esercitare il mero diritto di visita, il quale, come visto, benché a carico di navi sospettate dei crimini più odiosi quali la tratta degli esseri umani, deve comunque obbligatoriamente essere condotto dalla nave da guerra nel rispetto dei diritti e dell’integrità dei passeggeri.

E’ altresì da escludersi che Israele abbia legittimamente esercitato il diritto di inseguimento, che si sostanzia nel potere attribuito alle navi da guerra, alle navi in servizio governativo e agli aeromobili militari di inseguire una nave straniera quando si abbiano fondati sospetti che questa abbia violato leggi o regolamenti nazionali (Ginevra, II, 23; UNCLOS 111). L’inseguimento deve essere iniziato quando l’imbarcazione sospetta si trovi nelle acque interne, nelle acque arcipelaghe o nel mare territoriale dello Stato che effettua l’inseguimento o nelle acque contigue al proprio mare territoriale e può continuare in alto mare, al di fuori delle aree di giurisdizione nazionale, soltanto se non sia stato interrotto. Per potersi configurare un legittimo esercizio del diritto d’inseguimento è necessario che si siano realizzate cumulativamente tutte le condizioni previste dall’art. 111 della Convenzione del Diritto del Mare del 1982. Pertanto Israele avrebbe avuto diritto d’inseguimento qualora fossero stati integrati i seguenti requisiti: l’imbarcazione si sarebbe dovuta trovare, originariamente, in acque a sovranità israeliana o in acque ad esse contigue e dovrebbe, altresì, aver violato la legge israeliana.

Come conseguenza dell’esercizio illegittimo, sarebbe stato perfettamente congruo sotto il profilo strettamente giuridico l’intervento in alto mare di una nave da guerra della stessa bandiera del mercantile inseguito, al fine di proteggerlo dall’azione coercitiva della nave inseguitrice, cioè a dire l’intervento di una nave da guerra turca, il che tuttavia non si è verificato. E’ appena il caso di osservare che, qualora una nave sia stata fermata o catturata al di fuori delle acque territoriali in circostanze che non giustificavano l’esercizio del diritto d’inseguimento, essa deve essere risarcita per i danni e le perdite subite (Ginevra, II, 23, 7; UNCLOS, 111, 8).

Ma allora, vi è da chiedersi, se dalle considerazioni innanzi svolte appare evidente come Israele non avesse alcun diritto di interferire con la navigazione della «flottilla» in acque internazionali, né di esercitare neppure un semplice diritto di visita, né tantomeno di esercitare un legittimo diritto di inseguimento, in base a quale norma Israele è comunque intervenuto?

Nella nota rilasciata oggi dall’ambasciata israeliana in Italia, si legge una dichiarazione dell’Ambasciatore israeliano a Roma, Gideon Meir, il quale sottolinea che «Israele ha dichiarato, dal 2007, un blocco navale davanti alle coste di Gaza. Il blocco navale è completamente in linea con il diritto internazionale marittimo e, come previsto nella normativa, è vietato il passaggio a qualsiasi nave civile e militare non autorizzata».

Il blocco navale, o naval blockade, è una misura di guerra volta a impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di uno Stato belligerante. Si tratta di una misura di interferenza con la navigazione neutrale e, ovviamente, con quella nemica, volta a impedire tutte le comunicazioni marittime, in ingresso ed in uscita dalle coste nemiche nel corso di un conflitto armato e, di regola, dovrebbe svolgersi in prossimità delle acque territoriali nemiche.

La prassi del blocco è disciplinata, se si esclude la Dichiarazione di Parigi del 16 aprile 1856 sui Principi della Guerra Marittima, da norme di natura consuetudinaria, non essendo mai entrata in vigore la Dichiarazione di Londra del 26 febbraio 1909 sul Diritto della Guerra Marittima destinata a regolamentarla.

Tuttavia, con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite del 1945, il blocco non può ritenersi consentito al di fuori dei casi di legittima difesa di cui all’art. 51 della stessa Carta: esso contrasta infatti con l’art. 2, nn. 3 e 4 che vieta il ricorso all’uso della forza nelle relazioni tra gli Stati, come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Per questo motivo «il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato» è compreso tra gli atti di aggressione (ci sia stata o no dichiarazione di guerra) dall’art. 3, lettera c della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle NU 3314 (XXXIX) del 14 dicembre 1974.

Ammesso in ipotesi che sussistessero le condizioni di legittima difesa tali da sostenere la legittimità di un simile blocco imposto sulla Striscia di Gaza, la presenza del blocco stesso configurerebbe pacificamente Israele quale stato occupante e perciò lo vincolerebbe al disposto della Quarta Convenzione di Ginevra, ovvero la Convenzione per la protezione delle persone civili in tempo di guerra firmata a Ginevra nel 1949 e che è posta alla base delle fonti del Diritto Internazionale Umanitario. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite già nel 1979 dichiarò che ai territori occupati da Israele nel 1967 si dovesse applicare la Convenzione in oggetto. Pertanto, anche nell’ipotesi in cui il blocco fosse legittimo, Israele sarebbe comunque obbligato a garantire alla popolazione di Gaza il rispetto del diritto umanitario e men che mai potrebbe, pertanto, opporsi all’arrivo di una flotta carica di aiuti umanitari. Al contrario, sarebbe obbligata a consentirne l’accesso, pena la violazione della Convenzione stessa.

Tuttavia, Israele ha sempre sostenuto che la Quarta Convenzione sia inapplicabile ai territori occupati, giacché la Convenzione è destinata ad essere applicata solo ai territori occupati ma dotati di sovranità, sovranità che Israele non riconosce ai territori occupati. Una simile affermazione sfugge a qualunque inquadramento non solo giuridico ma anche meramente logico induttivo.

Vi è altresì da osservare come, a dispetto di quanto affermato oggi dall’Ambasciatore israeliano, Israele continua a sostenere di non occupare più Gaza dal 2005.

E tuttavia, al di là degli abiti più o meno giuridici con i quali si voglia vestire l’occupazione, il ragionamento è stringente: se sussiste un blocco, si deve rispettare la Convenzione di Ginevra e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari; se il blocco non sussiste, non sussiste neanche la questione, giacché qualsivoglia imbarcazione sarebbe libera di raggiungere il porto di Gaza.

La succitata dichiarazione del portavoce dell’Esercito Israeliano, in cui si afferma «… è accaduto in acque esterne a quelle israeliane ma noi abbiamo il diritto di difenderci» potrebbe integrare una volontà di ascrizione dell’accaduto nella Legittima Interdizione Marittima, riconducibile alla figura elaborata dalla marina statunitense di Maritime Interdiction Operations. Le MIO, inquadrate nell’ambito più generale delle Maritime Security Operations (MSO), indicano l’attività di sorveglianza e interdizione del traffico marittimo commerciale di qualsiasi bandiera posta in essere da navi da guerra sulla base di un embargo navale decretato dall’ONU o nell’ambito dell’esercizio del diritto di legittima difesa internazionale.

Sebbene di norma le MIO costituiscano misure applicative di specifiche Risoluzioni ONU che stabiliscano un embargo navale – come nel caso del regime sanzionatorio marittimo verso la ex Iugoslavia adottato con le Risoluzioni 713, 724, 757, 787 e 820 nel periodo 1992-1995, o dell’embargo nei confronti dell’Iraq iniziato nel 1991 sulla base della Risoluzione 665 -, esse possono trovare substrato giuridico nel principio della legittima difesa internazionale, ex art. 51 della Carta, o anche nella difesa preventiva.

Questa può assumere la forma della anticipatory self-defence, quando si è nell’imminenza di un attacco armato, ed è da escludersi che tale forma risultasse integrata giacché Israele non stava per subire alcun attacco armato, o della pre-emptive self defence, qualora si voglia evitare una potenziale minaccia. Ed è questa l’unica categoria nella quale potrebbe rientrare una qualsiasi pur pacifica interferenza della Marina Militare Israeliana nei confronti di imbarcazioni straniere in acque internazionali. Peraltro la giustificazione della pre-emptive self defence è già stata storicamente posta a fondamento di operazioni marittime: si pensi al blocco di Cuba messo in atto dagli Stati Uniti nel 1962, definito «Maritime Quarantine», o a quelle più recenti condotte a partire dal 2002 contro al-Qa‛ida nel Golfo Arabico, integrante un vero e proprio blocco navale.

In tali ipotesi, le navi da guerra impegnate in operazioni di interdizione adottano misure navali di interferenza con la libertà di navigazione dei mercantili di bandiera straniera. E tuttavia risulta arduo riuscire a riscontrare la radice giuridica della loro legittimità, che potrebbe sussistere solo sulla base di un generico riferimento al regime della neutralità marittima proprio dei conflitti armati sul mare. Cioè a dire che Israele attuerebbe non già un’autodifesa anticipata rispetto ad un eventuale attacco armato ai suoi danni – anticipatory self-defence-, ma un’autodifesa preventiva –pre-emptive self defence- atta a contrastare una minaccia generica e solo potenziale, e sulla base di tale temuta minaccia attuerebbe un’interdizione marittima delle acque internazionali mediterranee.

E’ appena il caso di ricordare che, anche in caso di legittime interdizioni marittime, le misure adottabili dalla marina sono nell’ordine:

query, ovvero richiesta di identificazione e di informazioni circa destinazione, origine, immatricolazione e carico;

visit and search, ossia fermo, visita e ispezione;

diversion, dirottamento in porti diversi da quelli di destinazione anche in vista dell’eventuale sequestro del carico qualora ciò sia autorizzato da Risoluzioni ONU;

uso della forza secondo principi di necessità, proporzionalità e gradualità contro i mercantili che non obbediscono all’intimazione di fermo.

Questo è quanto, secondo il diritto consolidato, pur sulla base delle suesposte fragili motivazioni poste alla basa di una simile necessità, si sarebbe potuto legalmente verificare.

Appare opportuno smentire le voci che qualificano l’intervento israeliano come un atto di pirateria. Difatti, costituiscono pirateria gli atti di depredazione o di violenza compiuti in alto mare o in zone non soggette alla giurisdizione di alcuno Stato per fini privati dall’equipaggio di una nave o aereo privato ai danni di altra nave o aereo privato (Ginevra II,15; UNCLOS, 1O1 e 102).

Il fine privato può anche essere diverso dallo scopo di depredazione (animus furandi) ma la nave che esercita l’atto di violenza deve essere comunque privata e non statale. Allo stesso modo non rientrano nella relativa nozione gli atti di violenza o depredazione posti in essere da una nave ai danni di un’altra nave per fini politici.

Si potrebbe, al contrario, ravvisare un ben più grave atto di terrorismo marittimo. La materia costituisce oggetto della Convenzione di Roma del 10.3.1988 per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima, la quale è stata conclusa sotto gli auspici dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) per porre rimedio alle lacune della normativa internazionale in tutti quei casi in cui l’aggressione, difettando di alcuni requisiti per l’inquadramento nella nozione di pirateria, sarebbe rimasta scoperta di qualsivoglia abito giuridico.

Rientrano, pertanto, nella nozione di terrorismo marittimo tutti i casi di violenza commessi per finalità politiche o terroristiche a bordo di una nave privata che non possono essere considerati come pirateria. Tra le ipotesi criminose previste vi sono gli atti di violenza e minaccia per impadronirsi di una nave o causare danno a una persona imbarcata.

La Convenzione si applica nel caso in cui le azioni suindicate, che debbono essere commesse per mettere in pericolo la sicurezza della navigazione latamente intesa, in aderenza alla nozione di safety, vengano compiute quando la nave è in acque site «al di là dei limiti esterni del mare territoriale di un solo Stato» o, in base alla sua rotta, stia per navigare in tali acque o provenga dalle stesse. L’azione condotta dalla Marina Militare Israeliana potrebbe integrare tutti i requisiti per essere qualificata come atto di terrorismo marittimo.

Ma vi è di più. L’azione condotta dalla Marina Militare Israeliana potrebbe integrare anche una fattispecie di terrorismo tout court, stando alle definizioni del terrorismo date dall’ONU.

Si pensi alla definizione di terrorismo adottata per consensus dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella Risoluzione 49/60 del 9 dicembre 1994: «atti criminali finalizzati o volti a provocare uno stato di terrore tra la popolazione, all’interno di un gruppo di persone o tra determinate persone per fini politici. –Tali atti- sono, in ogni circostanza, ingiustificabili, quali che siano le considerazioni di natura politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa o di qualsiasi altra natura che possano essere addotte per giustificarli.»

Ancor più utile appare la cosiddetta definizione globale “indiretta” di terrorismo della Convenzione delle Nazioni Unite del 1999 per la soppressione delle attività di finanziamento del terrorismo che, all’art. 2, definisce indirettamente il terrorismo come «ogni atto finalizzato a causare la morte o lesioni personali gravi ad un civile o ad ogni altra persona che non prende attivamente parte alle ostilità in una situazione di conflitto armato, quando lo scopo di questo atto, per propria natura ovvero per il contesto nel quale viene commesso, è quello di intimidire una popolazione ovvero di costringere un governo od una organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto.»

Secondo Antonio Cassese, vi sarebbe la convergenza della Comunità internazionale su una nozione di terrorismo basata sui seguenti tre elementi: 1) gli atti posti in essere devono essere atti penalmente rilevanti per la maggior parte dei sistemi giuridici nazionali (omicidio, sequestro di persona, tortura ecc.); 2) essi devono avere la finalità di imporre ad un governo o ente internazionale di compiere o astenersi dal compiere un determinato atto, spargendo il terrore nella popolazione; 3) tali atti devono essere commessi sulla base di motivazioni politiche, religiose ovvero ideologiche, non devono pertanto essere motivati dal perseguimento di fini di lucro o interessi privati.

Il terrorismo come crimine internazionale autonomo. Gli atti terroristici possono essere qualificati come crimini internazionali laddove possiedano le seguenti caratteristiche: 1) devono esplicare i loro effetti in più Stati per persone coinvolte, mezzi impiegati, grado di violenza sprigionata; 2) devono essere commessi con il sostegno, la tolleranza o l’acquiescenza dello Stato nel cui territorio è insediata l’organizzazione terroristica. Il fatto che uno Stato sia incapace di debellare un’organizzazione terroristica che si trovi sul suo territorio (acquiescenza), oppure incoraggi o tolleri (sostegno o tolleranza) la sua presenza attribuisce internazionalità all’attività terroristica. Tale connotazione internazionale dell’atto terroristico lo rende una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, la terza e ultima caratteristica necessaria per poter qualificare l’atto terroristico come un crimine internazionale.

Atti di terrorismo e crimini contro l’umanità. Un atto di terrorismo è un crimine contro l’umanità laddove possa essere inserito nel contesto di una politica, statale o non statale, diretta alla commissione sistematica e generalizzata di atti inumani. Non vi è dubbio che l’attacco armato ad una missione umanitaria composta da volontari pacifisti in acque internazionali ben possa integrare un crimine contro l’umanità.

Competente a giudicare sui «più gravi crimini di portata internazionale», che costituiscono «motivo di allarme per l’intera Comunità internazionale» (artt. 1 e 5 Statuto CPI) è la Corte Penale Internazionale, il cui trattato istitutivo è entrato in vigore il 1 luglio 2002, al raggiungimento del deposito della 60a ratifica. Essa ha competenza a giudicare, tra gli altri, sui crimini contro l’umanità (art. 7), sui crimini di guerra (art. 8), e, formalmente, anche sul crimine di aggressione (art. 5, par. 2). Tuttavia, la competenza della CPI sull’aggressione è sospesa fino a quando l’Assemblea degli Stati parti della CPI non adotterà una definizione del crimine contro la pace costituito dall’aggressione. La CPI può intervenire sui crimini commessi nel territorio di uno Stato parte dello Statuto – ma Israele non ha mai ratificato il Trattato istitutivo -, oppure sui crimini commessi da persone aventi la nazionalità di una Parte contraente. L’attività della Corte è incentrata sul principio di complementarietà (art. 1), nel senso che la repressione dei crimini internazionali è riservata alla CPI solo laddove si riscontri che lo Stato che ha giurisdizione sia unable or unwilling, incapace o non intenzionato ad avviare e svolgere il processo (art. 17).

Una situazione nella quale siano stati commessi crimini internazionali può essere portata all’attenzione della Corte secondo tre diverse modalità.

E’ riconosciuto un potere generale di ogni Stato parte dello Statuto di richiedere alla Corte di indagare su ipotesi di commissione di crimini.

Il procuratore della CPI ha il potere di avviare un procedimento ex officio, dunque di aprire un’indagine di sua iniziativa, previo controllo della Pre-Trial Chamber, la Camera preliminare composta da tre giudici.

Infine, il Consiglio di Sicurezza può richiedere alla CPI di indagare su una situazione, nell’ambito delle azioni prevista dal Capitolo VII della Carta ONU (art. 13 dello Statuto CPI).

In conclusione, in aderenza al Diritto Internazionale Marittimo e al Diritto Internazionale Umanitario è possibile affermare che la sovranità di Israele sul mare si esaurisce all’interno delle sue acque territoriali e non si estende alle acque internazionali. Pertanto Israele non aveva il diritto di interferire con una nave di altra bandiera che navigasse in acque internazionali, neppure attraverso l’esercizio del diritto di visita o del diritto d’inseguimento.

Il blocco navale, qualora legittimamente effettuato, vincolerebbe Israele al disposto della Quarta Convenzione di Ginevra, e quindi a permettere il pacifico transito degli aiuti umanitari.

La Legittima Interdizione Marittima, qualora legittimamente effettuata, obbligherebbe Israele ad un uso della forza secondo principi di necessità, proporzionalità e gradualità.

La fattispecie di pirateria non risulterebbe integrata.

L’azione condotta dalla Marina Militare Israeliana appare integrare fattispecie di terrorismo marittimo, terrorismo tout court, terrorismo internazionale e crimini contro l’umanità, sottoponibili al giudizio della Corte Penale Internazionale.


* Claudia Milani è avvocatessa e giurista.

Si ringrazia “Megachip” per il permesso di riproduzione.


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